153/2012 pres. QUARANTA, red. FRIGO

 

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154/2012 pres. QUARANTA, red. GROSSI

 

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155/2012 pres. QUARANTA, red. LATTANZI

 

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156/2012 pres. QUARANTA, red. GALLO F.

 

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157/2012 pres. QUARANTA, red. CAROSI

 

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Deposito del 21-06-2012 (dalla 153 alla 157)

S.153/2012 del 18/06/2012
Camera di Consiglio del 15/02/2012, Presidente QUARANTA, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 34 del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Incompatibilit? del giudice - Incompatibilit? a celebrare il giudizio ordinario dibattimentale del giudice che, gi? investito della richiesta di convalida dell'arresto e di celebrazione del giudizio direttissimo in relazione allo stesso reato posto a carico del medesimo imputato, non abbia convalidato l'arresto per insussistenza del reato e abbia disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero - Mancata previsione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 209/2011


O.154/2012 del 18/06/2012
Camera di Consiglio del 09/05/2012, Presidente QUARANTA, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Art. 1 della legge 28/03/1968, n. 416; art. 1, c. 2? e 3?, della legge 27/10/1988, n. 460; art. 8 della legge 24/12/1993, n. 537; art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 20/12/1979, n. 761.

Oggetto: Sanit? pubblica - Indennit? di rischio per esposizione a radiazioni ionizzanti - Limitazione del diritto al personale non docente e al personale medico convenzionato con il SSN - Conseguente esclusione per i sanitari universitari che operano in strutture universitarie non convenzionate con il SSN.

Dispositivo: manifesta inammissibilit?
Atti decisi: ord. 277/2011


O.155/2012 del 18/06/2012
Camera di Consiglio del 09/05/2012, Presidente QUARANTA, Redattore LATTANZI


Norme impugnate: Art. 76, c. 4? bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115, aggiunto dall'art. 12 ter, c. 1?, lett. a), del decreto legge 23/05/2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24/07/2008, n. 125.

Oggetto: Patrocinio a spese dello Stato - Condizioni per l'ammissione - Soggetti gi? condannati con sentenza definitiva per i reati di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 (produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope) limitatamente alle ipotesi aggravate, ai sensi dell'art. 80, comma 2, del medesimo decreto - Previsione che il reddito sia da ritenersi superiore ai limiti fissati per l'accesso al benefici.

Dispositivo: manifesta inammissibilit?
Atti decisi: ord. 260/2011


O.156/2012 del 18/06/2012
Udienza Pubblica del 22/05/2012, Presidente QUARANTA, Redattore GALLO F.


Norme impugnate: Art. 16, c. 4?, della legge della Regione Piemonte 24/10/2002, n. 24.

Oggetto: Imposte e tasse - Norme della Regione Piemonte - Impianti di pretrattamento e trattamento di scarti animali ad alto rischio ed a rischio specifico BSE - Obbligo dei gestori di corrispondere un contributo annuo ai Comuni sede degli impianti - Denunciato superamento dei limiti all'autonomia finanziaria delle regioni.

Dispositivo: manifesta inammissibilit?
Atti decisi: ord. 185/2011


O.157/2012 del 18/06/2012
Camera di Consiglio del 23/05/2012, Presidente QUARANTA, Redattore CAROSI


Norme impugnate: Artt. 7, 9 e 14 della delibera legislativa della Regione Siciliana (disegno di legge n. 829) approvata dall'Assemblea regionale siciliana con deliberazione del 28/12/2011.

Oggetto: Bilancio e contabilit? pubblica - Norme della Regione Siciliana - Credito d'imposta - Previsione che per le finalit? di cui alla legge regionale n. 11/2009 (crediti d'imposta per nuovi investimenti e per la crescita dimensionale delle imprese) alla maggiore spesa per l'esercizio 2011 si provveda con riduzioni di pari importo del fondo istituito dall'art. 3 della legge regionale n. 15/2001 - Denunciata inidoneit? del mezzo di copertura finanziaria della maggiore spesa.
Modifiche all'art. 132 della legge regionale n. 4/2003, in materia di fondo di garanzia del personale della formazione professionale - Soppressione della previsione che la spesa connessa al finanziamento del fondo venga determinata annualmente dalla legge finanziaria ed in essa trovi copertura - Denunciata sostanziale sottrazione, a seguito del previsto venir meno della quantificazione annuale dello stanziamento, dell'iscrizione in bilancio degli stanziamenti in favore del fondo, alla preventiva autorizzazione legislativa e alla correlata indicazione dei mezzi con cui far fronte agli oneri previsti.
Norme in materia di agevolazioni per la ricomposizione agraria - Proroga per un biennio delle agevolazioni fiscali di cui all'art. 60 della legge regionale n. 2/2002 volte a favorire la ricomposizione fondiaria - Denunciata mancata indicazione di idonei elementi per la determinazione e valutazione del minore gettito.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 6/2012



pronuncia successiva

SENTENZA N. 153

ANNO 2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 34 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, nel procedimento penale a carico di C.M. con ordinanza del 23 maggio 2011, iscritta al n. 209 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 23 maggio 2011, il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 34 del codice di procedura penale, ?nella parte in cui non prevede, quale causa di incompatibilità del giudice a celebrare il giudizio ordinario dibattimentale, determinata da atti compiuti nel procedimento, l’ipotesi del giudice che, già investito in precedenza della richiesta di convalida dell’arresto e di celebrazione del giudizio direttissimo in relazione allo stesso reato posto a carico dello stesso imputato, non abbia convalidato l’arresto dell’imputato per insussistenza del reato e abbia disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero?.

Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo nei confronti di una persona imputata del reato di evasione (art. 385 del codice penale), perché, trovandosi sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari presso la propria abitazione, si era allontanata da tale luogo.

Dal fascicolo per il dibattimento emergeva che l’imputato era già stato tratto a giudizio per il medesimo fatto a seguito dell’arresto in flagranza avvenuto il 23 maggio 2009, in relazione al quale il pubblico ministero aveva chiesto la convalida e il contestuale giudizio direttissimo. Nel corso della relativa udienza – che era stata tenuta dallo stesso giudice rimettente – il pubblico ministero aveva chiesto, altresì, che all’imputato fosse applicata la misura cautelare della custodia in carcere.

Il giudice a quo non aveva, peraltro, convalidato l’arresto, ritenendo che ?non vi fossero elementi di prova per potere configurare il contestato reato di evasione?. Di conseguenza – ordinata la liberazione dell’imputato, se non detenuto per altra causa – aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 558, comma 5, cod. proc. pen.

In seguito a tale provvedimento, il pubblico ministero aveva nuovamente citato a giudizio l’imputato, nelle forme ordinarie. Dopo le formalità di apertura del dibattimento, il difensore aveva chiesto, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., il proscioglimento del proprio assistito perché il fatto non sussiste, richiamando la precedente decisione assunta dallo stesso giudice rimettente in sede di convalida dell’arresto. Il pubblico ministero si era opposto, chiedendo la prosecuzione del giudizio.

Ciò premesso, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa svolgere le funzioni di giudice del dibattimento ordinario il giudice che – precedentemente investito della richiesta di convalida dell’arresto dell’imputato e di contestuale giudizio direttissimo – non abbia convalidato l’arresto per ritenuta insussistenza del reato e abbia quindi disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Al riguardo, il rimettente rileva come la Corte costituzionale sia stata investita più volte di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio direttissimo il giudice che abbia convalidato l’arresto e applicato una misura cautelare nei confronti dell’imputato, dichiarandole – a partire dalla sentenza n. 177 del 1996 – tutte infondate o inammissibili.

In tali occasioni, la Corte aveva preso, peraltro, le mosse dal rilievo che il giudice del dibattimento, al quale è presentato l’imputato per il giudizio direttissimo, si pronuncia pregiudizialmente, con la convalida dell’arresto, sull’esistenza dei presupposti che gli consentono di procedere immediatamente al giudizio ed è, altresì, competente ad adottare incidentalmente misure cautelari, attratte nella competenza per la cognizione del merito. In una simile situazione, non poteva configurarsi alcuna menomazione dell’imparzialità del giudice, giacché questi adottava decisioni preordinate al proprio giudizio o incidentali rispetto ad esso.

L’ipotesi oggetto dell’odierno quesito di costituzionalità sarebbe, tuttavia, diversa: nella specie, infatti, il giudice rimettente non aveva convalidato l’arresto dell’imputato, ritenendo insussistente il reato di evasione contestato, e non aveva applicato, conseguentemente, alcuna misura cautelare (pur, come detto, richiesta), ma aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero, ?così chiudendo la fase processuale?. A seguito dell’emissione del decreto di citazione diretta a giudizio dell’imputato, il giudice a quo si è trovato, quindi, investito di un nuovo giudizio per lo stesso fatto e a carico del medesimo imputato, per effetto di un replicato esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero nelle forme ordinarie. Non si verserebbe più, pertanto, nella medesima fase processuale in seno alla quale era stata adottata la decisione sulla convalida, ma in una fase distinta, nel cui ambito la decisione precedentemente assunta dal rimettente non assumerebbe alcuna rilevanza ?endoprocedimentale?.

La pregressa decisione comprometterebbe, peraltro, in modo evidente l’imparzialità del giudizio sul merito, avendo implicato una valutazione in ordine alla sussistenza del reato del tutto analoga a quella poi richiesta in dibattimento dal difensore dell’imputato con l’istanza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.

Omettendo di prevedere l’incompatibilità del giudice nell’ipotesi considerata, la norma denunciata verrebbe a porsi, dunque, in contrasto con i principi di terzietà ed imparzialità del giudice, sanciti dall’art. 111, secondo comma, Cost., quali condizioni essenziali del ?giusto processo?.

Sarebbe violato, inoltre, l’art. 3 Cost., giacché l’ipotesi in discussione resterebbe soggetta ad un regime irragionevolmente differenziato rispetto a quello operante nel caso, strettamente affine, del giudice per le indagini preliminari che – chiamato a convalidare l’arresto e ad applicare una misura cautelare nei confronti dell’arrestato – rigetti le richieste per ritenuta insussistenza del fatto: evenienza nella quale egli diviene incompatibile alla funzione di giudizio in forza di quanto disposto dall’art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen.

La norma censurata violerebbe, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: ?CEDU?), che garantisce il diritto di ogni persona ad essere giudicata da un tribunale indipendente e imparziale.

Secondo quanto precisato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, agli effetti della citata norma convenzionale l’imparzialità deve essere valutata, di volta in volta, attraverso un procedimento soggettivo, cercando di determinare la convinzione ed il comportamento personali del giudice, e secondo un procedimento oggettivo, volto a verificare se egli offra garanzie sufficienti per escludere in proposito ogni legittimo dubbio. In ordine a quest’ultimo aspetto, è necessario, in particolare, chiedersi se, indipendentemente dalla condotta del giudice, determinati fatti verificabili ne pongano comunque in discussione l’imparzialità: in materia, infatti, anche le apparenze sono rilevanti, stante la fiducia che i tribunali di una società democratica debbono poter ispirare alle persone da essi giudicate (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 22 aprile 2004, Cianetti contro Italia).

In tale prospettiva, si è ravvisata la violazione dell’art. 6 della CEDU nel caso in cui il processo venga tenuto da un giudice che, nella fase preliminare, aveva applicato una misura cautelare all’imputato sul presupposto dell’esistenza di significativi elementi di colpevolezza a suo carico, manifestando, così, la sua convinzione in ordine alla responsabilità dell’imputato medesimo (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 24 maggio 1989, Hauschildt contro Danimarca, nonché la già citata sentenza Cianetti contro Italia).

Analoga conclusione si imporrebbe anche in rapporto alla fattispecie che viene in rilievo nel giudizio a quo: ossia allorché venga chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato, in sede dibattimentale, un giudice che si è già espresso sulla fondatezza dell’accusa nell’ambito del giudizio di convalida dell’arresto preordinato allo svolgimento del giudizio direttissimo, mai tenuto proprio in conseguenza del diniego della convalida.

Né, d’altra parte, sarebbe possibile adeguare l’art. 34 cod. proc. pen. alle previsioni dell’art. 6 della CEDU in via interpretativa, essendosi al cospetto di una norma eccezionale, non suscettibile di letture che ne dilatino il senso letterale.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

2.1.– Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, il giudice a quo avrebbe omesso di considerare che la nuova citazione a giudizio dell’imputato, disposta dal pubblico ministero dopo la restituzione degli atti ai sensi dell’art. 558, comma 5, cod. proc. pen., si fonda anche sulle risultanze dell’ulteriore attività investigativa, svolta dopo la precedente fase. Rispetto a tali nuovi elementi, il giudice pronunciatosi in sede di convalida dell’arresto non difetterebbe di imparzialità e terzietà, non avendoli mai apprezzati in precedenza.

2.2.– Nella memoria illustrativa successivamente depositata, la difesa dello Stato ha ulteriormente rilevato come la Corte costituzionale abbia reiteratamente escluso che la decisione sulla convalida dell’arresto e sull’applicazione di una misura cautelare determini l’incompatibilità del giudice chiamato a tenere il dibattimento con il rito direttissimo. Se tale conclusione è stata raggiunta con riguardo ad un giudice che, convalidato l’arresto, abbia disposto una misura cautelare, a maggior ragione essa dovrebbe valere in rapporto ad un giudice che non abbia convalidato l’arresto, né applicato alcuna misura, quale l’odierno rimettente.

La convalida dell’arresto, d’altra parte – come evidenziato dalla stessa giurisprudenza costituzionale – non comporta la formulazione di un giudizio di merito sulla colpevolezza, essendo volta soltanto a verificare la legittimità o meno dell’arresto medesimo. Il giudice della convalida – secondo quanto chiarito dalla Corte di cassazione – è chiamato, infatti, unicamente a riscontrare la sussistenza degli elementi che legittimavano l’arresto con verifica ?ex ante?, senza tenere conto degli elementi di indagine acquisiti successivamente, utilizzabili solo ai fini dell’ulteriore pronuncia sullo status libertatis. Il vaglio operato dal giudice in tale fase atterrebbe, pertanto, soltanto alla verifica del ragionevole uso dei poteri discrezionali della polizia giudiziaria.

Nella specie, il giudice a quo riferisce di non aver convalidato l’arresto sul presupposto ?che non vi fossero elementi di prova per configurare il reato?. Allora, delle due l’una: o il rimettente ha negato la convalida esprimendo un giudizio di merito sulla contestazione, nel qual caso il provvedimento adottato si esporrebbe a censura; oppure ha correttamente negato la convalida sulla base dei criteri indicati dalla giurisprudenza: ma in questo caso la decisione assunta non potrebbe determinare alcuna incompatibilità allo svolgimento della funzione di giudice del dibattimento, proprio perché non espressiva di un giudizio di merito sul reato contestato all’imputato.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 34 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa esercitare le funzioni di giudice del dibattimento il giudice che, precedentemente investito della richiesta di convalida dell’arresto dell’imputato e di contestuale giudizio direttissimo, non abbia convalidato l’arresto per ritenuta insussistenza del reato e abbia conseguentemente disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, per questo verso, i principi di terzietà e imparzialità del giudice, enunciati dall’art. 111, secondo comma, Cost., giacché la decisione precedentemente assunta, la quale si colloca in una distinta fase processuale, esplicherebbe effetti pregiudicanti sul successivo giudizio di merito in ordine alla fondatezza dell’accusa.

Sarebbe violato, altresì, l’art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento della fattispecie considerata rispetto all’ipotesi – in assunto, del tutto affine – in cui a pronunciarsi in senso negativo sulla convalida dell’arresto e sull’applicazione di una misura cautelare sia il giudice per le indagini preliminari, il quale, in conseguenza di ciò, non può partecipare al giudizio, alla luce di quanto disposto dall’art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen.

La norma censurata lederebbe, da ultimo, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con l’art. 6 della CEDU – che garantisce il diritto di ogni persona ad essere giudicata da un tribunale indipendente e imparziale – così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

2.– La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento presidiano i valori della sua terzietà e imparzialità – attualmente oggetto di espressa previsione nel secondo comma dell’art. 111 Cost., aggiunto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), ma già in precedenza pacificamente insiti nel sistema costituzionale. Tali norme risultano in particolare volte ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla “forza della prevenzione” – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (sentenza n. 224 del 2001).

Questa Corte ha da tempo precisato, in termini generali, le condizioni in presenza delle quali la previsione dell’incompatibilità del giudice deve ritenersi costituzionalmente necessaria. Anzitutto – benché l’architettura del nuovo rito penale richieda, in linea di principio, che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento – non basta a generare l’incompatibilità la semplice ?conoscenza? di atti anteriormente compiuti, ma occorre che il giudice sia stato chiamato a compiere una ?valutazione? di essi, strumentale all’assunzione di una decisione. In secondo luogo, detta decisione deve avere natura non ?formale?, ma ?di contenuto?: essa deve comportare, cioè, valutazioni che attengono al merito dell’ipotesi dell’accusa, e non già al mero svolgimento del processo. Da ultimo, affinché insorga l’incompatibilità, è necessario che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento, essendo del tutto ragionevole che, all’interno di ciascuna delle fasi, resti comunque preservata ?l’esigenza di continuità e di globalità?: prospettiva nella quale il giudice chiamato al giudizio di merito non incorre in incompatibilità allorché compia valutazioni preliminari, anche di merito, destinate a sfociare in quella conclusiva (venendosi altrimenti a determinare una ?assurda frammentazione? del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere) (sentenza n. 131 del 1996).

3.– In questo quadro, la Corte ha avuto modo di occuparsi reiteratamente dello specifico tema evocato dalla questione di legittimità costituzionale oggi in esame: vale a dire del possibile vulnus all’imparzialità della funzione giudicante recato dalla precedente assunzione di decisioni attinenti alla libertà personale dell’imputato.

Al riguardo, superando un originario orientamento di segno contrario, volto a configurare il merito dell’accusa e le cautele come ambiti distinti per oggetto e funzione (sentenze n. 124 del 1992 e n. 502 del 1991; ordinanza n. 516 del 1991), questa Corte ha ritenuto che le decisioni relative all’applicazione delle misure cautelari siano, in linea di principio, idonee a compromettere (o comunque a fare apparire compromessa) l’imparzialità della decisione conclusiva sulla responsabilità dell’imputato, in quanto presuppongono sempre un giudizio prognostico su detta responsabilità: giudizio che – non solo alla luce del nuovo codice di rito, ma anche delle modifiche introdotte dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa) – è divenuto più approfondito che in passato e tale da superare, ai fini che interessano, la distinzione tra valutazioni di tipo indiziario, rilevanti ai fini della cautela, e giudizio sul merito dell’accusa, basato su elementi di prova (sentenze n. 131 del 1996 e n. 432 del 1995).

Su tale premessa, la Corte ha quindi pronunciato numerose sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., nella parte in cui non rendeva incompatibile alla funzione di giudizio il giudice che, in altra fase del procedimento, avesse adottato decisioni de libertate. Tali pronunce hanno riguardato, anzitutto, l’incompatibilità alla funzione di giudizio dibattimentale del giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato (sentenza n. 432 del 1995); per poi estendersi al componente del tribunale del riesame o dell’appello de libertate che si sia pronunciato su una di dette misure: con la precisazione che, rispetto al componente del tribunale dell’appello (la cui cognizione, a differenza di quella del tribunale del riesame, è limitata ai motivi proposti), l’incompatibilità opera a condizione che egli si sia pronunciato ?su aspetti non esclusivamente formali? dell’ordinanza che provvede sulla misura cautelare (sentenza n. 131 del 1996).

L’effetto di pregiudizio derivante dal complesso di decisioni in materia di libertà personale ora ricordate è stato indi ravvisato anche in rapporto alla partecipazione al giudizio abbreviato e all’applicazione della pena su richiesta delle parti, trattandosi di riti speciali che implicano anch’essi un giudizio sul merito dell’accusa. In pari tempo, sono stati inclusi nell’area delle pronunce pregiudicanti anche i provvedimenti con i quali il giudice per le indagini preliminari disponga la modifica, la sostituzione o la revoca di misure cautelari personali, ovvero rigetti la richiesta di applicazione, modifica, sostituzione o revoca di una misura cautelare, formulata dal pubblico ministero o dall’imputato: ciò, in quanto, anche in tali casi, la pronuncia comporta una decisione sull’esistenza delle condizioni legittimanti la cautela personale, suscettibile di tradursi in ?un’anticipazione di valutazioni della medesima natura di quelle afferenti al merito della causa? (sentenza n. 155 del 1996).

4.– In sede di attuazione della delega legislativa per l’istituzione del giudice unico di primo grado (d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante ?Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado?), il legislatore ha aggiunto all’art. 34 cod. proc. pen. il comma 2-bis, che sancisce, in termini generali, l’incompatibilità alla funzione di giudizio (oltre che alla funzione di giudice dell’udienza preliminare o all’emissione del decreto penale di condanna) del magistrato che, nel medesimo procedimento, abbia esercitato funzioni di giudice per le indagini preliminari, fatta eccezione per le ipotesi in cui si sia limitato ad assumere uno dei provvedimenti (di marginale rilievo o anticipatori dell’istruzione dibattimentale) specificamente elencati nei successivi commi 2-ter e 2-quater.

Con tale disposizione – come emerge dalla relazione al d.lgs. n. 51 del 1998 – il legislatore ha inteso recepire le numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale pronunciate in precedenza da questa Corte in tema di incompatibilità del giudice per le indagini preliminari – tra cui, prime fra tutte, quelle dianzi ricordate – accorpandole in una previsione unitaria di più immediata leggibilità, che peraltro ne supera l’ambito con la configurazione di una incompatibilità di tipo “funzionale”, nella precipua prospettiva di prevenire ulteriori pronunce del medesimo segno.

Tra i provvedimenti atti a determinare l’incompatibilità, ai sensi dell’art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen., rientrano tipicamente quelli assunti dal giudice per le indagini preliminari nell’ambito del giudizio di convalida dell’arresto: subprocedimento entro il quale possono, peraltro, collocarsi – e solitamente si collocano – anche decisioni in ordine all’applicazione di misure coercitive nei confronti dell’arrestato (art. 391, comma 5, cod. proc. pen.).

Per effetto delle ricordate sentenze di questa Corte, nonché del loro recepimento legislativo nei termini ora indicati, deve ritenersi ormai presente nell’ordinamento processuale penale il principio in forza del quale – anche fuori dei casi indicati dal citato art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen. – l’adozione di provvedimenti inerenti alla libertà personale dell’imputato, i quali implichino una valutazione prognostica in ordine alla sua responsabilità, ancorché su base indiziaria e allo stato degli atti, impediscono al giudice che li ha emessi di partecipare al giudizio, sempre che i provvedimenti in questione si collochino in una fase processuale distinta da quella pregiudicata.

5.– Uno dei tratti peculiari del giudizio direttissimo è rappresentato, peraltro, dal possibile innesto del subprocedimento di convalida dell’arresto all’interno della medesima fase processuale in cui si esercita la funzione di giudizio: quando l’arresto non sia stato già in precedenza convalidato (art. 449, comma 5, cod. proc. pen.), l’arrestato può essere, infatti, presentato in vinculis al giudice del dibattimento per la convalida e il contestuale giudizio (artt. 449, comma 1, e 558, commi 1 e seguenti, cod. proc. pen., con riferimento, rispettivamente, al giudizio davanti al tribunale collegiale e al tribunale monocratico). In tale ipotesi, l’esito positivo del procedimento di convalida è condizione affinché possa procedersi con il rito speciale: qualora l’arresto non sia convalidato, il giudice deve, infatti, restituire gli atti al pubblico ministero, salvo che l’imputato e il pubblico ministero consentano che il giudizio si svolga nella forma speciale (art. 449, comma 2, e 558, comma 5, cod. proc. pen.).

A tale riguardo, questa Corte – in linea con il principio dianzi indicato – ha reiteratamente escluso che l’art. 34 cod. proc. pen. possa ritenersi costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio direttissimo il giudice che ha convalidato l’arresto ed applicato una misura cautelare nei confronti dell’imputato presentato a dibattimento per detto giudizio. In tale caso, non è infatti configurabile una menomazione dell’imparzialità del giudice, in quanto le decisioni de libertate si collocano all’interno della medesima fase processuale che si ipotizza pregiudicata, assumendo una valenza prodromica o incidentale rispetto al giudizio attribuito allo stesso giudice del dibattimento. Con la convalida dell’arresto, il giudice del dibattimento si pronuncia pregiudizialmente sull’esistenza dei presupposti che gli consentono di procedere immediatamente al giudizio ed è, altresì, competente ad adottare incidentalmente misure cautelari, attratte nella competenza per la cognizione del merito (sentenza n. 177 del 1996; ordinanze n. 90 del 2004, n. 40 del 1999, n. 286 del 1998, n. 433, n. 316 e n. 267 del 1996).

6.– La fattispecie ora sottoposta all’esame della Corte è, tuttavia, strutturalmente diversa da quella in precedenza scrutinata.

Secondo quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione, il rimettente – chiamato a convalidare l’arresto e ad applicare una misura cautelare (la custodia in carcere) nei confronti dell’imputato presentatogli per il giudizio direttissimo – ha, infatti, negato la convalida, sul rilievo che non sussistessero elementi per ritenere configurabile, nel caso di specie, il reato contestato (evasione). In tal modo, il giudice a quo non si è limitato a pronunciarsi sulla convalida – come sembra presupporre l’Avvocatura dello Stato, nel formulare le sue difese – ma ha anche disatteso, sulla base di una prognosi negativa circa la responsabilità dell’imputato, la richiesta di applicazione della misura coercitiva, adottando così un provvedimento cui questa Corte ha già specificamente annesso possibili effetti pregiudicanti. In conseguenza di ciò, il rimettente ha restituito gli atti al pubblico ministero, il quale ha poi tratto nuovamente a giudizio l’imputato nelle forme ordinarie.

Il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero, determinando la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, ha creato una evidente frattura tra la fase – prodromica al giudizio direttissimo – in cui è stata assunta la decisione negativa sulla convalida e sulla richiesta di applicazione della misura cautelare, e la successiva fase dibattimentale ordinaria, instaurata per effetto della citazione diretta a giudizio dell’imputato da parte del pubblico ministero. In tale situazione, la decisione precedentemente assunta, “a monte” della disposta restituzione degli atti, non può essere, dunque, qualificata come decisione preordinata o incidentale rispetto al giudizio dibattimentale ordinario del quale il rimettente è attualmente investito, inidonea, in quanto tale, a compromettere (o fare apparire compromessa) l’imparzialità della funzione giudicante.

Come lo stesso giudice a quo correttamente evidenzia, una volta venuta meno l’unicità di fase, la decisione anteriormente assunta in nulla si differenzia da quella adottata dal giudice per le indagini preliminari, che – investito della richiesta di convalida dell’arresto e di applicazione di una misura cautelare nei confronti dell’indagato – parimenti la respingesse, divenendo con ciò incompatibile alla funzione di giudizio nel dibattimento ordinario.

7.– Considerato, dunque, che – come in precedenza evidenziato – questa Corte ha reiteratamente avuto modo di affermare il principio in forza del quale il giudice che si è pronunciato in una diversa fase processuale sulla libertà personale dell’imputato, formulando un apprezzamento prognostico (positivo o negativo) in ordine alla sua responsabilità (ancorché su base indiziaria e allo stato degli atti), diviene incompatibile all’esercizio della funzione di giudizio sul merito dell’accusa; e rilevato che – per quanto detto – tale principio può considerarsi ormai penetrato, come paradigma “di sistema”, nel vigente ordinamento processuale penale, ne deriva che di esso il giudice rimettente può fare direttamente applicazione nell’ipotesi in esame, senza la necessità di invocare una nuova pronuncia additiva di questa Corte sul punto, che sarebbe del tutto superflua.

La questione va dichiarata, pertanto, in questi termini, non fondata in rapporto a tutti i parametri invocati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi indicati in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 34 del codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, in riferimento agli articoli 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI


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ORDINANZA N. 154

ANNO 2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge 28 marzo 1968, n. 416 (Indennità di rischio da radiazione per i tecnici di radiologia medica); dell’articolo 1, commi 2 e 3, della legge 27 ottobre 1988, n. 460 (Modifiche ed integrazioni alla legge 28 marzo 1968, n. 416, concernente l’istituzione delle indennità di rischio da radiazioni per i tecnici di radiologia medica); dell’articolo 8 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) e dell’articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), promosso dal Consiglio di Stato nel procedimento vertente tra G.F. e l’Università degli studi di Pisa con ordinanza dell’8 luglio 2011, iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 maggio 2012 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto che, con ordinanza depositata l’8 luglio 2011, il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 32 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 28 marzo 1968, n. 416 (Indennità di rischio da radiazione per i tecnici di radiologia medica); dell’art. 1, commi 2 e 3, della legge 27 ottobre 1988, n. 460 (Modifiche ed integrazioni alla legge 28 marzo 1968, n. 416, concernente l’istituzione delle indennità di rischio da radiazioni per i tecnici di radiologia medica); dell’art. 8 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) e dell’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), ?nella parte in cui non prevedono la corresponsione della indennità professionale ragguagliata all’esposizione alle radiazioni ionizzanti ai sanitari universitari che operano in strutture universitarie non convenzionate con il servizio sanitario nazionale?;

che il giudice a quo premette che un professore, già associato presso la facoltà di medicina veterinaria dell’Università di Pisa, si è visto respingere la richiesta di corresponsione dell’indennità di rischio per esposizione a radiazioni ionizzanti in dipendenza della sua attività, in quanto l’indennità in questione sarebbe prevista, a norma dell’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979, soltanto per il personale universitario che opera nelle cliniche e negli istituti universitari convenzionati con il servizio sanitario nazionale;

che, reputando fondata la decisione del giudice di primo grado – posto che l’istituto presso il quale il ricorrente lavorava non risulta fosse convenzionato con il servizio sanitario nazionale e che il suo rapporto di lavoro non era disciplinato da accordi contrattuali ai sensi della legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego) –, il giudice rimettente, conformemente alle doglianze espresse sul punto dall’appellante, considera, tuttavia, di dubbia compatibilità costituzionale il quadro normativo di riferimento, nella parte in cui verrebbe a tracciare un trattamento discriminatorio tra personale universitario, parimenti esposto al rischio derivante da radiazioni ionizzanti;

che in entrambe le situazioni prese in considerazione (docente che operi in una struttura convenzionata o meno) si avrebbe, infatti, il caso di una persona esposta, in ragione dell’attività di istituto, alle radiazioni ed ai connessi rischi, con la conseguenza che, se ?simile è la possibilità che ne subisca conseguenze dannose per la salute, simile è dunque la pretesa ad essere, per monetizzazione, indennizzato?;

che, d’altra parte, la circostanza, del tutto casuale, del convenzionamento della struttura con il servizio sanitario nazionale, parrebbe anche aleatoria e indipendente dalla fattispecie sostanziale, dal momento che essa non avrebbe nulla a che vedere con la quantità di esposizione al rischio ed integrerebbe un fattore esterno al rapporto di lavoro, totalmente sottratto alla disponibilità dell’interessato;

che la stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe avuto modo di sottolineare come sia necessario che ?venga valorizzato, anche al di là della qualifica rivestita, il dato della effettiva esposizione al rischio, connesso all’esercizio non occasionale né temporaneo di determinate mansioni? (sentenza n. 343 del 1992);

che, pertanto, il richiamato art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979 – nel prevedere, per il ?personale universitario che presta servizio presso i policlinici, le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e cura convenzionati con le regioni e con le unità sanitarie locali?, un trattamento economico perequativo rispetto a quello del personale delle unità sanitarie locali di pari funzioni, mansioni e anzianità, anche per quanto riguarda le indennità previste dall’accordo unico nazionale, con limitazione al solo personale universitario convenzionato dell’applicabilità dell’art. 20 del d.P.R. 3 agosto 1990, n. 319 (Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 21 febbraio 1990 concernente il personale del comparto delle università, di cui all’art. 9 d.P.R. 5 marzo 1986, n. 68), che prevede la corresponsione della indennità di rischio da radiazioni –, risulterebbe in contrasto con il principio di uguaglianza e con l’art. 32 Cost. sulla tutela della salute, nonché, unitamente all’art. 33 Cost., anche con l’art. 36, ?che in combinato con l’art. 3 è a base del principio generale detto della “perequazione retributiva” a parità di condizioni lavorative di base?;

che, nella sequenza degli interventi normativi nel settore di riferimento, l’indennità in questione risulterebbe destinata – come affermato da questa Corte nella richiamata sentenza n. 343 del 1992 – a compensare, dal punto di vista pecuniario, il pericolo per la salute generato da siffatto, particolare rischio professionale;

che le limitazioni censurate non sarebbero, dunque, giustificate e, con esse, la ?non generale applicabilità a tutti i sanitari universitari, contrattualizzati o meno, convenzionati o meno, in assenza di un carattere distintivo che abbia attinenza alla ragione del beneficio?;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la proposta questione;

che il giudice rimettente non avrebbe, anzitutto, chiarito la natura, il grado e l’entità dell’esposizione al rischio di radiazioni ionizzanti cui il ricorrente sarebbe stato sottoposto, nonché la durata e la non occasionalità della stessa, circostanze, queste, essenziali per poter dedurre l’identità del rischio radiologico sopportato dal ricorrente rispetto ai docenti che prestano servizio presso una università convenzionata e quindi per rilevare la eventuale disparità di trattamento;

che, nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, spettando alla discrezionalità del legislatore stabilire l’ambito della normativa di settore, nella specie circoscritta al personale sanitario ed equiparato che, come il personale universitario, svolgano attività medica presso un ente sanitario;

che la stessa richiamata sentenza di questa Corte, nel dare rilievo al dato oggettivo della esposizione a rischio radiologico, avrebbe tuttavia lasciato fermo il presupposto della appartenenza dell’operatore sanitario al SSN, in linea, d’altra parte, con la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato;

che per i pubblici impiegati non appartenenti al SSN sarebbero, infatti, previste altre forme di indennità per il rischio da esposizione a radiazioni ionizzanti;

che, in definitiva, mentre la protezione sanitaria e le misure di sicurezza del lavoro devono essere assicurate in egual misura a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano esposti al pericolo delle radiazioni, la scelta di una monetizzazione del rischio rientra, invece, nel quadro delle opzioni di politica legislativa, discrezionali e, nella specie, non irragionevolmente esercitate.

Considerato che il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 32 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 28 marzo 1968, n. 416 (Indennità di rischio da radiazione per i tecnici di radiologia medica); dell’art. 1, commi 2 e 3, della legge 27 ottobre 1988, n. 460 (Modifiche ed integrazioni alla legge 28 marzo 1968, n. 416, concernente l’istituzione delle indennità di rischio di radiazioni per i tecnici di radiologia medica); dell’art. 8 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) e dell’art. 31 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), nella parte in cui non prevedono la corresponsione dell’indennità professionale ragguagliata alla esposizione alle radiazioni ionizzanti ai sanitari veterinari che operano in strutture universitarie non convenzionate con il servizio sanitario nazionale;

che, al riguardo, questa Corte – chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 2 e 3, della citata legge n. 460 del 1988, sollevata nella parte in cui tali disposizioni attribuirebbero l’indennità di rischio da radiazioni nella misura più elevata unicamente al personale medico e tecnico di radiologia, con esclusione di ogni altra categoria – ha sottolineato come la disciplina in questione si giustifichi alla luce di una presunzione normativa di esposizione al rischio da radiazioni ionizzanti in ragione delle mansioni naturalmente connesse alla qualifica rivestita; senza che ciò escluda la presenza, fra il personale esposto al rischio “in modo discontinuo, temporaneo o a rotazione”, di posizioni lavorative individuali assimilabili a quelle proprie dei medici e tecnici di radiologia in quanto esposte al rischio radiologico in misura continua e permanente e ?destinate pertanto a godere – previo accertamento da parte della commissione di cui all’art. 58 del d.P.R. n. 270 del 1987 – dell’indennità di rischio nella misura più elevata? (sentenza n. 343 del 1992);

che, ad avvalorare la necessità di una stretta correlazione tra riconoscimento della indennità e concreto espletamento di mansioni che inducano alla esposizione effettiva al rischio da radiazioni, si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, la quale ha avuto modo di sottolineare che l’indennità di rischio da radiazioni, in quanto tipica indennità ambientale, e cioè connessa a specifiche situazioni dell’ambiente di lavoro, è ?dovuta solo in connessione ai particolari rischi che la stessa è diretta a prevenire, mentre non ha ragion d’essere allorché tali condizioni vengano meno per apprezzabili periodi di tempo, in conseguenza del mancato svolgimento dell’attività lavorativa nelle condizioni di rischio qualificato previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva? (Cassazione, sezione lavoro, 24 febbraio 2011, n. 4525);

che, pertanto, anche alla luce delle richiamate pronunce, assume aspetto dirimente, agli effetti sia dell’an sia del quantum, la precisa individuazione della posizione lavorativa del dipendente, vuoi sul versante delle mansioni o attribuzioni effettivamente svolte e della sussistenza, in concreto, del requisito dell’esposizione a rischio, vuoi sotto il profilo della natura e intensità del rischio medesimo, essendo diverso il regime applicabile a seconda che si tratti di una esposizione costante ovvero che si realizzi “in modo discontinuo, temporaneo o a rotazione”;

che, peraltro, sui punti innanzi indicati, l’ordinanza di rimessione ha omesso qualsiasi precisazione, pur indispensabile ai fini dello scrutinio sulla rilevanza della questione, essendosi limitata a segnalare che il giudizio di impugnazione era stato proposto da persona che ricopriva la funzione di professore associato presso la facoltà di medicina veterinaria dell’Università di Pisa, istituto di patologia speciale e clinica chirurgica, e che a fondamento del ricorso il medesimo aveva assunto di essere stato ?quotidianamente esposto alle radiazioni ionizzanti prodotte dalle apparecchiature radiografiche e radioscopiche?;

che l’omessa descrizione della fattispecie preclude la disamina nel merito del quesito di legittimità costituzionale, anche in considerazione della mancata indicazione dell’epoca in cui il ricorrente sarebbe stato esposto al rischio di radiazioni ionizzanti – dalla ordinanza di rimessione si deduce soltanto che la richiesta di corresponsione della indennità era stata formulata nel lontano 1993 – ai fini della individuazione della disciplina applicabile;

che, anzi – e proprio a quest’ultimo riguardo – il giudice rimettente coinvolge nel dubbio di legittimità costituzionale una nutrita gamma di previsioni normative, via via succedutesi nel tempo, senza puntualizzare alcunché in ordine alla relativa specifica pertinenza alla vicenda oggetto del giudizio a quo;

che, in particolare, l’ordinanza non chiarisce le ragioni per le quali viene censurata la legge-base n. 416 del 1968, concernente i soli tecnici di radiologia medica, nonché la disciplina dettata per il personale del servizio sanitario nazionale dalla legge n. 460 del 1988, posto che la censura di illegittimità – per omissione – riguarda il trattamento riservato al personale docente e non quello di altri settori, in sé, come è evidente, del tutto legittimo;

che, inoltre, il provvedimento di rimessione omette di fornire qualsiasi delucidazione circa le ragioni per le quali viene investito dal dubbio di costituzionalità anche l’art. 8 della legge n. 537 del 1993, considerato che il comma 6 di tale articolo ha soppresso, a far data dal 1? gennaio 1995, l’indennità di rischio radiologico, riconducendo la stessa indennità nell’ambito delle indennità professionali previste in sede di accordo di lavoro e correlate a specifiche funzioni;

che neppure perspicua si rivela l’insistita evocazione, fra le norme impugnate, dell’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979, posto che tale disposizione si limita a sancire la corresponsione di una indennità perequativa al personale universitario “convenzionato” rispetto al trattamento economico complessivo riconosciuto al personale delle unità sanitarie locali di pari funzioni, mansioni e anzianità, senza alcuno specifico richiamo delle “voci” (e, dunque, delle particolari “indennità”) che compongono il trattamento complessivo da perequare;

che, pertanto, la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge 28 marzo 1968, n. 416 (Indennità di rischio da radiazione per i tecnici di radiologia medica); dell’art. 1, commi 2 e 3, della legge 27 ottobre 1988, n. 460 (Modifiche ed integrazioni alla legge 28 marzo 1968, n. 416, concernente l’istituzione delle indennità di rischio da radiazioni per i tecnici di radiologia medica); dell’art. 8 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) e dell’art. 31 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), sollevata dal Consiglio di Stato, in riferimento agli articoli 3, 32 e 36 della Costituzione, con l’ordinanza descritta in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 155

ANNO 2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 76, comma 4-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), aggiunto dall’art. 12-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, promosso dalla Corte d’appello di Milano sull’istanza proposta da S.F. con ordinanza depositata il 7 settembre 2011, iscritta al n. 260 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 maggio 2012 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto che, con ordinanza depositata il 7 settembre 2011 (r.o. n. 260 del 2011), la Corte d’appello di Milano, terza sezione penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, nonché in relazione all’articolo 6, comma 3, lettera c), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dell’articolo 76, comma 4-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), introdotto dall’art. 12-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), nel testo integrato dalla relativa legge di conversione (art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125), ?nella parte in cui impone che il reddito degli imputati? già condannati con sentenza definitiva per il reato previsto dall’art. 73, nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), ?sia da ritenersi superiore ai limiti previsti per essere ammessi al gratuito patrocinio?;

che la Corte rimettente premette che, nell’ambito di un procedimento per il reato di cui agli artt. 73, commi 1 e 6, e 80, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990, P.G. è stato ammesso, con provvedimento del Tribunale di Milano del 30 settembre 2004, al gratuito patrocinio e ha nominato un difensore di fiducia;

che, il 21 gennaio 2011, il difensore ha presentato richiesta di liquidazione dei compensi per la sua attività professionale relativa al giudizio di cassazione e al giudizio di rinvio successivo all’annullamento della precedente sentenza di appello;

che, secondo quanto riferisce ancora la Corte rimettente, prima dell’apertura del dibattimento del giudizio di rinvio è entrato in vigore l’art. 12-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione, che ha introdotto il comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, in base al quale P.G., già condannato con due sentenze definitive per il reato di cui agli artt. 73 e 80, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990, ?non potrebbe beneficiare del patrocinio a spese dello Stato con riferimento alla causa penale in oggetto?;

che, con separato decreto del 20 giugno 2011, la Corte rimettente ha ritenuto che l’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 non abbia effetto retroattivo e conseguentemente ha liquidato il compenso spettante al difensore di fiducia per tutte le attività svolte prima dell’entrata in vigore della norma stessa, riservandosi la decisione sulla richiesta relativa al compenso per l’attività difensiva svolta successivamente;

che su quest’ultima richiesta non si potrebbe decidere senza affrontare la questione di legittimità costituzionale della norma in esame, perché ?se si ritiene che tale norma sia costituzionalmente legittima, nulla potrebbe essere liquidato ulteriormente per patrocinio gratuito, mentre, se tale norma fosse costituzionalmente illegittima, la Corte dovrebbe procedere, secondo gli usuali criteri, a determinare e liquidare il residuo compenso al difensore?;

che, richiamati l’art. 6, comma 3, lettera c), della CEDU e l’art. 24, terzo comma, Cost., la Corte rimettente sottolinea come entrambe le norme colleghino ?l’istituto del patrocinio gratuito alla sola, sufficiente, condizione di precarietà economica dell’interessato?, laddove l’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 stabilisce che per coloro che sono già stati condannati per i reati di cui agli artt. 74, comma 1, e 80, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990, ?il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per essere ammessi al gratuito patrocinio, introducendo una presunzione iuris et de iure, quindi assoluta e quindi resistente a qualsiasi prova contraria?, e che in tal modo, assistita da una presunzione assoluta, la norma ?nega a quei pregiudicati la possibilità, in ogni caso, di beneficiare del patrocinio a spese dello Stato?;

che, a parere della Corte rimettente, sia la norma costituzionale, sia quella della CEDU ?non distinguono, ai fini del beneficio, tra accusati in ragione dei loro precedenti?, in quanto, posta l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, esse ?collegano la gratuita disponibilità dei mezzi per agire o difendersi in giudizio non all’esistenza di precedenti condanne definitive per determinati delitti, bensì, come è ragionevole che sia, alla sola, ed attuale, indisponibilità di risorse economiche del richiedente?;

che sarebbe dubbia la legittimità costituzionale di una disposizione che ?sancisca in concreto l’esclusione del patrocinio gratuito tout court, in ragione di una presunzione assoluta?, che ?appare forzare il dato delle norme di rango superiore, dato coniugabile invece con l’introduzione di una presunzione iuris tantum, che, onerando di prova il richiedente, consenta al giudice una verifica, anche attraverso gli organi deputati ai controlli, della situazione concreta legittimante, costituita dalla permanente indisponibilità di mezzi per approntare la propria difesa?;

che è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

che l’Avvocatura dello Stato ha rilevato che, con la sentenza n. 139 del 2010, la Corte costituzionale si è già pronunciata su una questione analoga a quella sollevata dalla Corte di appello di Milano e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria;

che, secondo l’Avvocatura dello Stato, alla luce di tale pronuncia, il rimettente è in grado di adottare un’interpretazione della norma che ne assicuri la compatibilità con la Costituzione, sicché la questione dovrebbe essere dichiarata non fondata.

Considerato che la Corte d’appello di Milano, terza sezione penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, nonché in relazione all’articolo 6, comma 3, lettera c), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dell’articolo 76, comma 4-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), introdotto dall’art. 12-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), nel testo integrato dalla relativa legge di conversione (art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125), ?nella parte in cui impone che il reddito degli imputati? già condannati con sentenza definitiva per il reato previsto dall’art. 73, nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), ?sia da ritenersi superiore ai limiti previsti per essere ammessi al gratuito patrocinio?;

che la Corte rimettente ha affermato, per un verso, che la disposizione censurata stabilisce che, per coloro che sono già stati condannati per i reati indicati, ?il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per essere ammessi al gratuito patrocinio, introducendo una presunzione iuris et de iure, quindi assoluta e quindi resistente a qualsiasi prova contraria? e, per altro verso, che i parametri evocati sarebbero compatibili con ?l’introduzione di una presunzione iuris tantum, che, onerando di prova il richiedente, consenta al giudice una verifica, anche attraverso gli organi deputati ai controlli, della situazione concreta legittimante, costituita dalla permanente indisponibilità di mezzi per approntare la propria difesa?;

che la questione è manifestamente inammissibile;

che, come ha ricordato l’Avvocatura dello Stato, questa Corte, con la sentenza n. 139 del 2010, ha dichiarato ?l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria?;

che questa Corte ha rilevato che ?non può ritenersi irragionevole che, sulla base della comune esperienza, il legislatore presuma che l’appartenente ad una organizzazione criminale, come quelle indicate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delittuosa profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato?, ma contrasta con i principi costituzionali ?il carattere assoluto di tale presunzione, che determina una esclusione irrimediabile, in violazione degli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost.?;

che ?si deve quindi ritenere che la norma censurata sia costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria?;

che sempre, secondo la sentenza n. 139 del 2010, ?l’introduzione, costituzionalmente obbligata, della prova contraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, che continua dunque ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presupposti reddituali per l’accesso al patrocinio. Spetterà al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di “non abbienza”, e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine?;

che la Corte rimettente ha omesso qualsiasi valutazione di tale sentenza, che, con la declaratoria di illegittimità costituzionale, ha determinato un assetto dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 immune dalle censure formulate dal giudice a quo, ?frutto esclusivamente della erronea ricostruzione normativa operata dal rimettente? (ordinanza n. 334 del 2007);

che preliminare a qualsiasi altra valutazione (anche relativa all’art. 6 della CEDU richiamato senza far riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.) è il rilievo che tale erronea ricostruzione normativa comporta la manifesta inammissibilità della questione.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 76, comma 4-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), aggiunto dall’art. 12-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, nonché in relazione all’articolo 6, comma 3, lettera c), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalla Corte d’appello di Milano con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI


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ORDINANZA N. 156

ANNO 2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, della legge della Regione Piemonte 24 ottobre 2002, n. 24 (Norme per la gestione dei rifiuti), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Cuneo nel giudizio vertente tra la s.r.l. Industria Produzione Mangimi – IN.PRO.MA., la s.p.a. Gestione Esazioni Convenzionate – GEC ed il Comune di Ceresole d’Alba con ordinanza del 16 maggio 2011, iscritta al n. 185 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visti l’atto di costituzione della s.r.l. Industria Produzione Mangimi – IN.PRO.MA., nonché l’atto di intervento della Regione Piemonte;

udito nell’udienza pubblica del 22 maggio 2012 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi gli avvocati Marco Pizzetti per la s.r.l. IN.PRO.MA. e Luca Antonini per la Regione Piemonte.

Ritenuto che la Commissione tributaria provinciale di Cuneo, con ordinanza del 16 maggio 2011, ha sollevato, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 119 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 16, comma 4, della legge della Regione Piemonte 24 ottobre 2002, n. 24 (Norme per la gestione dei rifiuti), il quale stabilisce che ?I soggetti che gestiscono impianti di pre-trattamento e di trattamento di scarti animali tali quali ad alto rischio e a rischio specifico di encefalopatia spongiforme bovina BSE corrispondono ai comuni sede degli impianti un contributo minimo annuo di 0,25 euro ogni 100 chilogrammi di materiale trattato nell’anno. I soggetti che gestiscono impianti di riutilizzo di scarti animali trattati ad alto rischio e a rischio specifico BSE corrispondono ai comuni sede degli impianti un contributo minimo annuo di 0,15 euro ogni 100 chilogrammi di materiale riutilizzato nell’anno?;

che, secondo quanto riferito dal giudice rimettente in punto di fatto: a) la s.r.l. Industria Produzione Mangimi – IN.PRO.MA., gestore di un impianto di ?pre-trattamento e di trattamento di scarti animali tali quali ad alto rischio e a rischio specifico? di BSE, aveva impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Cuneo l’avviso di accertamento con il quale la s.p.a. Gestione Esazioni Convenzionate – GEC, per conto del Comune di Ceresole d’Alba, le aveva chiesto il pagamento del contributo previsto per l’anno 2006 dalla suddetta disposizione di legge regionale; b) la Commissione tributaria adíta aveva sollevato questione di legittimità costituzionale di detta disposizione; c) la Corte costituzionale, con ordinanza n. 309 del 2009, preso atto che, successivamente alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione, la disposizione censurata era stata abrogata dall’art. 21 della legge della Regione Piemonte 30 settembre 2008, n. 28 (Assestamento al bilancio di previsione per l’anno finanziario 2008 e disposizioni finanziarie), aveva restituito gli atti alla Commissione tributaria rimettente perché procedesse ad una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della sollevata questione di costituzionalità e perché, a tal fine, apprezzasse, ?altresí?, l’incidenza sulla questione medesima sia di quanto statuito dalla sentenza della Corte n. 102 del 2008 (per la quale, nell’esercizio dell’autonomia tributaria di cui all’art. 119 della Costituzione, ?le Regioni a statuto ordinario sono assoggettate al duplice limite costituito dall’obbligo di esercitare il proprio potere di imposizione in coerenza con i princípi fondamentali di coordinamento e dal divieto di istituire o disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri aventi lo stesso presupposto, almeno fino all’emanazione della legislazione statale di coordinamento?) sia della ?recente giurisprudenza relativa alla specialità o meno degli scarti animali rispetto alla generalità dei rifiuti, anche alla luce della normativa comunitaria e nazionale in materia?; d) le parti, dopo la restituzione degli atti alla Commissione, avevano ulteriormente dedotto sulla questione di legittimità costituzionale nei termini dettagliatamente riportati nella medesima seconda ordinanza di rimessione;

che il medesimo giudice rimettente premette, in punto di diritto, che il giudizio di non manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale deve limitarsi ad una delibazione sommaria della questione, ?al solo scopo di evitare giudizi pretestuosi di costituzionalità?, essendo sufficiente ?anche il solo sospetto di incostituzionalità?, escluso ogni approfondimento, il quale potrebbe ?risolversi in una inopportuna anticipazione o anticipata confutazione della decisione della Corte costituzionale?;

che, sulla base di tali premesse, il giudice a quo, nel proporre una questione di legittimità costituzionale analoga a quella precedentemente da lui stesso sollevata, si limita alla seguente duplice affermazione: a) ?il primo dei due parametri costituzionali che la ricorrente sostiene essere stati violati, previsti dall’art. 119 della Costituzione ed evidenziati dalla Corte costituzionale nell’ordinanza del 20/11/2009 [rectius: n. 309 del 2009] (coerenza della norma regionale con i princípi fondamentali di coordinamento), sembra sussistere nel caso in esame: il Tributo istituito dalla Legge n. 549/1995 prima facie pare avere sostanzialmente uguali le principali caratteristiche (tra cui fine, soggetto passivo, base imponibile ed ammontare […]) del Contributo istituito dalla Legge Regionale n. 24/2002?; b) ?opinabile pare invece la valutazione della sussistenza o meno del secondo parametro (differenza di presupposto del tributo regionale)?;

che si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale la ricorrente nel giudizio principale s.r.l. IN.PRO.MA., richiamando genericamente ?tutte le considerazioni svolte negli atti avanti la Commissione Tributaria di Cuneo a sostegno dell’incostituzionalità? della norma censurata ?e della rilevanza della questione di costituzionalità? e chiedendo l’accoglimento della questione medesima;

che la Regione Piemonte è intervenuta, deducendo l’inammissibilità o, in subordine, l’infondatezza della questione, integrando le proprie deduzioni con successiva memoria;

che, in particolare, la Regione intervenuta: a) eccepisce preliminarmente l’inammissibilità dell’atto di costituzione della s.r.l. IN.PRO.MA., perché motivato solo per relationem agli atti del giudizio a quo; b) eccepisce l’inammissibilità dell’ordinanza di rimessione perché questa non solo è priva di motivazione in ordine alla valutazione della perdurante rilevanza dopo la sopravvenuta abrogazione della disposizione censurata (valutazione espressamente richiesta dalla Corte costituzionale con l’ordinanza di restituzione atti n. 309 del 2009), ma è anche formulata in termini dubitativi, alternativi e ancipiti, non prendendo posizione né sulla natura giuridica del contributo regionale (prelievo non tributario a carattere commutativo o tributo) né sulla sussistenza del medesimo presupposto tra tale contributo e ed il tributo speciale statale previsto dall’art. 3, commi da 24 a 40, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica); c) deduce, in subordine, la non fondatezza della sollevata questione, perché il denunciato contributo regionale ha natura non tributaria (dovendosi qualificare, in via principale, come una misura diretta a compensare, in funzione commutativa, i costi di sviluppo, manutenzione e ammodernamento aggiuntivi a carico della collettività, nonché quelli relativi alle politiche di informazione ambientale e sociali conseguenti all’insediamento degli impianti; ovvero, in via subordinata, come una prestazione imposta non tributaria, avente funzione meramente ?indennizzatoria? dell’onere derivante dalla localizzazione degli impianti in un determinato Comune ) o, comunque, anche ove fosse qualificabile come tributo costituirebbe un legittimo tributo proprio della Regione, istituito con legge regionale in armonia con i princípi dell’ordinamento tributario (?chi inquina paga?; favorire una minore produzione di rifiuti inquinanti) e con un presupposto (pre-trattamento, trattamento o riutilizzo degli scarti animali a rischio di encefalopatia spongiforme bovina) diverso da quello del tributo statale previsto dall’art. 3 della legge n. 549 del 1995 (deposito in discarica dei rifiuti solidi, compresi i fanghi palabili), a nulla rilevando al riguardo qualsiasi eventuale mutamento della giurisprudenza in ordine alla specialità degli scarti animali rispetto agli altri rifiuti;

che la s.r.l. IN.PRO.MA., con memoria presentata in prossimità dell’udienza di discussione, insiste per l’accoglimento della questione, osservando che: a) la sopravvenuta abrogazione della disposizione denunciata non ha effetto retroattivo e, perciò, la permanenza della rilevanza della sollevata questione è in re ipsa e non necessita di particolare motivazione; b) l’ordinanza di rimessione, nella sua dettagliata disamina del fatto, fornisce tutti gli elementi necessari per la valutazione della rilevanza della questione, che discende, in definitiva, dall’applicabilità al caso di specie di un tributo sui rifiuti istituito con legge regionale; c) la sollevata questione non è ancipite od incerta, ma si risolve nella prospettazione del dubbio che il tributo regionale rispetti i princípi fondamentali dell’ordinamento e che il suo presupposto si differenzi da quello di tributi statali; d) il rimettente, al riguardo, non doveva pronunciarsi sulla fondatezza di tale dubbio, non potendo anticipare il giudizio della Corte costituzionale; e) la stessa Corte costituzionale con l’ordinanza n. 309 del 2009, nel restituire gli atti al giudice a quo, ha implicitamente dato per acquisita la natura tributaria del contributo regionale e non ha chiamato la Commissione tributaria a svolgere nuove valutazioni sul punto, ma si è limitata a demandarle il cómpito di valutare la perdurante rilevanza della questione, in ragione del rapporto di specialità o complementarità della disciplina degli scarti animali rispetto alla normativa sui rifiuti e ad apprezzare l’incidenza sulla questione stessa di quanto statuito con la sentenza n. 102 del 2008, in relazione ai limiti delle Regioni a statuto ordinario nell’esercizio dell’autonomia tributaria di cui all’art. 119 Cost.; f) il denunciato contributo regionale ha natura di tributo, data la coattività del prelievo, collegato ad un presupposto economico (quantità di materiale trattato) e non ad un servizio o ad una prestazione onerosa posti in essere dal Comune in favore del gestore e certamente non identificabili nei generici “disagi” od “uso di beni pubblici” menzionati dalla difesa della Regione Piemonte; g) il presupposto del contributo regionale (riguardante la fase ?intermedia? del trattamento, indipendentemente dalla finalizzazione di questo alla recuperabilità del rifiuto come materia prima o come energia) si sovrappone a quello del tributo speciale statale per il deposito in discarica di rifiuti solidi (comma 25 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995) e per lo smaltimento tal quale in impianti di incenerimento senza recupero di energia (comma 40 dello stesso articolo 3); h) per effetto di tale sovrapposizione, la ratio del contributo regionale si pone in evidente contrasto con quella del tributo speciale statale, perché, mentre quest’ultimo – nel sottoporre a tassazione rifiuti non recuperabili (con rivalsa obbligatoria del gestore sul soggetto che conferisce in discarica) – è diretto a disincentivare la produzione di rifiuti irrecuperabili e ad incentivare lo smaltimento diretto o la produzione di rifiuti recuperabili, il censurato contributo regionale – nel sottoporre a prelievo anche i rifiuti assoggettati a pre-trattamento o trattamento per il recupero della materia prima o dell’energia – ha l’effetto, invece, di disincentivare la recuperabilità dei rifiuti stessi; i) la normativa regionale denunciata víola, altresí, il secondo comma, lettera s), ed il terzo comma dell’art. 117 Cost., perché va ascritta alla materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato ?tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali?, è disciplinata da Regolamenti comunitari e, comunque, quand’anche si ritenesse ascrivibile alla materia di competenza legislativa concorrente ?valorizzazione dei beni culturali e ambientali?, non costituirebbe attuazione di alcun principio fondamentale fissato dalla legge statale.

Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Cuneo dubita – in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 119 della Costituzione – della legittimità dell’art. 16, comma 4, della legge della Regione Piemonte 24 ottobre 2002, n. 24 (Norme per la gestione dei rifiuti), secondo cui ?I soggetti che gestiscono impianti di pre-trattamento e di trattamento di scarti animali tali quali ad alto rischio e a rischio specifico di encefalopatia spongiforme bovina BSE corrispondono ai comuni sede degli impianti un contributo minimo annuo di 0,25 euro ogni 100 chilogrammi di materiale trattato nell’anno. I soggetti che gestiscono impianti di riutilizzo di scarti animali trattati ad alto rischio e a rischio specifico BSE corrispondono ai comuni sede degli impianti un contributo minimo annuo di 0,15 euro ogni 100 chilogrammi di materiale riutilizzato nell’anno?;

che – contrariamente a quanto eccepito dalla intervenuta Regione Piemonte – l’atto di costituzione della parte privata s.r.l. IN.PRO.MA. è ammissibile, perché, pur non essendo consentito (per il principio di autosufficienza degli atti difensivi presentati a questa Corte) il rinvio per relationem agli atti del processo principale, nella specie detto atto di costituzione, oltre a tale inammissibile rinvio, contiene anche la richiesta di accoglimento della questione sollevata dal giudice a quo;

che pertanto tale parte privata, oltre a concludere per la dichiarazione di illegittimità costituzionale, fa chiaramente proprie le deduzioni del rimettente e, quindi, rispetta in parte qua il disposto del primo periodo del comma 1 dell’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, secondo cui ?La costituzione delle parti nel giudizio davanti alla Corte ha luogo […] mediante deposito in cancelleria […] delle deduzioni comprensive delle conclusioni?;

che, comunque, a proposito dell’analoga disposizione prevista per la parte resistente ai ricorsi che promuovono questioni di legittimità costituzionale in via principale dall’art. 19, comma 3, delle medesime norme integrative (?La parte convenuta può costituirsi in cancelleria […] con memoria contenente le conclusioni e l’illustrazione delle stesse?), questa Corte ha precisato che la presentazione di deduzioni difensive nell’atto di costituzione non è richiesta a pena di invalidità della costituzione stessa (ex plurimis, sentenza n. 168 del 2010);

che la suddetta questione viene proposta dopo che, con riferimento ad una analoga questione sollevata nello stesso giudizio principale, questa Corte ha disposto la restituzione degli atti alla sopra indicata Commissione tributaria per ius superveniens costituito dall’art. 21 della legge della Regione Piemonte 30 settembre 2008, n. 28 (Assestamento al bilancio di previsione per l’anno finanziario 2008 e disposizioni finanziarie), abrogativo del censurato comma 4 dell’art. 16 della legge reg. Piemonte n. 24 del 2002 (ordinanza n. 309 del 2009);

che questa Corte, con l’ordinanza di restituzione degli atti, ha invitato il giudice a quo a procedere ad una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della sollevata questione di costituzionalità e, a tal fine, ad apprezzare, ?altresí?, l’incidenza sulla questione medesima sia di quanto statuito dalla sentenza della Corte n. 102 del 2008 (secondo cui, nell’esercizio dell’autonomia tributaria di cui all’art. 119 della Costituzione, ?le Regioni a statuto ordinario sono assoggettate al duplice limite costituito dall’obbligo di esercitare il proprio potere di imposizione in coerenza con i princípi fondamentali di coordinamento e dal divieto di istituire o disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri aventi lo stesso presupposto, almeno fino all’emanazione della legislazione statale di coordinamento?) sia della ?recente giurisprudenza relativa alla specialità o meno degli scarti animali rispetto alla generalità dei rifiuti, anche alla luce della normativa comunitaria e nazionale in materia?;

che il giudice rimettente, nel riproporre la questione, non ha proceduto alle valutazioni demandategli dalla Corte con la predetta ordinanza;

che, infatti, la Commissione tributaria provinciale, dopo aver dettagliatamente esposto, senza prendere posizione, le deduzioni delle parti sulla questione medesima, si limita ad affermare che: a) ?il primo dei due parametri costituzionali che la ricorrente sostiene essere stati violati, previsti dall’art. 119 della Costituzione ed evidenziati dalla Corte costituzionale nell’ordinanza del 20/11/2009 [rectius: n. 309 del 2009] (coerenza della norma regionale con i princípi fondamentali di coordinamento), sembra sussistere nel caso in esame: il Tributo istituito dalla Legge n. 549/1995 prima facie pare avere sostanzialmente uguali le principali caratteristiche (tra cui fine, soggetto passivo, base imponibile ed ammontare […]) del Contributo istituito dalla Legge Regionale n. 24/2002?; b) ?opinabile pare invece la valutazione della sussistenza o meno del secondo parametro (differenza di presupposto del tributo regionale)?;

che, con tale formulazione, il giudice a quo sembra aver inteso esaminare esclusivamente le due condizioni (da lui inesattamente denominate ?parametri costituzionali che la ricorrente sostiene essere stati violati, previsti dall’art. 119 della Costituzione?) indicate dalla sentenza di questa Corte n. 102 del 2008, citata nell’ordinanza di restituzione degli atti n. 309 del 2009, per la legittima istituzione di tributi propri da parte delle Regioni a statuto ordinario, cioè – secondo le espressioni utilizzate nella stessa ordinanza di rimessione – la ?coerenza con i princípi fondamentali di coordinamento?, da un lato, e la ?differenza di presupposto del tributo regionale?, dall’altro;

che, pertanto, la Commissione tributaria: a) non motiva sulla perdurante rilevanza della questione, nonostante l’intervenuta abrogazione della disposizione censurata, cosí sottraendosi allo specifico onere di adeguata motivazione richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte nel caso di questioni aventi ad oggetto disposizioni abrogate (ex plurimis, ordinanze n. 96 del 2009; n. 126 del 2008; n. 426 e n. 126 del 2007); b) lascia irrisolta l’alternativa circa la natura tributaria o non tributaria del denunciato contributo regionale, cosí omettendo di valutare anche sotto tale profilo la rilevanza della questione; c) non prende posizione circa eventuali connotati di specialità della disciplina degli scarti animali rispetto a quella della generalità dei rifiuti e, quindi, circa l’incidenza sulla questione di tale eventuale specialità; d) non deduce alcun contrasto rispetto agli evocati parametri perché, quanto all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., omette di prospettare qualsiasi censura e, quanto all’art. 119 Cost., si mostra perplesso (?pare?) escludendo, per un verso, che la disposizione violi i princípi fondamentali di coordinamento dettati dalla legge statale e ritenendo, per altro verso, meramente ?opinabile? che il contributo regionale abbia lo stesso presupposto del tributo speciale statale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi previsto dall’art. 3, commi da 20 a 40, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica);

che tali lacune motivazionali non possono essere colmate neppure facendo ricorso al contenuto della precedente ordinanza di rimessione sia perché la citata pronuncia di questa Corte n. 309 del 2009 espressamente richiedeva al giudice a quo nuove valutazioni sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione; sia perché, in generale, la riproposizione di una questione in relazione alla quale la Corte costituzionale abbia restituito gli atti al rimettente per ius superveniens introduce un giudizio di legittimità costituzionale diverso, che non costituisce la prosecuzione del precedente e che esige, pertanto, una nuova ordinanza di rimessione, dotata di motivazione autosufficiente in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, alla stregua del principio di autonomia di ciascun giudizio di costituzionalità in via incidentale quanto ai requisiti necessari per la sua valida instaurazione, cosí da restare preclusa ogni possibilità di integrazione o di rinvio per relationem alla precedente ordinanza di rimessione (ex plurimis, ordinanze n. 33 del 2006; n. 22 del 2005; n. 498 del 2002; n. 310 e n. 232 del 2000; n. 117 del 1974);

che, dunque, la questione è manifestamente inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, della legge della Regione Piemonte 24 ottobre 2002, n. 24 (Norme per la gestione dei rifiuti), sollevata, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 119 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Cuneo con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 157

ANNO 2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 7, 9 e 14 della delibera legislativa della Regione siciliana (disegno di legge n. 829), recante ?Disposizioni in materia di contabilità e di patto di stabilità regionale. Modifiche di norme in materia di sistema pensionistico. Nuove norme in materia di condizioni di eleggibilità alla carica di sindaco?, approvata dall’Assemblea regionale siciliana con deliberazione del 28 dicembre 2011, promosso dal Commissario dello Stato per la Regione siciliana con ricorso notificato il 5 gennaio 2012, depositato in cancelleria il 12 gennaio 2012 ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 2012.

Visto l’atto di costituzione della Regione siciliana;

udito nella camera di consiglio del 23 maggio 2012 il Giudice relatore Aldo Carosi.

Ritenuto che il Commissario dello Stato per la Regione siciliana, con ricorso in via principale ritualmente notificato e depositato, ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 7, 9 e 14 della delibera legislativa del 28 dicembre 2011 dell’Assemblea regionale siciliana, con la quale la stessa ha approvato il disegno di legge n. 829, recante ?Disposizioni in materia di contabilità e patto di stabilità regionale. Modifiche di norme in materia di sistema pensionistico. Nuove norme in materia di condizioni di eleggibilità alla carica di sindaco?, per violazione dell’art. 81, terzo e quarto comma, della Costituzione;

che il ricorrente richiama la giurisprudenza costituzionale, secondo la quale il legislatore regionale non può sottrarsi a quella fondamentale esigenza di chiarezza e solidità del bilancio, cui l’art. 81 Cost. si ispira (sentenza n. 359 del 2007) e la copertura di nuove spese, come quelle previste dagli articoli oggetto di gravame, deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, nonché in equilibrato rapporto con le spese che si intende effettuare (sentenza n. 141 del 2010);

che, nel ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, il ricorrente rileva come il precetto dell’art. 81 Cost. sia applicabile anche alle Regioni, comprese quelle ad autonomia differenziata, trovando pieno vigore il principio unitario espresso all’art. 5 Cost., nonché il vincolo della legislazione della Regione siciliana alle superiori direttive della disciplina giuridica dello Stato di cui all’art. 1 dello statuto speciale siciliano, con conseguente obbligo di mantenere nei propri bilanci un equilibrio finanziario sostenibile, in vista anche della stretta correlazione in cui l’attività e le risorse dello Stato e delle Regioni vengono reciprocamente a trovarsi (sentenze n. 54 del 1958, n. 123 del 1975, n. 331 del 1988, n. 26 del 1991, n. 446 del 1994);

che il ricorrente rileva che l’art. 7 della delibera legislativa n. 829 del 2011 (d’ora in avanti ?art. 7?), intitolato ?Credito d’imposta?, stabilisce che ?1. Per le finalità di cui alla legge regionale 17 novembre 2009, n. 11, da conseguire secondo i termini e le modalità procedurali previste dai provvedimenti attuativi della medesima legge, richiamati all’articolo 1 della legge regionale 12 agosto 2011, n. 20, è autorizzato a valere sull’esercizio finanziario 2011, l’utilizzo dell’ulteriore importo di 70.000 migliaia di euro, cui si provvede con riduzione di pari importo del fondo di cui all’articolo 3 della legge regionale 26 ottobre 2001, n. 15 e successive modifiche ed integrazioni. 2. L’impegno di spesa derivante dall’attuazione del comma 1 può essere assunto entro quindici giorni successivi alla data di entrata in vigore della presente legge?;

che la dotazione del fondo di cui all’articolo 3 della legge della Regione siciliana 26 ottobre 2001, n. 15 (Variazioni al bilancio della Regione ed al bilancio dell’Azienda delle foreste demaniali della Regione siciliana per l’anno finanziario 2001 – Assestamento) – osserva il ricorrente – è costituita, per espressa previsione del medesimo art. 3, ?da una quota dell’avanzo di amministrazione dell’esercizio finanziario 2000, determinato nel rendiconto generale della Regione per il medesimo esercizio, corrispondente ad entrate tributarie accertate che verranno riscosse a mezzo ruolo nei successivi esercizi finanziari?;

che il fondo indisponibile in questione, capitolo 215713, dovrebbe essere considerato, secondo il ricorrente, una voce compensativa nelle spese di importo pari a quello dei residui attivi ritenuti di improbabile esazione e che dalla lettura dei dati riportati nei conti consuntivi dei bilanci della Regione siciliana si ricaverebbe il progressivo aumento dell’ammontare dell’avanzo di amministrazione in valore assoluto nel decennio 2000-2010;

che, a giudizio del ricorrente, persistendo nel bilancio della Regione siciliana l’esistenza di residui di incerto titolo e di dubbia riscossione per importi di notevole consistenza, la riduzione del fondo indisponibile di cui all’art. 3 della legge della Regione siciliana n. 15 del 2001 non sarebbe idonea a dare copertura finanziaria agli oneri derivanti dall’art. 7 del disegno di legge regionale, in quanto non riconducibile ad alcuna delle modalità di attuazione dell’art. 81 Cost. contemplate dall’art. 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), le cui previsioni costituiscono principio fondamentale del coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117 Cost. e si applicano anche alle Regioni a statuto speciale, in quanto finalizzate alla tutela dell’unità economica della Repubblica;

che il ricorrente procede poi all’esame dell’impugnato art. 9 del medesimo disegno di legge regionale, il quale sotto la rubrica ?Modifiche all’articolo 132 della legge regionale 16 aprile 2003, n. 4, in materia di fondo di garanzia del personale della formazione professionale? dispone: ?Al comma 2 dell’articolo 132 della legge regionale 16 aprile 2003, n. 4, le parole da “Per gli anni successivi” sino a “27 aprile 1999, n. 10” sono soppresse?;

che la modifica prevista dall’art. 9 della delibera legislativa in esame con riguardo all’art. 132, comma 2, della legge della Regione siciliana 16 aprile 2003, n. 4 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2003) sottrarrebbe l’iscrizione in bilancio degli stanziamenti in favore del Fondo di garanzia per il personale della formazione professionale all’indispensabile preventiva autorizzazione legislativa e alle conseguenti indicazioni delle risorse utilizzabili per la relativa spesa;

che a tale proposito il Commissario rileva che secondo il tenore del vigente art. 132 della legge della Regione siciliana n. 4 del 2003 la spesa connessa al finanziamento del Fondo in questione è determinata annualmente dalla legge finanziaria (tab. G) ed in essa trova copertura e che il venir meno della quantificazione annuale dello stanziamento e della correlata indicazione dei mezzi con cui far fronte agli oneri previsti consentirebbe l’iscrizione diretta nel bilancio di nuove e maggiori spese prive di specifica e puntuale copertura, in contrasto con il precetto posto dall’art. 81, terzo e quarto comma, Cost.;

che sul punto il Commissario richiama la costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale non può ritenersi idonea la copertura di spese di carattere permanente, come l’attuale, con il richiamo di capitoli già previsti in bilancio (sentenza n. 123 del 1975), né con l’iscrizione della nuova o maggiore spesa in bilancio, ove non trovi corrispondenza in una preesistente legge sostanziale che preveda la quantificazione della spesa, nonché i mezzi per farvi fronte (sentenza n. 31 del 1961);

che a giudizio del ricorrente l’iscrizione della spesa nei documenti finanziari degli anni successivi sarebbe priva dell’indispensabile indicazione dei mezzi di copertura, di cui all’art. 81, commi terzo e quarto Cost., per effetto della proposta modifica all’art. 132, comma 2, della legge della Regione siciliana n. 4 del 2003;

che, infine, il ricorrente censura l’art. 14 del medesimo disegno di legge regionale, il quale sotto la rubrica ?Norme in materia di agevolazioni per la ricomposizione fondiaria? dispone: ?1. Al comma 1 dell’articolo 60 della legge regionale 26 marzo 2002, n. 2, e successive modifiche ed integrazioni, le parole “31 dicembre 2011” sono sostituite dalle parole “31 dicembre 2013”. 2. Gli oneri derivanti dal comma 1, valutati in 100 migliaia di euro per ciascuno degli esercizi finanziari 2012 e 2013, trovano riscontro nel bilancio pluriennale della Regione per il triennio 2011-2013, UPB 4.2.1.5.2.?;

che in tal modo l’art. 14 prevede l’ulteriore proroga per un biennio delle agevolazioni fiscali di cui all’art. 60 della legge della Regione siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2002), volte a favorire la ricomposizione fondiaria e consistenti nell’esenzione dalle imposte di bollo e catastale e nella riduzione dell’imposta di registro ed ipotecaria in favore degli acquirenti di terreni agricoli;

che, a giudizio del Commissario dello Stato, la quantificazione delle minori entrate determinate dalle disposte agevolazioni fiscali sarebbe ictu oculi incongrua, se raffrontata con quelle contenute nell’art. 32 della legge della Regione siciliana n. 2 del 2002 e nell’art. 60 della legge della Regione siciliana 8 febbraio 2007, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2007), che disponevano entrambi le medesime agevolazioni fiscali rispettivamente nel triennio 2002-2004 e 2007-2009;

che il ricorrente si duole che, in totale assenza di elementi idonei per la determinazione e la valutazione del minore gettito nella relazione tecnica redatta dall’amministrazione regionale ai sensi dell’art. 7 della legge della Regione siciliana 8 luglio 1977, n. 47 (Norme in materia di bilancio e contabilità della Regione siciliana), la quantificazione delle minori entrate contenute nella norma in questione sarebbe da ritenersi arbitraria, con conseguente presumibile insufficienza delle risorse individuate per farvi fronte;

che, ad avviso del Commissario dello Stato, l’art. 14 violerebbe l’obbligo di una ragionevole e credibile indicazione degli oneri e dei relativi mezzi di copertura di cui all’art. 81, quarto comma, Cost.

Considerato che, successivamente all’impugnazione, la delibera legislativa della Regione siciliana (disegno di legge n. 829), recante ?Disposizioni in materia di contabilità e di patto di stabilità regionale. Modifiche di norme in materia di sistema pensionistico. Nuove norme in materia di condizioni di eleggibilità alla carica di sindaco?, approvata dall’Assemblea regionale siciliana con deliberazione del 28 dicembre 2011, è stata pubblicata nel Supplemento ordinario n. 1 della Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 3 del 20 gennaio 2012, come legge della Regione siciliana 12 gennaio 2012, n. 7 (Disposizioni in materia di contabilità e di patto di stabilità regionale. Modifiche di norme in materia di sistema pensionistico. Nuove norme in materia di condizioni di eleggibilità alla carica di sindaco), con omissione delle disposizioni oggetto di censura;

che l’intervenuto esaurimento del potere promulgativo, il quale viene esercitato necessariamente in modo unitario e contestuale rispetto al testo deliberato dall’Assemblea regionale siciliana, preclude definitivamente la possibilità che le parti della legge impugnate ed omesse in sede di promulgazione acquistino o esplichino una qualche efficacia e conseguentemente fa venir meno l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis, ordinanze n. 11, n. 12, n. 27 e n. 28 del 2012; n. 2 e n. 57 del 2011, n. 74, n. 155 e n. 212 del 2010, n. 186 del 2009, n. 304 del 2008, n. 229 e n. 358 del 2007, n. 410 del 2006);

che, pertanto, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, deve dichiararsi cessata la materia del contendere.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Aldo CAROSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI