Ultime pronunce pubblicate deposito del 28/07/2010
 
284/2010 pres. AMIRANTE, red. FINOCCHIARO   visualizza pronuncia 284/2010
285/2010 pres. AMIRANTE, red. SAULLE   visualizza pronuncia 285/2010
286/2010 pres. AMIRANTE, red. FINOCCHIARO   visualizza pronuncia 286/2010

 
 

Deposito del 28/07/2010 (dalla 284 alla 286)

 
S.284/2010 del 20/07/2010
Udienza Pubblica del 08/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 7 della legge 05/05/1976, n. 248.

Oggetto: Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Provvidenze in favore delle vedove e degli orfani dei grandi invalidi sul lavoro deceduti per cause estranee all'infortunio sul lavoro o alla malattia professionale - Assegno speciale continuativo di cui all'art. 1 della legge n. 248/1976 - Onere di presentazione della domanda entro il termine di centottanta giorni dalla data del decesso dell'assicurato.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 197/2009
S.285/2010 del 20/07/2010
Udienza Pubblica del 06/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Art. 70 del decreto legislativo 26/03/2001, n. 151.

Oggetto: Lavoro - Tutela - Liberi professionisti - Indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto ed i tre mesi successivi - Limitazione alla madre libera professionista, con esclusione del padre libero professionista.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ord. 240 e 283/2009
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O.286/2010 del 20/07/2010
Camera di Consiglio del 23/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 180, c. 8°, e 126 bis, c. 2°, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), come modificato dal decreto legge 27/06/2003, n. 151, convertito con modificazioni, in legge 01/08/2003, n. 151.

Oggetto: Circolazione stradale - Infrazioni al codice della strada - Infrazioni per le quali è prevista la decurtazione di punti dalla patente - Obbligo del proprietario del veicolo di comunicare all'organo di polizia i dati del conducente non identificato al momento dell'infrazione - Sanzione amministrativa pecuniaria prevista in caso di inosservanza - Applicabilità anche se il proprietario (persona fisica) comunichi di non poter risalire all'effettivo conducente all'epoca dell 'infrazione.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 46 e 47/2010

pronuncia successiva

SENTENZA N. 284

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, primo comma, della legge 5 maggio 1976, n. 248 (Provvidenze in favore delle vedove e degli orfani dei grandi invalidi sul lavoro deceduti per cause estranee all’infortunio sul lavoro o alla malattia professionale ed adeguamento dell’assegno di incollocabilità di cui all’articolo 180 del testo unico approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124), promosso dalla Corte d’appello di Catania, nel procedimento vertente tra l’INAIL e R. A., con ordinanza del 29 maggio 2008, iscritta al n. 197 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione dell’INAIL nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi l’avvocato Luigi La Peccerella per l’INAIL e l’avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte d’appello di Catania – nel corso del procedimento promosso dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro nei confronti di R.A., ed avente ad oggetto la domanda di corresponsione dell’assegno continuativo di cui all’art. 1 della legge 5 maggio 1976, n. 248 (Provvidenze in favore delle vedove e degli orfani dei grandi invalidi sul lavoro deceduti per cause estranee all’infortunio sul lavoro o alla malattia professionale ed adeguamento dell’assegno di incollocabilità di cui all’articolo 180 del testo unico approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124), come modificato dall’art. 11 della legge 10 maggio 1982, n. 251 (Norme in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, primo comma, della legge n. 248 del 1976 nella parte in cui prevede che, per ottenere l’assegno di cui all’art. 1, gli aventi diritto devono presentare domanda «entro il termine di centottanta giorni dalla data del decesso dell’assicurato».

Il Collegio rimettente premette che il giudice del lavoro di Catania aveva accolto la domanda di R.A. – quale figlio inabile di R.A., titolare di rendita INAIL con un grado di inabilità permanente relativa superiore al sessantacinque per cento – avente ad oggetto la corresponsione del predetto assegno continuativo, stante la mancata contestazione da parte dell’INAIL della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della prestazione pretesa e ritenuta la tardività della eccezione di decadenza dall’Istituto formulata ai sensi dell’art. 7 della legge n. 248 del 1976.

A seguito di gravame proposto dall’INAIL – che aveva ribadito l’eccezione di intervenuta decadenza ai sensi della disposizione richiamata per avere l’appellato proposto istanza di corresponsione dell’assegno continuativo solo in data 29 febbraio 2000, e quindi ben oltre il termine di centottanta giorni dalla data del decesso del padre R.A., avvenuto il 10 aprile 1997 – la Corte d’appello ha rilevato che l’Istituto lamentava l’erroneità della decisione del giudice di prime cure nella parte in cui aveva qualificato l’eccezione in questione quale eccezione in senso stretto e, pertanto, rilevabile solo ad istanza di parte con le preclusioni di cui all’art. 416 cod. proc. civ. Al riguardo, il giudice a quo ha osservato che il termine di decadenza previsto dall’art. 7 della legge n. 248 del 1976 per la presentazione della domanda di assegno continuativo, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, ha natura sostanziale ed è pertanto rilevabile d’ufficio, sicché il mancato rispetto del suddetto termine determina l’estinzione del diritto senza alcuna possibilità di sanatoria, con la conseguente rilevanza della questione sollevata ai fini della definizione del giudizio.

In punto di non manifesta infondatezza della questione, la Corte rimettente sospetta che la perentorietà del termine previsto per la presentazione della domanda, in ragione della decorrenza dalla data del decesso dell’assicurato, si ponga in contrasto anzitutto con l’art. 3 Cost., tenuto conto di quanto statuito con la sentenza n. 14 del 1994, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 122 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), nella parte in cui non prevedeva che l’Istituto assicuratore, nel caso di decesso dell’assicurato, dovesse avvertire i superstiti della loro facoltà di proporre domanda per la rendita nella misura e nei modi previsti dall’art. 85, nel termine decadenziale di novanta giorni decorrenti dalla data dell’avvenuta c omunicazione piuttosto che dalla data della morte dell’assicurato. La diversa regolamentazione dell’istituto dell’assegno speciale continuativo – che si diversifica dalla rendita ai superstiti solo in quanto la morte dell’assicurato non è riconducibile all’infortunio o alla malattia professionale per i quali la rendita è stata in vita concessa – determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina propria della rendita ai superstiti, come richiamata dal citato art. 122 per effetto della pronuncia n. 14 del 1994 di questa Corte.

Sarebbero, inoltre, violati gli artt. 24 e 38 Cost., poiché l’eventuale scarsa conoscenza delle norme e la decorrenza del termine dalla data della morte dell’assicurato determinerebbero l’ingiustificata perdita del diritto del coniuge e dei figli superstiti di cui all’art. 85 del T.U. n. 1124 del 1965.

2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituito l’INAIL, che ha concluso per la infondatezza della questione, sostenendo la diversità delle fattispecie poste a confronto, non solo per la diversa durata dei termini di decorrenza del termine decadenziale, ma altresì per le profonde differenze tra i due diritti sui quali incide il termine, avendo la fattispecie di cui all’art. 122 del d.P.R. n. 1124 del 1965, a differenza di quella di cui all’art. 1 della legge n. 248 del 1976, come presupposti non solo la titolarità della rendita in capo al defunto, ma anche il nesso di causalità tra la patologia in relazione alla quale la rendita era stata costituita e l’avvenuto decesso.

3. – Nel giudizio è altresì intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione, alla luce del rilievo della non sovrapponibilità delle relative discipline, osservando che la risalente pronuncia di illegittimità costituzionale evocata dal Collegio rimettente aveva tenuto conto della incidenza di un termine decadenziale in un contesto di scarsa conoscenza delle norme e, comunque, adombrando la possibilità, al fine di superare i rilievi del giudice a quo, di una interpretazione adeguatrice, di cui, in ogni caso, sottolinea gli oneri a carico della finanza pubblica che sarebbero correlati alla riapertura dei termini con riguardo anche alle situazioni pregresse.

Considerato in diritto

1. – La Corte d’appello di Catania dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7, primo comma, della legge 5 maggio 1976, n. 248 (Provvidenze in favore delle vedove e degli orfani dei grandi invalidi sul lavoro deceduti per cause estranee all’infortunio sul lavoro o alla malattia professionale ed adeguamento dell’assegno di incollocabilità di cui all’articolo 180 del testo unico approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124), nella parte in cui prevede che, per ottenere la corresponsione dell’assegno speciale continuativo di cui all’art. 1 della stessa legge, spettante ai superstiti di soggetti titolari di rendita INAIL con grado di inabilità permanente pari almeno al sessantacinque per cento, occorre presentare domanda entro il termine di centottanta giorni dalla data del decesso dell’assicurato. Tale disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. per la ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista per i superstiti in caso di decesso dell’assicurato riconducibile ad infortunio o malattia professionale per il quale la rendita veniva dallo stesso percepita in vita: infatti, l’art. 122 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), nella formulazione risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 14 del 1994, dispone che, in tal caso, l’Istituto debba avvertire i superstiti della loro facoltà di proporre domanda per il conseguimento della rendita nei modi e nella misura previsti dall’art. 85 dello stesso decreto, nel termine decadenziale di novanta giorni decorrenti dalla data dell’avvenuta comunicazione piuttosto che, come previsto dalla norma nel testo originario, dalla data della morte dell’assi curato. La disposizione censurata recherebbe, inoltre, vulnus all̵ 7;art. 24 Cost. per violazione del diritto di difesa; nonché all’art. 38 Cost. per la violazione del diritto ad un’adeguata copertura assicurativa, in quanto la scarsa conoscenza delle norme e la decorrenza del termine dalla data della morte dell’assicurato determinerebbero la ingiustificata perdita del diritto del coniuge e dei figli superstiti alla corresponsione dell’assegno de quo.

2. – La questione è fondata con riferimento alla violazione dei parametri di cui agli artt. 3 e 24 Cost.

2.1. – Va innanzitutto richiamata la normativa inerente alle modalità e alle condizioni perché i superstiti di infortunati abbiano diritto alla rendita nella misura e nei modi stabiliti dall’art. 85 del d.P.R. n. 1124 del 1965 o all’assegno speciale continuativo mensile di cui all’art. 1 della legge n. 248 del 1976.

L’art. 122 del t.u. n. 1124 del 1965 stabiliva, nel testo originario, che, qualora la morte dell’assicurato fosse sopraggiunta in conseguenza dell’infortunio, dopo la liquidazione della rendita di inabilità permanente, la domanda per ottenere la rendita, nella misura e con le modalità stabilite nell’art. 85, dovesse essere proposta dai superstiti, a pena di decadenza, entro novanta giorni dalla data della morte.

Il successivo art. 123 dispone che, nel caso di morte di un infortunato avvenuta durante il periodo di corresponsione dell’indennità per inabilità temporanea o di pagamento della rendita di inabilità permanente o mentre si svolgono le pratiche amministrative per la liquidazione della rendita, l’Istituto assicuratore, se gli risulti che i superstiti dell’infortunato non erano informati del decesso, deve, appena venuto a conoscenza, darne notizia ai superstiti, agli effetti dell’eventuale applicazione della norma di cui all’articolo precedente, ed aggiunge (secondo comma) che in ogni caso il termine di cui all’articolo predetto decorre dal giorno nel quale i superstiti sono venuti a conoscenza del decesso.

L’art. 1 della legge n. 248 del 1976 attribuisce al coniuge ed ai figli superstiti di titolari di rendita per inabilità permanente di grado non inferiore all’ottanta per cento (percentuale ridotta a sessantacinque per effetto della modifica di cui all’art. 11 della legge n. 251 del 1982) il diritto ad uno speciale assegno continuativo mensile. A norma dell’art. 7, primo comma, della stessa legge n. 248 del 1976, gli aventi diritto a tale assegno devono presentare entro il termine di centottanta giorni dalla data del decesso dell’assicurato apposita domanda, corredata dalla certificazione degli uffici finanziari e da una dichiarazione resa dagli stessi aventi diritto, dalle quali risulti l’esistenza dei requisiti di legge.

In siffatto quadro normativo, questa Corte, con sentenza n. 14 del 1994, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 122 nella parte in cui non prevedeva che l’istituto assicuratore, nel caso di decesso dell’assicurato, dovesse avvertire i superstiti della loro facoltà di proporre domanda per la rendita nella misura e nei modi previsti dall’art. 85 nel termine decadenziale di novanta giorni decorrente dalla data della avvenuta comunicazione. Tale pronuncia è stata determinata essenzialmente dalla esigenza di rendere la norma in questione coerente con quella del successivo art. 123.

In conseguenza di tale intervento, il termine decadenziale per l’esercizio della facoltà dei superstiti di proporre domanda per ottenere la rendita di cui all’art. 85 del t.u. n. 1124 del 1965 è fatto decorrere dalla data in cui questi ultimi hanno avuto comunicazione dall’Istituto assicuratore della morte dell’infortunato. Diversamente, quello relativo alla domanda per lo speciale assegno continuativo mensile di cui all’art. 1 della legge n. 248 del 1976, che compete al coniuge ed ai figli superstiti di titolari di rendita per inabilità permanente di grado non inferiore al sessantacinque per cento, decorre dalla data del decesso dell’assicurato, e ciò a prescindere dal momento in cui gli stessi hanno avuto conoscenza della morte del loro dante causa.

La diversità di disciplina è irragionevole ove si tenga presente che le fattispecie poste a confronto derivano entrambe dalla titolarità della rendita in capo al defunto, mentre la circostanza delle diversità sostanziali delle condizioni per avere diritto alle attribuzioni patrimoniali conseguenti al decesso non giustifica una disciplina decadenziale diversa, e ciò anche in presenza della differente durata del termine stesso, poiché ciò che rileva ai fini della tutela del diritto di difesa non è l’ampiezza di tale termine, ma la decorrenza dello stesso da un momento in cui l’interessato acquista conoscenza, tramite l’Istituto assicuratore, della morte dell’infortunato.

3. – L’accoglimento della questione sotto il profilo della violazione degli articoli 3 e 24 Cost. comporta l’assorbimento dell’ulteriore parametro costituzionale evocato dal rimettente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, primo comma, della legge 5 maggio 1976, n. 248 (Provvidenze in favore delle vedove e degli orfani dei grandi invalidi sul lavoro deceduti per cause estranee all’infortunio sul lavoro o alla malattia professionale ed adeguamento dell’assegno di incollocabilità di cui all’articolo 180 del testo unico approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124), nella parte in cui non prevede che l’Istituto assicuratore, nel caso di decesso dell’assicurato, debba avvertire i superstiti della loro facoltà di proporre domanda per ottenere l’assegno di cui all’articolo 1 della stessa legge nel termine decadenziale di centottanta giorni dalla data dell’avvenuta comunicazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 285

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 70 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53), promossi dalla Corte d’appello di Firenze con ordinanza del 15 maggio 2009 e dalla Corte d’appello di Venezia con ordinanza del 28 maggio 2009, iscritte ai nn. 240 e 283 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 39 e 47, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense;

udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

udito l’avvocato Massimo Luciani per la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte d’appello di Firenze, nel corso di un procedimento civile promosso dalla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense contro P.L.F., con ordinanza emessa il 15 maggio 2009 ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede il diritto del padre libero professionista di percepire, in alternativa alla madre biologica, l’indennità di maternità.

La Corte rimettente rileva che, con sentenza n. 710 del 20 giugno 2008, il Tribunale di Firenze, in qualità di giudice del lavoro, condannava, in applicazione della norma censurata, l’appellante al pagamento in favore dell’avvocato P.L.F. dell’indennità di maternità conseguente alla nascita del figlio avvenuta l’8 maggio 2006.

Avverso tale sentenza proponeva appello la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense contestando l’iter argomentativo seguito dal Tribunale che aveva riconosciuto la suddetta indennità al padre libero professionista, in alternativa alla madre, in base ad una «interpretazione costituzionalmente adeguatrice» del citato art. 70, il quale sancisce che alle libere professioniste, «iscritte ad un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza di cui alla tabella D allegata al presente testo unico, è corrisposta un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi alla stessa».

In ragione del tenore letterale della disposizione impugnata e del suo esplicito riferimento alle «libere professioniste», e cioè alla madre, la rimettente non ritiene possibile estendere il beneficio da essa prevista al padre.

A tal fine non sarebbe risolutiva neanche la sentenza n. 385 del 2005 con la quale la Corte costituzionale, pur dichiarando la illegittimità del citato art. 70 (e del successivo art. 72) «nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima», si riferiva al caso di affidamento preadottivo, fattispecie questa in cui, diversamente da quella oggetto del giudizio principale, non si pone l’esigenza di tutela della gravidanza e del puerperio di una madre biologica.

La rimettente osserva, però, che proprio dall’indicata sentenza della Corte costituzionale si evince il principio secondo cui, per garantire il preminente interesse del minore, i genitori devono poter godere delle medesime tutele al fine di una compiuta attuazione di fondamentali diritti di rango costituzionale, quali sono quelli connessi alla formazione della famiglia e alla cura della prole.

Contro tale principio si pone, a parere della rimettente, la norma impugnata che, nei nuclei familiari in cui il padre esercita una libera professione, nega ai coniugi la delicata scelta di chi, assentandosi dal lavoro per assistere il bambino, possa meglio provvedere alle sue esigenze, scelta che non può che essere rimessa in via esclusiva all’accordo dei genitori. In particolare, la Corte d’appello osserva che l’art. 70 censurato si pone in contrasto con il principio di uguaglianza, in quanto l’indennità di maternità è riconosciuta al padre, sia nel caso di adozione o affidamento (sentenza n. 385 del 2005), sia in quello in cui egli svolga attività di lavoro dipendente (art. 28 d.lgs. n. 151 del 2001).

Tale disparità di trattamento, a parere del giudice a quo, non appare giustificata dalle differenze, pur sussistenti, fra le diverse figure di lavoratori, le quali non riguardano il diritto di partecipare alla vita familiare in egual misura rispetto alla madre, e non consente ai professionisti di godere, alla pari degli altri lavoratori, di quella protezione che l’ordinamento assicura in occasione della genitorialità, anche adottiva.

La rimettente ritiene, infine, che la norma censurata si pone in contrasto anche con gli artt. 29 e 31 della Costituzione, in quanto l’indennità di maternità rientra nei diritti che devono essere riconosciuti alla famiglia e rappresenta una delle misure economiche finalizzate ad agevolarne la formazione.

In punto di rilevanza, la Corte d’appello di Firenze osserva che l’avvocato P.L.F. ha provato la circostanza che la moglie non svolge attività di lavoro dipendente e, pur operando nel campo della ricerca in posizione autonoma, non ha i requisiti per la iscrizione alla cassa di previdenza e non ha percepito alcuna indennità di maternità.

1.1. – Si è costituta in giudizio la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata manifestamente inammissibile o infondata.

In via preliminare, la parte privata osserva che la rimettente chiede alla Corte un intervento che rientra nella discrezionalità del legislatore, in quanto la invocata pronuncia additiva non sarebbe a “rime obbligate”, non risultando, peraltro, chiaro nell’ordinanza di rimessione in che termini la suddetta pronuncia possa risolvere il sollevato dubbio di costituzionalità.

Nel merito, la parte privata rileva la differente posizione che rivestono il padre e la madre ai fini del riconoscimento dell’indennità di maternità nel caso di filiazione naturale. In tali casi, infatti, il beneficio in esame è volto non solo a compensare la potenziale diminuzione del reddito nel periodo successivo al parto, nel quale il padre potrebbe sostituire la madre nelle cure del figlio, ma anche la diminuzione di reddito nel periodo della gravidanza, durante il quale la posizione del padre non può essere considerata equivalente a quella della madre.

In simili ipotesi non assumerebbe, dunque, rilevanza la sola necessità di assistere il figlio nel suo ingresso in famiglia, come nel caso di affido preadottivo, ma anche la tutela della salute della donna in occasione della gravidanza, del parto e dei momenti immediatamente successivi ad esso.

La peculiare posizione che riveste la madre in occasione degli indicati periodi giustificherebbe la disciplina impugnata dalla rimettente che riconosce solo alle libere professioniste il beneficio della indennità di maternità.

1.2. – In prossimità dell’udienza, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ha depositato una memoria con la quale ha insistito nella richiesta di una pronuncia di inammissibilità o infondatezza della questione.

In particolare, la parte privata osserva che l’intervento richiesto alla Corte non tiene conto dell’ampia autonomia normativa riconosciuta alla Cassa dal legislatore nazionale, il quale, in ottemperanza al principio dell’autofinanziamento che sorregge il sistema di previdenza dei liberi professionisti, consente alle relative Casse di previdenza di derogare alle stesse fonti legislative al fine di garantire, nell’equilibrio dei rispettivi bilanci, la regolare erogazione delle prestazioni previdenziali ai loro iscritti.

Tali prestazioni potrebbero essere pregiudicate in caso di accoglimento della questione sollevata, poiché la Cassa sarebbe obbligata ad indennizzare, nella medesima misura prevista per le sole professioniste, anche i padri e ciò indipendentemente dalla scelta dei genitori riguardo alle esigenze concrete del minore, ma per meri interessi economici; problema quest’ultimo che potrebbe essere risolto esclusivamente mediante un apposito intervento legislativo.

La Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, infine, nel ribadire, da un lato, che la situazione dei genitori naturali non è assimilabile a quella dei genitori in caso di affidamento preadottivo, fattispecie quest’ultima oggetto della sentenza n. 385 del 2005 e, dall’altro, che la posizione del padre naturale non è uguale a quella della madre naturale, osserva che l’accoglimento della questione darebbe luogo ad una disparità di trattamento tra il padre libero professionista e il padre che svolge un lavoro dipendente. Infatti, mentre a quest’ultimo è riconosciuto il congedo per paternità e la conseguente indennità, solo nei casi tassativamente previsti dall’art. 28 del d.lgs. n. 151 del 2001 (morte o grave infermità della madre; abbandono da parte della stessa), l’attribuzione di analogo diritto al padre libero professionista avverrebbe sulla base di una semplice richiesta.

2. – La Corte d’appello di Venezia, con ordinanza emessa il 28 maggio 2009, ha sollevato, in termini sostanzialmente analoghi a quelli espressi dalla Corte d’appello di Firenze, questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, in riferimento agli artt. 3, 29, secondo comma, 30, primo comma, e 31 della Costituzione.

In punto di fatto, la Corte rimettente riferisce di essere investita dell’appello proposto da M.B. avverso la sentenza del Tribunale di Rovigo, con la quale era stato negato al ricorrente, padre libero professionista, il diritto di beneficiare, in alternativa alla madre, dell’indennità di maternità prevista dal citato art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001.

La rimettente, pur affermando di non poter fare applicazione della sentenza n. 385 del 2005, in quanto avente ad oggetto il caso dell’affidamento preadottivo e, quindi, una fattispecie diversa da quella oggetto del giudizio principale, ritiene, tuttavia, che alcuni principi da essa contemplati – tutela dell’interesse del minore ed equiparazione delle situazioni dei genitori – inducano a dubitare della legittimità costituzionale della norma impugnata.

In proposito, la Corte d’appello di Venezia riporta la giurisprudenza costituzionale che ha esteso al padre lavoratore, in ragione del superiore interesse del bambino, i diritti riconosciuti alla madre lavoratrice e che, con riguardo all’indennità di maternità, ne ha individuato il duplice obiettivo di assicurare, da un lato, la tutela della salute della madre e del nascituro e, dall’altro, un reddito idoneo al fine di evitare che alla maternità si colleghino stati di bisogno.

Alla luce di tali premesse l’art. 70 censurato, nel riconoscere il diritto di percepire l’indennità di maternità alla sola madre libera professionista, pone una limitazione alla tutela del superiore interesse del bambino, in quanto non consente ai genitori di effettuare quelle scelte familiari – tra le quali rientra quella di stabilire chi tra il padre e la madre debba assentarsi dal lavoro in occasione della nascita – tese a garantire la migliore cura e assistenza della prole.

In particolare, la norma censurata violerebbe, secondo la rimettente, «l’art. 29, comma 2, che afferma il principio di uguaglianza tra coniugi anche in relazione ai compiti di cui all’art. 30, comma 1, 31, che pone la tutela della famiglia e del minore come compito fondamentale dell’ordinamento, e 3 della Costituzione, che afferma il principio di parità di trattamento, nella parte in cui viene affermata l’ingiustificata disparità di trattamento tra madre e padre liberi professionisti».

Sotto il profilo della rilevanza, la Corte d’appello si richiama «alle conclusioni svolte in via principale dal ricorrente appellante» e precisa che l’impossibilità di una interpretazione costituzionalmente adeguatrice della norma impugnata, impone una pronuncia della Corte costituzionale.

2.1. – Si è costituita in giudizio la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o, comunque, infondata.

Quanto all’inammissibilità, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense rileva che la Corte d’appello rimettente chiede una pronuncia additiva che esula dalle competenze della Corte in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore e, altresì, eccepisce il difetto di motivazione in ordine alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, in quanto il rimettente, limitandosi «a dar conto delle ragioni per le quali non è possibile concedere l’indennità richiesta sulla base di una mera “interpretazione adeguatrice”», non ha esplicitato in quale misura la pronuncia della Corte «potrebbe indirizzarsi nella direzione desiderata dal Collegio rimettente».

Nel merito, la parte privata osserva che le posizioni rispettive del padre naturale professionista e della madre naturale professionista non sono coincidenti, posto che l’indennità di maternità è finalizzata a colmare la diminuzione del reddito sia nel periodo successivo al parto sia nel corso della gravidanza. Periodo quest’ultimo in cui, precisa ancora la parte interveniente, «la posizione del padre non può certamente essere considerata equivalente a quella della madre».

2.2. – In prossimità dell’udienza, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ha depositato una memoria con la quale, nell’insistere nella richiesta di una pronuncia di inammissibilità o infondatezza della questione sollevata dalla Corte d’appello di Venezia, ha proposto motivazioni sostanzialmente identiche a quelle contenute nella memoria relativa al giudizio iscritto al n. R.O. n. 240 del 2009.

Considerato in diritto

1. – La Corte d’appello di Firenze e la Corte d’appello di Venezia dubitano, in riferimento agli artt. 3, 29, secondo comma, 30, primo comma, e 31 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 70 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53).

Le Corti rimettenti denunciano l’art. 70 nella parte in cui esso, nel fare esclusivo riferimento alle «libere professioniste», non prevede il diritto del padre libero professionista di percepire, in alternativa alla madre biologica, l’indennità di maternità.

In particolare, ad avviso della Corte d’appello di Firenze la mancata possibilità per il padre libero professionista di usufruire dell’indennità di cui all’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, in alternativa alla madre, porrebbe in essere una disparità di trattamento fra i genitori, con conseguente limitazione della tutela del preminente interesse del minore. La norma impugnata, infatti, nell’impedire ai coniugi di valutare chi, assentandosi dal lavoro, meglio soddisfi le esigenze di tutela della prole, sia pure sotto un profilo economico, produrrebbe l’effetto di comprimere quei diritti che gli artt. 29 e 31 della Costituzione riconoscono alla famiglia anche al fine di agevolarne la formazione.

La rimettente osserva, poi, che la disciplina impugnata violerebbe, altresì, il principio di uguaglianza, in quanto la indicata indennità è riconosciuta al padre, in ragione del suo diritto di partecipare alla vita familiare in egual misura rispetto alla madre, sia nel caso di adozione o affidamento (sentenza n. 385 del 2005), sia in quello in cui egli svolga un’attività di lavoro dipendente (art. 28 d.lgs. n. 151 del 2001).

Quanto alla Corte d’appello di Venezia, essa ritiene che l’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, nel limitare il diritto di percepire l’indennità di maternità alla sola madre, si porrebbe in contrasto proprio con la sopra indicata possibilità di scelta e, dunque, con l’art. 29, secondo comma, della Costituzione, che afferma il principio di uguaglianza tra coniugi anche in relazione ai compiti di cui all’art. 30, primo comma, della Costituzione.

Inoltre, sarebbe anche violato l’art. 31 della Costituzione, che pone la tutela della famiglia e del minore come compito fondamentale dell’ordinamento, nonché l’art. 3 della Costituzione, che afferma il principio di parità di trattamento, in quanto la norma impugnata porrebbe in essere una ingiustificata disparità di trattamento tra madre e padre liberi professionisti.

2. – Le due ordinanze di rimessione propongono analoghe questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione.

2.1. – La questione sollevata dalla Corte d’appello di Venezia è inammissibile.

La rimettente, infatti, in punto di rilevanza si è limitata ad affermare che «la questione di costituzionalità risulta pure rilevante, con riferimento alle conclusioni svolte in via principale dal ricorrente appellante».

Il mero richiamo alle argomentazioni prospettate dalle parti nel processo principale rende l’ordinanza di rimessione priva del requisito dell’autosufficienza, dovendo il giudice esplicitare le ragioni che lo portano a dubitare della costituzionalità della norma censurata in modo tale da permettere alla Corte di verificare la sussistenza del requisito della rilevanza, non potendosi supplire a tale carenza per mezzo del riferimento sopra indicato.

2.2. – La questione sollevata dalla Corte d’appello di Firenze non è fondata.

La rimettente basa il proprio dubbio di costituzionalità sul presupposto che l’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, non consentendo al padre libero professionista di usufruire, al posto della madre, della indennità di maternità, non tiene conto del principio secondo cui, in ragione del preminente interesse del bambino, i genitori devono godere di analoghe tutele in ambito lavorativo e, in particolare, del fatto che il suddetto beneficio è riconosciuto al padre adottivo, libero professionista, per effetto della sentenza n. 385 del 2005 di questa Corte, e al padre lavoratore subordinato, in applicazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 151 del 2001.

Tale questione non tiene conto che le situazioni poste a raffronto sono tra loro differenti, pur essendo esse accomunate dalla finalità di protezione del minore.

Occorre a tal fine rilevare che la tutela della maternità e della paternità è frutto di un’evoluzione normativa – legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città); legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro); legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri) – che trova oggi la sua sintesi nel d.lgs. n. 151 del 2001.

Il legislatore con quest’ultimo testo normativo ha voluto disciplinare i diversi istituti posti a fondamento della sopra indicata tutela (congedi, riposi, permessi), valorizzando l’uguaglianza tra i coniugi e tra le varie categorie di lavoratori, nonché tra genitorialità biologica e adottiva, al fine di apprestare la migliore tutela all’interesse preminente del bambino.

Sul punto assumono rilevanza le norme che riconoscono in condizione di parità, al padre e alla madre, indipendentemente dall’essere genitori naturali o adottivi, il congedo parentale (artt. 32 e 36 d.lgs. n. 151 del 2001) e i riposi giornalieri (artt. 39, 40 e 45 del d.lgs. n. 151 del 2001). A questa evoluzione normativa ha contribuito in modo significativo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 371 del 2003, n. 197 del 2002, n. 405 del 2001).

Dall’esame della legislazione e della giurisprudenza richiamate si evince che l’uguaglianza tra i genitori è riferita a istituti in cui l’interesse del minore riveste carattere assoluto o, comunque, preminente, e, quindi, rispetto al quale le posizioni del padre e della madre risultano del tutto fungibili tanto da giustificare identiche discipline. Diversamente, le norme poste direttamente a protezione della filiazione biologica, oltre ad essere finalizzate alla protezione del nascituro, hanno come scopo la tutela della salute della madre nel periodo anteriore e successivo al parto, risultando, quindi, di tutta evidenza che, in tali casi, la posizione di quest’ultima non è assimilabile a quella del padre.

Sul punto appaiono significativi gli artt. 16 e 28 del d.lgs. n. 151 del 2001.

L’art. 16, nel disciplinare il congedo di maternità, stabilisce che la donna lavoratrice dipendente non può essere adibita al lavoro nei due mesi antecedenti al parto e nei successivi tre. L’art. 28 prevede poi che «Il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre».

Al suddetto periodo è ricollegato il godimento dell’indennità di maternità pari all’80 per cento della retribuzione (art. 22 del d.lgs. n. 151 del 2001).

Dalla lettura dell’art. 28 risulta evidente che la posizione del padre naturale dipendente non è, come invece erroneamente sostenuto dalla Corte rimettente, assimilabile a quella della madre, potendo il primo godere del periodo di astensione dal lavoro e della relativa indennità solo in casi eccezionali e ciò proprio in ragione della diversa posizione che il padre e la madre rivestono in relazione alla filiazione biologica.

Nel caso di specie, alla tutela del nascituro si accompagna, appunto, quella della salute della madre, alla quale è finalizzato il riconoscimento del congedo obbligatorio e della collegata indennità.

In proposito va rilevato che questa Corte, con la sentenza n. 1 del 1987, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge n. 903 del 1977 nella parte in cui non prevedeva che il diritto all’astensione dal lavoro, riconosciuto alla sola madre lavoratrice, fosse attribuito anche al padre lavoratore ove l’assistenza della madre al minore fosse divenuta impossibile per decesso o grave infermità.

Alla suddetta pronuncia di incostituzionalità la Corte è giunta dopo aver affermato che il fine perseguito dal legislatore mediante l’istituto dell’astensione obbligatoria è quello di tutelare la salute della donna nel periodo immediatamente precedente e successivo al parto, tenendo conto anche delle esigenze relazionali e affettive del figlio in tale periodo. Pertanto, la Corte ha ritenuto irragionevole non estendere al padre il diritto all’astensione obbligatoria e, conseguentemente, all’indennità di maternità ad essa collegata, nei casi in cui la tutela della madre non sia possibile a seguito di morte o di grave impedimento della stessa, e ciò in quanto in simili ipotesi gli interessi che l’istituto dell’astensione obbligatoria può tutelare sono solo quelli del minore ed è quindi rispetto a questi che esso deve rivolgersi in via esclusiva.

Tali condizioni non ricorrono evidentemente nel caso di specie.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53), sollevata dalla Corte d’appello di Venezia, in riferimento agli artt. 3, 29, secondo comma, 30, primo comma, e 31 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, sollevata dalla Corte d’appello di Firenze, in riferimento agli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 286

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 126-bis, comma 2, e 180, comma 8, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, promossi dal Giudice di pace di Recanati con due ordinanze del 27 ottobre 2009, iscritte ai nn. 46 e 47 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto che, con due ordinanze di identico contenuto del 27 ottobre 2009, il Giudice di pace di Recanati ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 126-bis, comma 2, e 180, comma 8, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, per violazione degli articoli 3, 24 e 27 della Costituzione;

che il rimettente riferisce che C.A., proprietario di un’autovettura, aveva proposto opposizione avverso il provvedimento emesso dal Comune di Montelupone con il quale gli era stata irrogata la sanzione amministrativa di cui all’art. 126-bis, comma 2, del d.lgs. n. 285 del 1992, per avere omesso, senza giustificato e documentato motivo, di fornire i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione e che parimenti aveva fatto C.D., altro proprietario di autovettura, per la medesima contestazione, nei confronti del Comune di Recanati;

che i ricorrenti avevano dichiarato, in considerazione del lasso di tempo trascorso, di non essere in grado di fornire i nominativi dei conducenti, in quanto i veicoli erano utilizzati da più persone;

che le amministrazioni costituite avevano contestato la circostanza;

che il giudice a quo ha affermato che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2005, quando si tratti di violazione che implica la decurtazione di punti, il proprietario o l’obbligato in solido – ora indistintamente persona fisica o giuridica – che non siano autori della violazione, hanno due possibilità: a) comunicare i dati anagrafici e quelli della patente del conducente; b) assoggettarsi alla sanzione di cui all’art. 180, comma 8, del nuovo codice della strada, senza essere, in quest’ultimo caso, soggetti alla detrazione dei punti;

che, in sostanza, l’art. 180, comma 8, del nuovo codice della strada, basandosi sul principio della collaborazione del cittadino con lo Stato, prevede la sanzione amministrativa per l’ipotesi di inottemperanza all’invito di presentarsi presso gli organi di polizia per fornire informazioni o esibire documenti;

che il problema di costituzionalità delle norme impugnate sorge, però, nell’ipotesi in cui il proprietario non riesca a rintracciare i dati dell’effettivo conducente ed a fornirli agli uffici di polizia, perché egli dovrebbe, senza alcuna colpa, soggiacere alle sanzioni previste dal citato art. 180, comma 8;

che, continua il rimettente, ove il proprietario del veicolo abbia ottemperato all’obbligo di cooperare con l’autorità, rispondendo all’invito rivoltogli, non può essergli imputata una responsabilità per omissione;

che sarebbe assolutamente contraria ai principi costituzionali ogni disposizione che preveda ipotesi di responsabilità oggettiva per le sanzioni amministrative personali, come nel caso dell’art. 126-bis, comma 2;

che una simile norma risulterebbe contraria al principio di ragionevolezza, per essere la sanzione applicata ad un soggetto diverso da quello che ha commesso l’illecito, nonché per l’automatismo della applicazione della sanzione, visto che l’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), stabilisce che «nelle violazioni in cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa», dal momento che anche nell’ambito delle sanzioni amministrative vige il principio della responsabilità personale;

che, in considerazione di quanto precede, è censurabile, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, la norma che prevede l’obbligo di denuncia a carico del proprietario quando gli organi di polizia non siano riusciti ad identificarlo, laddove l’imposizione al proprietario di denunciare il conducente del veicolo responsabile della violazione appare limitare il diritto di difesa del cittadino, perché si risolverebbe in una violazione del diritto “al silenzio”;

che nei giudizi innanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, in subordine, infondata, sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte.

Considerato che il Giudice di pace di Recanati, con due ordinanze di identico contenuto, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 126-bis, comma 2, e 180, comma 8, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, nella parte in cui prevedono che, anche nell’ipotesi in cui il proprietario non riesca a rintracciare i dati dell’effettivo conducente, lo stesso sia soggetto alle sanzioni previste dall’art. 180, comma 8, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto contrari al principio di ragionevolezza, non comprendendosi perché la sanzione vada applicata ad un soggetto diverso da quello che ha commesso l’illecito; dell’art. 27, primo comma, della Costituzione, perché si tratterebbe di un 217;ipotesi di responsabilità oggettiva; nonché dell’art. 24, secondo comma, della Costituzione, perché l’imposizione al proprietario dell’obbligo di denunciare il conducente del veicolo responsabile della violazione appare limitare il diritto di difesa del cittadino, risolvendosi in una violazione del diritto “al silenzio”;

che i due giudizi, proponendo identiche questioni, vanno riuniti per essere decisi con unico provvedimento;

che, con riferimento alla violazione degli artt. 3 e 24 Cost., la questione è manifestamente infondata, e ciò sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui sussiste «la possibilità di discernere il caso di chi, inopinatamente, ignori del tutto l’invito “a fornire i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione”, da quello di colui che “presentandosi o scrivendo”, adduca invece l’esistenza di motivi idonei a giustificare l’omessa trasmissione di tali dati» (sentenza n. 165 del 2008; ordinanza n. 244 del 2006);

che questa Corte ha anche affermato che deve essere riconosciuta al proprietario del veicolo la facoltà di esonerarsi dalla responsabilità, dimostrando l’impossibilità di rendere una dichiarazione diversa da quella “negativa” (cioè a dire di non conoscenza dei dati personali e della patente del conducente autore della commessa violazione), trattandosi di una conclusione che discende dalla necessità di offrire dell’art. 126-bis, comma 2, del codice della strada, nella parte in cui richiama l’art. 180, comma 8, del medesimo codice, un’interpretazione coerente proprio con gli indirizzi ermeneutici formatisi in merito alla norma richiamata, secondo i quali essa sanzionerebbe il “rifiuto” della condotta collaborativa (e non già la mera omessa collaborazione) necessaria ai fini dell’accertamento delle infrazioni stradali (sentenza n. 165 del 2008);

che, dunque, resta confermata, nell’applicazione del citato art. 126-bis, comma 2, del codice della strada, sia nel testo originario che in quello modificato, «la necessità si distinguere il comportamento di chi si disinteressi della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non ottemperando, così, in alcun modo all’invito rivoltogli (contegno per ciò solo meritevole di sanzione) e la condotta di chi abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo, sulla base di giustificazioni, la idoneità delle quali ad escludere la presunzione relativa di responsabilità a carico del dichiarante dovrà essere vagliata dal giudice comune, di volta in volta, anche alla luce delle caratteristiche delle singole fattispecie concrete sottoposte al suo giudizio» (sentenza n. 165 del 2008);

che il richiamo all’art. 27 Cost. non è pertinente, dal momento che la norma è applicabile alla sola responsabilità penale e non anche a quella amministrativa (ordinanza n. 434 del 2007).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 126-bis, comma 2, e 180, comma 8, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 della Costituzione, dal Giudice di pace di Recanati con le ordinanze in epigrafe indicate.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA