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Deposito del 24/06/2010 (dalla 223 alla 232)

 
S.223/2010 del 21/06/2010
Udienza Pubblica del 28/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 2, c. 1°, e 5 della legge della Regione Campania 22/07/2009, n. 10.

Oggetto: Circolazione stradale - Norme della Regione Campania - Regolamentazione ed uso degli apparecchi di misurazione della velocità (autovelox) sulle strade di proprietà regionale - Lamentato contrasto con il codice della strada e con le relative norme di attuazione; Previsione che gli apparecchi di misurazione della velocità devono essere impiegati esclusivamente a scopo preventivo e per indurre una maggiore consapevolezza d ell'uso dei mezzi di trasporto, e che non è consentito l'uso repressivo degli stessi - Lamentato impedimento all'utilizzo per l'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità e per l'applicazione del conseguente sistema sanzionatorio, in contrasto con il codice della strada; Disposizioni inerenti la tipologia della segnaletica e la distanza che deve intercorrere tra questa e la postazione di controllo - Lamentato contrasto con il codice della strada e con le relative norme di attuazione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 85/2009
S.224/2010 del 21/06/2010
Udienza Pubblica del 25/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA


Norme impugnate: Art. 15, c. 6°, della legge del la Regione Lazio 16/06/1994, n. 18.

Oggetto: Sanità pubblica - Regione Lazio - Direttore amministrativo e direttore sanitario delle ASL - Cessazione dall'incarico entro tre mesi dalla data di nomina del nuovo direttore generale, con possibilità di riconferma (c.d. "spoil system").

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ord. 370/2008
S.225/2010 del 21/06/2010
Udienza Pubblica del 25/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 1, c. 52°, della legge della Regione Lazio 11/08/2009, n. 22.

Oggetto: Impiego pubblico - Amministrazione pu bblica - Norme della Regione Lazio - Dirigenza - Immissione a domanda nel ruolo della dirigenza dei soggetti che abbiano superato una selezione di evidenza pubblica ed abbiano in corso un incarico dirigenziale da almeno cinque anni consecutivi - Lamentato contrasto con i principi elaborati in materia dalla giurisprudenza costituzionale, contrasto con la normativa nazionale che prevede il ricorso alla stabilizzazione solo per il personale non dirigenziale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 101/2009
S.226/2010 del 21/06/2010
Udienza Pubblica del 28/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 3, c. 40°, 4 1°, 42° e 43°, della legge 15/07/2009, n. 94.

Ogget to: Sicurezza pubblica - Volontariato - Comuni, Province e Città metropolitane - Possibilità per i sindaci, previa intesa col prefetto, di avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale - Iscrizione delle associazioni in un apposito elenco tenuto dal prefetto - Determinazione con decreto del Ministro dell'interno di ambiti operativi, modalità e requisiti - Lamentata esorbitanza dalla materia della sicurezza pubblica ed incidenza sulla disciplina regionale in materia di polizia comunale e provinciale e in materia di politiche sociali, esorbitanza dai limiti della potestà regolamentare spettante allo Stato, e, in subordine, carenza di coinvolgimento delle Regioni.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fon datezza
Atti decisi: ric. 64, 66 e 67/2009
S.227/2010 del 21/06/2010
Camera di Consiglio del 12/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Art. 18, c. 1°, lett. r), della legge 22/04/2005, n. 69.

Oggetto: Estradizione - Mandato d'arresto europeo - Consegna per l'estero - Consegna esecutiva - Rifiuto della consegna - Previsione che la Corte di appello rifiuti la consegna se il mandato di arresto europeo sia stato emesso ai fini dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano, sempre che la Corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo dir itto interno - Mancata previsione del rifiuto della consegna del residente non cittadino.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 298, 305/2009; 10 e 45/2010
S.228/2010 del 21/06/2010
Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 1, c. 774° e 775°, della legge 27/12/2006, n. 296.

Oggetto: Previdenza - Pensione di reversibilità corrisposta a favore di coniuge superstite di titolare di pensione diretta - Indennità integrativa speciale mensile - Previsione con norma autoqualificata interpretativa, ma a contenuto innovativo, dell'at tribuzione nella stessa misura del sessanta per cento stabilita per il trattamento di reversibilità, anziché in misura piena indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta - Prevista salvezza dei trattamenti più favorevoli, in atto alla data di entrata in vigore della legge censurata, già definiti in sede contenziosa - Irragionevolezza - Ingiustificato deteriore trattamento dei trattamenti pensionistici più favorevoli definiti in via amministrativa rispetto a quelli definiti in sede contenziosa.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 117, 118, 119, 120, 304/2009
S.229/2010 del 21/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRA NTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impu gnate: Art. 449, c. 4°, del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Giudizio direttissimo - Possibilità per il giudice, constatata la non flagranza del reato, di restituire gli atti al pubblico ministero - Mancata previsione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 327/2009
S.230/2010 del 21/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 140, c. 4°, primo periodo, del decreto legislativo 07/09/2005, n. 209.

Oggetto: Responsabilità civile - Risarcimento del danno derivante da sinis tro stradale - Pluralità di persone danneggiate nello stesso sinistro - Sussistenza di litisconsorzio necessario nei giudizi pendenti tra la compagnia di assicurazione e le persone danneggiate - Prevista applicabilità dell'art. 102 cod. proc. civ.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ord. 329/2009
O.231/2010 del 21/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Norme impugnate: Legge della Regione Toscana 21/11/2008, n. 62: discussione limitata all''art. 20.

Oggetto: Farmacia - Norme della Regione Toscana - Modifica dell'art. 17 della legge regio nale n. 16 del 2000 - Pianificazione territoriale dell'assistenza farm aceutica - Estensione dell'istituto delle proiezioni delle sedi farmaceutiche, già attribuito ai soli sindaci dei Comuni con popolazione sino a dodicimila abitanti, a tutti i Comuni "classificati come montani o parzialmente montani ai sensi della normativa statale e regionale" - Contrasto con la disciplina statale.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 7/2009
S.232/2010 del 21/06/2010
Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Art. 113 della legge della Regione Liguria 02/01/2007, n. 1.

Oggetto: Commercio - Norme della Regione Liguria - Disciplina dell e vendite promozionali - Divieto di effettuare vendite promozionali nei quaranta giorni antecedenti le vendite di fine stagione o saldi - Ritenuto contrasto con la disciplina statale che consente le attività commerciali senza l'ottenimento di autorizzazioni preventive e le limitazioni di ordine temporale o quantitativo allo svolgimento di vendite promozionali di prodotti, effettuate all'interno degli esercizi commerciali, tranne che nei periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti - Ricorso avverso ordinanza ingiunzione applicativa di sanzione pecuniaria per la violazione del divieto stabilito dalla normativa regionale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 206/2009

pronuncia successiva

SENTENZA N. 223

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Campania 22 luglio 2009, n. 10 (Regolamentazione e uso degli apparecchi di misurazione della velocità “autovelox” sulle strade di proprietà regionale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 1°-6 ottobre 2009, depositato in cancelleria l’8 ottobre 2009 ed iscritto al n. 85 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Campania;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Vincenzo Cocozza per la Regione Campania.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso del 2 ottobre 2009 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Campania 22 luglio 2009, n. 10 (Regolamentazione e uso degli apparecchi di misurazione della velocità “autovelox” sulle strade di proprietà regionale).

Riferisce il ricorrente che la disciplina della circolazione stradale rientra nella competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettere h) e l), della Costituzione, giacché interviene su temi attinenti alla sicurezza della circolazione stradale, in quanto relativi alla regolamentazione e all’uso di dispositivi destinati all’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità stabiliti all’art. 142 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Peraltro, detti dispositivi, a norma dell’art. 45, comma 6, del medesimo decreto legislativo, sono soggetti all’approvazione o omologazione da parte del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le procedure indicate all’art. 192 del decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada). L’intervento regionale si po ne in palese difformità anche rispetto a quanto disposto sia con decreto ministeriale 15 agosto 2007 (Attuazione dell’articolo 3, comma 1, lettera b del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117, recante disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione) – con cui si è data attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117 (Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione) – sia con la circolare del 14 agosto 2009 (Direttiva per garantire un’azione coordinata di prevenzione e contrasto dell’eccesso di velocità sulle strade) emanata dal Ministero dell’interno – Dipartimento per la pubblica sicurezza – Servizio di Polizia stradale. Né le previsioni all’esame rientrano tra i poteri e i compiti degli enti proprietari delle strade, stabili ti dall’art. 14 del citato Nuovo codice della strada.

Ciò premesso in termini generali, secondo l’Avvocatura dello Stato vanno evidenziati, in particolare, due profili di illegittimità costituzionale.

Il primo riguarda l’art. 2, comma 1, della legge regionale secondo il quale, «ai fini del corretto utilizzo, gli apparecchi di misurazione della velocità devono essere impiegati esclusivamente a scopo preventivo e per indurre una maggiore consapevolezza dell’uso dei mezzi di trasporto. Non è consentito l’uso repressivo di tali apparecchi». La disposizione contrasta però con il vigente impianto sanzionatorio stabilito nel Nuovo codice della strada, e risulta lesiva delle prerogative statali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettere h) e l), Cost., in quanto – vietando l’uso repressivo degli apparecchi – si prefigge di renderne impossibile l’utilizzo per l’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità e per l’applicazione del conseguente sistema sanzionatorio. Sotto tale profilo, la legge regionale disattende l’art. 142, comma 6, del citato Codice, secondo cui «per l a determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze delle apparecchiature debitamente omologate»: in tal modo, evidentemente, si individua negli apparecchi uno strumento per la repressione delle violazioni su tutto il territorio nazionale. La previsione regionale, peraltro, si pone in contrasto anche con quanto stabilito all’art. 201, comma 1-bis, lettere e) e f), del citato Codice, che consente la notificazione degli estremi delle violazioni che siano state accertate per mezzo dei dispositivi di rilevamento in parola.

Il secondo profilo di legittimità costituzionale riguarda l’art. 5, recante «disposizioni inerenti la segnaletica», e disciplina la tipologia della segnaletica e la distanza che deve intercorrere tra questa e la postazione di controllo (il comma 2 stabilisce infatti che «tra la segnalazione e l’“autovelox” deve esserci una distanza di quattro chilometri»). Le prescrizioni regionali sono, però, diverse da quelle stabilite all’art. 2, comma 1, del citato decreto del 15 agosto 2007 in materia di tipologia di segnaletica, e contrastano con l’art. 45, comma 1, del Nuovo codice della strada, che stabilisce l’uniformità della segnaletica, dei mezzi di regolazione e controllo e omologazioni su tutto il territorio nazionale. In relazione a quanto precede deve censurarsi l’intervento regionale perché, dettando regole in materie attinenti la sicurezza e la circolazione stradale, contrasta, secondo il ri corrente, con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., violando altresì la competenza esclusiva statale in materia di giurisdizione e ordinamento civile e penale, di cui al medesimo art. 117, secondo comma, lettera l).

2. – Con memoria del 27 ottobre 2009, si è costituita la Regione Campania, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata. Rileva la difesa regionale che il ricorso dello Stato, in una prima parte, riferendosi all’intera legge regionale, si limita ad affermare la competenza esclusiva dello Stato in materia di sicurezza e a richiamare i parametri normativi che si assumono violati, senza però alcuna analisi del testo, ma solo con un’affermazione apodittica della sua presunta illegittimità per un contrasto con la normativa statale intervenuta in tale settore. Per questa parte, pertanto, il ricorso è sicuramente inammissibile. Le censure mosse dallo Stato non raggiungono, pertanto, il livello di specificità che si richiede ai fini di uno scrutinio di merito, poiché nei motivi di ricorso non vi è neppure una sintetica esposizione delle ragioni per cui le disposizioni contenute nella legge, singolarmente considerate, determinerebbero una lesione delle attribuzioni statali. Nel merito, infatti, ciò che appare immediatamente chiaro (e che rende palesemente infondata l’impugnativa dello Stato), è che la disciplina regionale, soprattutto nella parte dettata dagli articoli specificamente individuati, non è altro che l’assoluta pedissequa riproduzione delle formule legislative statali.

Con riferimento all’art. 2, comma 1, la norma impugnata non ha manifestato in alcun modo la volontà di svuotare di funzione sanzionatoria l’eventuale contestazione dell’eccesso di velocità registrato dagli “autovelox”. Essa ha semplicemente preso atto che l’ordinamento italiano in materia di “autovelox” è ispirato alla esigenza di prevenire le infrazioni al codice della strada più che reprimerle, con la finalità di educare gli automobilisti ad un uso più consapevole dei propri mezzi per tutelare la propria vita e quella degli altri utenti della strada, bene primario dell’intera collettività, come affermato anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 26 marzo 2009, n. 7419).

Quanto all’art. 5, la norma riguarda la tipologia della segnaletica e la distanza che deve intercorrere tra questa e la postazione di controllo. Tale norma è pressoché identica rispetto all’art. 2, comma 1, del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117.

3. – Con memoria depositata il 7 aprile 2010, l’Avvocatura dello Stato ha ribadito le proprie ragioni a favore dell’accoglimento della questione.

Ritiene la difesa dello Stato che sia da respingere l’eccezione di genericità del ricorso sollevata dalla resistente, in quanto il ricorso sarebbe sufficientemente specifico, tanto che la Regione Campania ha avuto modo di sviluppare le proprie difese.

Con memoria depositata il 28 aprile 2010 la Regione Campania insiste nel chiedere che il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato.

La difesa regionale sostiene, innanzitutto, che le norme impugnate si riferiscono solo alle strade della Regione Campania e regolano aspetti solo accessori rispetto a quelli attribuiti alla competenza statale in materia di circolazione stradale. Il ricorso sarebbe poi inammissibile perché pretenderebbe di ricomprendere in una generica doglianza un testo con una pluralità di contenuti (localizzazione degli “autovelox”, procedura per il rilascio del parere regionale per la loro collocazione; accorgimenti per la migliore visibilità degli stessi).

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale della legge della Regione Campania 22 luglio 2009, n. 10 (Regolamentazione e uso degli apparecchi di misurazione della velocità “autovelox” sulle strade di proprietà regionale) per violazione della competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettere h) e l), della Costituzione, giacché, con riferimento alla lettera h), interviene su temi attinenti alla sicurezza della circolazione stradale, trattandosi della regolamentazione di dispositivi destinati all’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità stabiliti all’art. 142 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), mentre, con riferimento alla lettera l), interviene in materia di giurisdizione e ordinamento civile e penale.

A parere del ricorrente, poi, l’art. 2, comma 1, della legge regionale citata, vietando l’uso repressivo degli apparecchi, disattende l’art. 142, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992 secondo cui «per la determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze delle apparecchiature debitamente omologate»; mentre il successivo art. 5, comma 2, nel disporre che tra la segnalazione e l’“autovelox” deve esserci una distanza di quattro chilometri, contrasta con l’art. 45, comma 1, dello stesso decreto legislativo, che assicura un’uniformità dei mezzi di regolazione e controllo su tutto il territorio nazionale attinenti la sicurezza e la circolazione stradale.

2. – L’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata dalla resistente, non può essere accolta.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve essere dichiarata inammissibile una questione avente ad oggetto un’intera legge quando le censure adeguatamente motivate riguardino solo singole disposizioni, mentre quella indirizzata all’intero testo normativo si presenti del tutto generica (sentenza n. 94 del 2003). L’inammissibilità deve, invece, essere esclusa quando dal ricorso sia possibile individuare con chiarezza le norme sulle quali si appuntano le singole censure (sentenze n. 59 del 2006 e n. 74 del 2004).

Nel caso di specie, il ricorso statale contiene una motivazione sintetica, ma non generica, della censura rivolta all’intera legge regionale e passa inoltre ad illustrare una serie di specifiche presunte violazioni di norme costituzionali da parte di singoli articoli della legge medesima. Non ricorrono pertanto le condizioni per dichiarare l’inammissibilità della questione.

3. – Nel merito, la questione è fondata.

3.1. – Va, innanzitutto, ribadita la giurisprudenza di questa Corte secondo cui nell’assetto delle competenze legislative derivante dalla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, attuata nel 2001, la disciplina della circolazione stradale è attribuita alla competenza esclusiva dello Stato (sentenza n. 428 del 2004).

Del tutto correttamente, quindi, l’art. 1 del decreto legislativo n. 285 del 1992, recante il Nuovo codice della strada, nell’individuare i «principi generali» della disciplina, esplicitamente dichiara che «la sicurezza delle persone, nella circolazione stradale, rientra tra le finalità primarie di ordine sociale ed economico perseguite dallo Stato».

Né può essere condiviso l’argomento difensivo secondo il quale le norme della legge impugnata si riferirebbero solo alle strade della Regione Campania, dal momento che la sentenza n. 428 del 2004 non distingue, ai fini della competenza esclusiva dello Stato in tema di circolazione stradale, tra strade classificate come statali, regionali o provinciali.

In presenza di tale attribuzione di competenza allo Stato, il ricorso del Presidente del Consiglio, che a tale giurisprudenza fa espresso richiamo per denunciare l’incompetenza della Regione Campania nell’adozione della legge impugnata, merita accoglimento.

Ciò, soprattutto ove si tengano presenti le disposizioni espressamente censurate e precisamente l’art. 2, comma 1, che non consente l’uso repressivo degli apparecchi di misurazione della velocità, ponendosi con ciò in contrasto con la normativa statale (art. 142, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992), secondo cui «per la determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità sono considerati fonti di prova le risultanze delle apparecchiature debitamente omologate»; nonché l’art. 5, comma 2, che dispone che «tra la segnalazione e l’“autovelox” deve esserci una distanza di quattro chilometri», in contrasto con l’art. 142, comma 6-bis, dello stesso decreto legislativo, per il quale le postazioni di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben visibili. Le modalità di impiego sono stabilite dall’art. 2, comma 1, d el decreto del Ministro dei trasporti 15 agosto 2007 (Attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera b del d.l. 3 agosto 2007, n. 117, recante disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione), ai sensi del quale è necessario che non vi siano tra il segnale e il luogo di effettivo rilevamento intersezioni stradali che comporterebbero la ripetizione del messaggio dopo le stesse, e comunque che non vi sia una distanza superiore a quattro chilometri.

Le norme impugnate e quelle che residuerebbero tendono a sostituirsi alle norme del Nuovo codice della strada aventi lo scopo di indurre gli automobilisti ad un corretto comportamento nella guida, anche al fine di sanzionare il superamento dei limiti di velocità.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Campania 22 luglio 2009, n. 10 (Regolamentazione e uso degli apparecchi di misurazione della velocità “autovelox” sulle strade di proprietà regionale).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 224

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6, della legge della Regione Lazio 16 giugno 1994, n. 18 (Disposizioni per il riordino del servizio sanitario regionale ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni e integrazioni. Istituzione delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra A.F., l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ed altra con ordinanza del 27 giugno 2008, iscritta al n. 370 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti gli atti di costituzione di A.F. e dell’Azienda Policlinico Umberto I, nonché l’atto di intervento della Regione Lazio;

udito nell’udienza pubblica del 25 maggio 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

uditi gli avvocati Cecilia Martelli per A.F., Rosaria Russo Valentini per l’Azienda Policlinico Umberto I e Claudio Chiola per la Regione Lazio.

Ritenuto in fatto

1.— Con ordinanza del 27 giugno 2008 il Tribunale ordinario di Roma, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6, della legge della Regione Lazio 16 giugno 1994, n. 18 (Disposizioni per il riordino del servizio sanitario regionale ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni e integrazioni. Istituzione delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere), per violazione degli articoli 97 e 98 della Costituzione.

Il giudice a quo premette che il ricorrente ha stipulato in data 5 dicembre 2001 con l’Azienda Policlinico Umberto I un contratto a tempo determinato avente ad oggetto il conferimento di un incarico di direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera della durata di cinque anni.

Con decreto del 15 luglio 2005 il Rettore dell’Università convenuta provvedeva alla nomina del nuovo direttore generale.

A seguito di tale nomina, il ricorrente riceveva una comunicazione di cessazione immediata dalle funzioni di direttore amministrativo ai sensi del censurato art. 15, comma 6, della legge regionale n. 18 del 1994.

L’interessato proponeva ricorso chiedendo l’accertamento dell’inadempimento dell’azienda ospedaliera in relazione agli obblighi assunti con il contratto stipulato e dell’illegittimità del recesso, nonché la condanna delle parti convenute, in solido, alla corresponsione di tutte le retribuzioni dal 2 agosto 2005 al 3 gennaio 2007. In via subordinata, chiedeva la condanna delle parti convenute alla corresponsione dell’indennità supplementare e dell’indennità di mancato preavviso, nonché al risarcimento del danno per la dequalificazione e per il demansionamento, per la perdita di chances e per il pregiudizio esistenziale e biologico subíto, oltre alla condanna al pagamento delle differenze retributive maturate in relazione alle superiori mansioni rivestite di direttore generale.

Si costituivano le parti convenute chiedendo il rigetto del ricorso.

2.— Tanto premesso, il remittente assume la illegittimità costituzionale del predetto art. 15 della legge della Regione Lazio n. 18 del 1994.

Al fine di dimostrare la rilevanza della questione sollevata, il giudice a quo svolge in via preliminare una ricostruzione del quadro normativo rilevante nel caso in esame.

L’azienda ospedaliera convenuta ha autonoma personalità di diritto pubblico, secondo quanto previsto dal decreto-legge 1° ottobre 1999, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’Azienda Policlinico Umberto I e per l’Azienda ospedaliera Sant’Andrea di Roma), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 3 dicembre 1999, n. 453.

Il decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517 (Disciplina dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed università, a norma dell’articolo 6 della legge 30 novembre 1998, n. 419) ha regolato i rapporti tra il Servizio sanitario nazionale e le Università, prevedendo protocolli di intesa stipulati tra Regioni e Università in conformità alle linee guida contenute in atti di indirizzo e coordinamento.

Nel caso di specie tali linee guida sono contenute nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 24 maggio 2001.

Il protocollo di intesa di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 517 del 1999 tra Regione Lazio e Università di Roma, stipulato il 2 settembre 2002, fa espresso rinvio per la disciplina e la regolamentazione della struttura verticistica agli artt. 3 e seguenti del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

Infatti, l’art. 2, comma 8, del citato d.lgs. n. 517 del 1999 stabilisce che «le aziende ospedaliere universitarie integrate con il Servizio sanitario nazionale di cui al comma 2, lettera a), (…) operano secondo modalità organizzative e gestionali determinate dall’azienda in analogia alle disposizioni degli articoli 3, 3-bis e 4» del d.lgs. n. 502 del 1992.

L’art. 3, comma 1-quater, del decreto da ultimo richiamato stabilisce che «sono organi dell’azienda il direttore generale e il collegio sindacale. Il direttore generale (…) è responsabile della gestione complessiva e nomina i responsabili delle strutture operative dell’azienda. Il direttore generale è coadiuvato, nell’esercizio delle proprie funzioni, dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario».

Il comma 1-quinquies dello stesso art. 3 stabilisce che «il direttore amministrativo e il direttore sanitario sono nominati dal direttore generale. Essi partecipano unitamente al direttore generale, che ne ha la responsabilità, alla direzione dell’azienda, assumono diretta responsabilità delle funzioni attribuite alla loro competenza e concorrono, con la formulazione di proposte e pareri, alla formazione della direzione generale».

L’art. 3-bis, comma 8, prevede che «il rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo ed è regolato dal contratto di diritto privato, di durata non inferiore a tre e non superiore a cinque anni, rinnovabile, stipulato in osservanza delle norme del titolo terzo del libro quinto del codice civile. La Regione disciplina le cause di risoluzione del rapporto con il direttore amministrativo e il direttore sanitario».

Lo stesso contratto individuale di lavoro stipulato dal ricorrente rinvia agli articoli 3, 3-bis, 3-quater e 4 del d.lgs. n. 502 del 1992 e successive modificazioni, nonché alla legge regionale.

La norma impugnata, la cui rubrica reca «direttore amministrativo e direttore sanitario», prevede che «il direttore amministrativo e il direttore sanitario cessano dall’incarico entro tre mesi dalla data di nomina del nuovo direttore generale e possono essere riconfermati».

Il Tribunale remittente ritiene che tale norma «debba trovare applicazione anche all’azienda ospedaliera convenuta, in virtù del richiamo effettuato dall’art. 2, comma 8, del d.lgs. n. 517, sia in forza del richiamo espresso contenuto nel contratto individuale di lavoro stipulato dal ricorrente».

La norma censurata precluderebbe, sottolinea il giudice a quo, l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno derivante dalla risoluzione anticipata del contratto stipulato tra le parti. L’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della suddetta norma, nella parte in cui dispone per legge la cessazione anticipata e automatica dell’incarico, renderebbe illegittimo il provvedimento di revoca dell’incarico con conseguente diritto del ricorrente al risarcimento del danno.

Lo stesso giudice remittente rileva come non siano possibili interpretazioni costituzionalmente orientate che consentano al ricorrente di ottenere, a prescindere da una espressa dichiarazione di incostituzionalità, la ricostituzione del rapporto e la riassegnazione dell’incarico. Né, si aggiunge, è consentito al giudice estendere alla norma in esame quanto statuito da questa Corte con le sentenze n. 103 e n. 104 del 2007.

Per quanto attiene alla non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale premette di essere consapevole del fatto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 233 del 2006, ha affermato che gli effetti della nomina di un nuovo direttore generale sugli incarichi di direttore sanitario e amministrativo non riguardano una ipotesi di spoils system in senso tecnico. In particolare, la Corte ha chiarito come tale aspetto non regoli «un rapporto fondato sull’intuitus personae tra l’organo politico che conferisce l’incarico e il soggetto che lo riceve ed è responsabile verso il primo dell’efficienza dell’amministrazione, ma concerne l’organizzazione della struttura amministrativa regionale in materia sanitaria e mira a garantire, all’interno di essa, la consonanza di impostazione gestionale tra il direttore generale e i direttori amministrativi e sanitari delle stesse aziende da lui nominati».

Successivamente, la stessa Corte, con le sentenze n. 103 e n. 104 del 2007, avrebbe affermato una serie di principi generali che inducono il remittente a ritenere la questione al suo esame non manifestamente infondata

In particolare, con la sentenza n. 104 del 2007, la Corte ha dichiarato la incostituzionalità della norma che prevedeva la cessazione automatica dell’incarico di direttore generale delle aziende sanitarie locali o di aziende ospedaliere al novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale; ciò, sul presupposto che è costituzionalmente illegittima una interruzione del rapporto di ufficio per una causa estranea alle vicende del rapporto e non sulla base di valutazioni concernenti i risultati aziendali o il raggiungimento degli obiettivi (il giudice a quo ha richiamato anche parte della motivazione della sentenza n. 103 del 2007).

Inoltre, si rileva come non «possa avere senso l’abolizione della cessazione automatica dall’incarico per i direttori generali delle aziende sanitarie locali e ospedaliere ed il mantenimento dell’automatismo, invece, per i dirigenti di sua nomina, in nome di una non meglio identificata “esigenza di garantire la consonanza di impostazione gestionale”». A tale ultimo proposito, si puntualizza che «tale consonanza non si misura con la contiguità più o meno politica o di affinità di vedute sull’impostazione della gestione, quanto invece con la verifica dei risultati».

La norma in esame si porrebbe, pertanto, in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione.

Si osserva, inoltre, come l’art. 15 della legge della Regione Lazio impugnata contemplerebbe già «dei sistemi di verifica del raggiungimento degli obiettivi, nel senso della verifica di consonanza di impostazione gestionale, al comma 7, prevedendo la sospensione e la revoca degli incarichi dei direttori amministrativi in ipotesi molto ampie che consentono la verifica». Se a ciò si aggiunge, prosegue il remittente, che «l’incarico dirigenziale in questione è temporaneo, appare irragionevole e sospetta di incostituzionalità la norma che dispone la decadenza automatica del direttore sanitario all’avvicendarsi di un nuovo direttore generale».

3.— Si è costituita la Regione Lazio rilevando, in primo luogo, la inammissibilità della questione per irrilevanza.

Sul punto, si afferma, infatti, che l’art. 2, comma 8, del d.lgs. n. 517 del 1999, che disciplina il rapporto tra Aziende sanitarie ospedaliere e Università, «non è esaustivo giacché questo rinvia soltanto alle norme “statali” contenute negli artt. 3, 3-bis e 4 del d.lgs. n. 502 del 1992 e non anche a quelle regionali». Ma anche il preteso richiamo espresso contenuto nel contratto individuale, si aggiunge, manca, «a meno che non si ritenga utile al fine del recepimento dell’intera disciplina regionale e quindi anche dell’art. 15, comma 6, il richiamo generale alla legge regionale n. 18 del 1994 contenuto nell’art. 1 del contratto».

Si rileva, inoltre, che non appare condivisibile neanche l’affermazione contenuta nell’ordinanza di rimessione secondo cui la declaratoria di incostituzionalità sarebbe necessaria per potere condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, potendosi applicare l’art. 2227 del codice civile, che prevede l’ipotesi del recesso unilaterale dal contratto e disciplina il risarcimento del danno subito dal prestatore d’opera in caso di recesso ad nutum, ancorché sia iniziata l’esecuzione dell’opera.

Inoltre, come sottolineato dal giudice remittente, la conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma «non avrebbe ripercussioni risarcitorie, ma comporterebbe, piuttosto, il ripristino del rapporto che, però, nel caso di specie non è stato richiesto, rendendo, anche sotto questo profilo, la questione irrilevante».

3.1.— Per quanto attiene alla non manifesta infondatezza, la difesa regionale rileva come il principio di continuità non possa essere utilmente evocato, costituendo una delle possibili derivazioni del principio del buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione. Si osserva come «il direttore amministrativo delle aziende ospedaliere è nominato dal direttore generale e partecipa con quest’ultimo alla direzione dell’azienda e concorre con la formulazione di proposte e di pareri alla formazione delle decisioni della direzione generale (art. 3, comma 1-quinquies, del d.lgs. n. 502 del 1992). Il rapporto direttore generale-direttore amministrativo mirerebbe, pertanto, a garantire, all’interno della struttura amministrativa regionale in materia sanitaria, «la consonanza di impostazione gestionale». In questa prospettiva, la norma impugnata tenderebbe ad assicurare anch’essa il principio del buon andamento dell̵ 7;azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione (si richiama la sentenza n. 233 del 2006).

Né a diversa conclusione potrebbe condurre la successiva sentenza n. 104 del 2007, in quanto con tale sentenza «è stata censurata la contaminazione politica nell’avvicendamento delle strutture apicali dell’amministrazione sanitaria in contrasto con il principio di imparzialità più che con quello di buon andamento». Non è un caso che la Corte, continua la difesa della Regione, richiami anche il principio dettato dall’art. 98 Cost., secondo cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione, con ciò intendendo garantire l’amministrazione pubblica e i suoi dipendenti da influenze politiche.

Alla luce di quanto esposto, dovrebbe ritenersi la inammissibilità della censura formulata con riferimento all’art. 98 della Costituzione, in quanto «è stata impugnata una norma regionale che disciplina il rapporto interno tra organi della p.a., cui è estranea ogni contaminazione politica».

Si conclude osservando che «il giudice a quo ignora che la soluzione propugnata sortirebbe, quali irragionevoli conseguenze, sia quella di consentire che del continuum con il proprio dirigente amministrativo possa usufruire soltanto il direttore generale iniziale e non anche il subentrante, a qualsiasi titolo (la sostituzione potrebbe essere determinata anche dalla scomparsa dell’originario direttore generale), sia quella di un rapporto, originariamente fiduciario, che, a seguito del venir meno di una delle parti, si trasformerebbe, immotivatamente, in un ordinario rapporto di lavoro a tempo determinato».

4.— Si è costituita nel presente giudizio la parte privata del processo a quo, sottolineando come a seguito della nomina del nuovo direttore generale, avvenuta con decreto del Rettore dell’Università in data 15 luglio 2005, abbia ricevuto una comunicazione di cessazione immediata dalle funzioni di direttore amministrativo ai sensi dell’art. 15, comma 6, della legge regionale n. 18 del 1994.

Detto ciò, l’interessato si riporta alle più rilevanti deduzioni contenute nell’ordinanza di rimessione, richiamando i principi affermati da questa Corte, in relazione al rapporto tra organi politici e organi dirigenziali, con le sentenze numeri 103 e 104 del 2007, nonché numeri 161 e 351 del 2008 di questa Corte. In particolare, dall’analisi della giurisprudenza costituzionale emergerebbe come l’unica eccezione al principio che vieta la decadenza automatica al di fuori di un giusto procedimento sarebbe rappresentata dai cosiddetti incarichi dirigenziali apicali.

Nella fattispecie all’esame del giudice remittente non verrebbe in rilievo un incarico dirigenziale apicale, ma un rapporto tra due organi amministrativi che «colloca tutta la questione nell’ambito dell’azione amministrativa», con conseguente necessità di applicare il principio di cui all’art. 97 della Costituzione. Tale principio impone che la cessazione dall’incarico può essere soltanto il risultato di un procedimento di verifica dei risultati e di osservanza delle direttive all’esito del quale il nuovo direttore generale può accertare se sussistono effettivamente le condizioni perché si realizzi la «consonanza gestionale».

5.— Si è costituita in giudizio anche l’Azienda Policlinico Umberto I chiedendo alla Corte il rigetto della questione.

6.— Nell’imminenza dell’udienza pubblica la parte privata ha depositato una memoria, con la quale ha, in particolare, replicato alle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa regionale.

Con riferimento alla possibile applicazione dell’art. 2227 cod. civ., si è osservato come tale norma preveda la possibilità del committente di recedere dal contratto con obbligo di corrispondere una indennità al prestatore d’opera, mentre nel caso in esame è stato chiesto il risarcimento del danno.

Per quanto attiene alla rilevanza della questione, si deduce come – in considerazione del fatto che l’eventuale accoglimento della questione stessa condurrebbe alla necessaria reintegrazione del direttore con conseguente impossibilità di ottenere il risarcimento del danno – non possa negarsi al ricorrente del giudizio a quo la facoltà di chiedere la sola condanna al risarcimento dei danni.

Infine, si osserva come la previsione della possibilità di riconferma non escluderebbe la illegittimità della cessazione prevista dalla norma impugnata.

Nel merito vengono ribadite le argomentazioni già precedentemente svolte e quelle contenute nell’ordinanza di rimessione, volte a dimostrare la contrarietà della disposizione impugnata ai parametri costituzionali evocati.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale ordinario di Roma, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6, della legge della Regione Lazio 16 giugno 1994, n. 18 (Disposizioni per il riordino del servizio sanitario regionale ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni e integrazioni. Istituzione delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere).

La norma censurata prevede che «il direttore amministrativo e il direttore sanitario cessano dall’incarico entro tre mesi dalla data di nomina del nuovo direttore generale e possono essere riconfermati».

Secondo il giudice a quo, tale disposizione violerebbe gli artt. 97 e 98 della Costituzione, in quanto, in carenza di garanzie procedimentali, non assicurerebbe il principio di continuità dell’azione amministrativa, che è strettamente correlato a quello di buon andamento. Inoltre, si deduce che «non avrebbe senso l’abolizione della cessazione automatica dall’incarico per i direttori generali delle aziende sanitarie locali e ospedaliere» ed il mantenimento dell’automatismo, invece, per i dirigenti di loro nomina, «in nome di una non meglio identificata “esigenza di garantire la consonanza di impostazione gestionale”».

2.— Al riguardo, è necessario richiamare gli aspetti essenziali della vicenda oggetto del giudizio a quo.

Il ricorrente aveva stipulato in data 5 dicembre 2001 un contratto a tempo determinato con l’Azienda Policlinico Umberto I, avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di direttore amministrativo dell’Azienda stessa della durata di cinque anni.

Con decreto del 15 luglio 2005 il Rettore dell’Università aveva nominato un nuovo direttore amministrativo.

Con riferimento a tale nomina, il ricorrente nel giudizio a quo aveva ricevuto una comunicazione di cessazione immediata dalle funzioni in corso, ai sensi dell’art. 15, comma 6, della legge regionale n. 18 del 1994.

In seguito a ciò, il ricorrente proponeva ricorso al Tribunale ordinario di Roma chiedendo l’accertamento della violazione da parte dell’Azienda ospedaliera universitaria degli obblighi assunti con il contratto e la condanna della stessa al risarcimento dei danni.

3.— In via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità della questione sollevate dalla difesa della Regione Lazio.

3.1.— Con una prima eccezione si deduce che la norma censurata non si applicherebbe nel giudizio a quo, in quanto l’art. 2, comma 8, del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517 (Disciplina dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed università, a norma dell’articolo 6 della legge 30 novembre 1998, n. 419), il quale regola il rapporto tra Aziende sanitarie ospedaliere e Università, richiamerebbe soltanto le norme statali contenute negli artt. 3, 3-bis e 4 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e non anche quelle regionali.

L’eccezione non è fondata.

Il remittente, con motivazione non implausibile, ha affermato che il predetto d.lgs. n. 517 del 1999, nel disciplinare i rapporti in esame, ha richiamato, per quanto non specificamente da esso previsto, il d.lgs. n. 502 del 1992. Tale decreto, a sua volta, prevedendo, tra l’altro, all’art. 3-bis, comma 8, che le cause di risoluzione del rapporto con il direttore amministrativo e con il direttore sanitario sono disciplinate dalla Regione, ha conseguentemente rinviato, per tale aspetto, anche alla normativa regionale, e quindi alla norma censurata, la quale contempla proprio una causa di interruzione del rapporto.

3.2.— La Regione ha eccepito, inoltre, quale motivo di inammissibilità, che il giudice avrebbe dovuto comunque esaminare la domanda di risarcimento applicando l’art. 2227 del codice civile, senza necessità di ricorrere alla norma censurata.

Anche tale eccezione non è fondata.

La citata disposizione attribuisce, nell’ambito della disciplina del lavoro autonomo privatistico, al committente il diritto potestativo di interrompere il rapporto contrattuale in corso mediante l’esercizio del recesso accompagnato dalla corresponsione al prestatore d’opera di un trattamento indennitario.

La norma regionale ora censurata disciplina, invece, un istituto diverso, rappresentato dalla interruzione ex lege del rapporto dirigenziale in corso con un soggetto pubblico, con la conseguenza che non si potrebbe comunque applicare la disposizione codicistica nella parte in cui disciplina il regime delle indennità. Inoltre, il ricorrente nel giudizio a quo non ha chiesto la corresponsione di una prestazione indennitaria, normalmente legata alla commissione di un fatto lecito, ma ha invocato una tutela risarcitoria in dipendenza dell’accertamento di un inadempimento contrattuale.

In definitiva, sia la eterogeneità della fattispecie di cui al citato art. 2227 cod. civ. rispetto a quella oggetto del giudizio a quo, sia la precisa individuazione del petitum del giudizio stesso, escludono che la controversia possa essere risolta dal Tribunale adito senza necessità di accertare la illegittimità della decadenza automatica dal rapporto prevista dalla disposizione censurata e mediante il solo riconoscimento all’interessato di una indennità prevista dalla predetta disposizione del codice civile.

3.3.— Quanto sopra comporta il rigetto anche dell’eccezione proposta dalla resistente Amministrazione, con la quale si deduce che sarebbe stato possibile esaminare la domanda attrice anche in assenza della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in questione. Al riguardo, è sufficiente osservare che costituisce presupposto indefettibile dell’azione risarcitoria il previo accertamento, sul piano oggettivo, della illegittimità della norma sulla interruzione automatica del rapporto di lavoro.

3.4.— Egualmente non fondata è, infine, l’eccezione di inammissibilità della questione per irrilevanza, sollevata dalla difesa della Regione, sotto il profilo secondo il quale l’accoglimento della stessa potrebbe comportare soltanto il ripristino del rapporto interrotto e non anche la condanna dell’Azienda ospedaliera universitaria al risarcimento del danno, come richiesto dall’interessato.

Avuto riguardo alla particolare natura della vicenda contenziosa in esame, non può negarsi che spetti al soggetto investito di pubbliche funzioni decidere le modalità di tutela, reale o risarcitoria, delle proprie situazioni giuridiche di cui si assuma la lesione. Il ricorrente nel giudizio a quo ha chiesto il risarcimento del danno, deducendo la illegittimità dell’intervenuta interruzione automatica del suo rapporto dirigenziale, disposta in applicazione della norma censurata. Ne consegue che soltanto l’accertamento della illegittimità costituzionale della norma, che ha autorizzato l’Amministrazione ospedaliera a dichiarare la cessazione automatica del rapporto, permetterebbe al giudice a quo di valutare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della pretesa risarcitoria azionata.

Ad una diversa conclusione, d’altronde, non si può pervenire mediante il richiamo alla sentenza n. 351 del 2008, con cui questa Corte ha ritenuto contrario, tra l’altro, al principio costituzionale di buon andamento la sola previsione di strumenti di tutela risarcitoria in favore del dirigente rimosso illegittimamente, sottolineando come la mancanza di forme di tutela reale pregiudichi gli interessi pubblici di rilevanza costituzionale. Infatti, con la citata sentenza si è messa unicamente in rilievo la imprescindibilità, nel settore in esame, della previsione di strumenti di protezione di tipo reale, senza alcuna indicazione in ordine alle modalità di scelta delle forme di tutela.

Nella specie, il ricorrente ha chiesto la condanna dell’amministrazione ospedaliera al risarcimento del danno. La valutazione della fondatezza di tale pretesa presuppone, pertanto, un giudizio sul comportamento tenuto dal soggetto pubblico in applicazione della norma censurata dal giudice a quo.

4.— Nel merito, la questione è fondata.

4.1.— La norma in esame – prevedendo che il direttore amministrativo e il direttore sanitario cessano dall’incarico entro tre mesi dalla data di nomina del nuovo direttore generale e possono essere riconfermati – contempla un meccanismo di decadenza automatica e generalizzata dalle suddette funzioni dirigenziali.

La difesa della resistente Regione, a sostegno della infondatezza della questione, ha richiamato la sentenza n. 233 del 2006, con la quale questa Corte ha affermato, con riferimento a quanto previsto dall’art. 14, comma 3, della legge della Regione Calabria 17 agosto 2005, n. 13 (Provvedimento generale, recante norme di tipo ordinamentale e finanziario – collegato alla manovra di assestamento di bilancio per l’anno 2005 ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8), che gli incarichi di direttore amministrativo e direttore sanitario hanno natura esclusivamente fiduciaria e «terminano in caso di cessazione per qualunque causa del direttore generale, con risoluzione di diritto dei relativi contratti di lavoro», specificando che quella sopra indicata non può essere qualificata come un’ipotesi di spoils system in senso tecnico. Secondo la Corte, infatti, la suindicata norma «non regola un rapporto f ondato sull’intuitus personae tra l’organo politico che conferisce un incarico ed il soggetto che lo riceve ed è responsabile verso il primo dell’efficienza dell’amministrazione; ma concerne l’organizzazione della struttura amministrativa regionale in materia sanitaria e mira a garantire, all’interno di essa, la consonanza di impostazione gestionale fra il direttore generale e i direttori amministrativi e sanitari delle stesse aziende da lui nominati». In questa prospettiva, la citata sentenza ha puntualizzato che «la norma impugnata tende ad assicurare il buon andamento dell’amministrazione, e quindi non viola l’art. 97 Cost.».

4.2.— A tale riguardo, va però osservato che la successiva giurisprudenza costituzionale ha effettuato, in relazione ad una serie di disposizioni disciplinatrici dei rapporti tra organi politici e amministrativi ovvero tra organi amministrativi, talune puntualizzazioni volte, rispetto a quanto affermato dalla citata sentenza n. 233 del 2006, a valorizzare, in particolare, il principio di continuità dell’azione amministrativa che rinviene il suo fondamento proprio nell’art. 97 Cost.

Si è così precisato, con la suindicata giurisprudenza, che i meccanismi di decadenza automatica, «ove riferiti a figure dirigenziali non apicali, ovvero a titolari di uffici amministrativi per la cui scelta l’ordinamento non attribuisce, in ragione delle loro funzioni, rilievo esclusivo o prevalente al criterio della personale adesione del nominato agli orientamenti politici del titolare dell’organo che nomina, si pongono in contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto pregiudicano la continuità dell’azione amministrativa, introducono in quest’ultima un elemento di parzialità, sottraggono al soggetto dichiarato decaduto dall’incarico le garanzie del giusto procedimento e svincolano la rimozione del dirigente dall’accertamento oggettivo dei risultati conseguiti» (sentenze n. 34 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008, n. 104 e n. 103 del 2007).

In particolare, la Corte, con la sentenza n. 104 del 2007, ha affermato, con riferimento proprio alla legislazione della Regione Lazio, che il direttore generale di Aziende sanitarie locali – nominato, con ampio potere discrezionale, dal Presidente della Regione per un periodo determinato – non può decadere automaticamente in connessione con l’insediamento del nuovo Consiglio regionale. É stata ritenuta, infatti, in contrasto con l’art. 97 della Costituzione la previsione della cessazione del soggetto, cui sia stata affidata tale funzione, dal rapporto di ufficio e di lavoro con la Regione «per una causa estranea alle vicende del rapporto stesso, e non sulla base di valutazioni concernenti i risultati aziendali o il raggiungimento degli obiettivi di tutela della salute e di funzionamento dei servizi, o – ancora – per una delle altre cause che legittimerebbero la risoluzione per inadempimento del rapporto».

4.3.— Dall’applicazione di tali principi alla vicenda cha ha dato origine al presente giudizio, deriva, avendo anche riguardo al contesto normativo in cui la norma censurata si colloca, che quest’ultima contrasta con l’art. 97 Cost.

Deve essere, innanzitutto, chiarito che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa regionale nella discussione in udienza pubblica, non sussiste un rapporto di stretta simmetria tra le modalità di conferimento dell’incarico dirigenziale e le cause di cessazione di esso.

La scelta fiduciaria del direttore amministrativo – che deve essere effettuata con provvedimento, motivato, ma pur sempre ampiamente discrezionale, del direttore generale, con particolare riferimento alle capacità professionali del prescelto in relazione alle funzioni da svolgere (art. 15, secondo comma, della legge n. 18 del 2004) – non implica, infatti, che la interruzione del rapporto, che si instaura in conseguenza di tale scelta, possa avvenire con il medesimo margine di apprezzamento discrezionale che connota quest’ultima. Una volta, infatti, instaurato il rapporto di lavoro, con la predeterminazione contrattuale della sua durata, vengono in rilievo altri profili, connessi, in particolare, da un lato, alle esigenze dell’Amministrazione ospedaliera concernenti l’espletamento con continuità delle funzioni dirigenziali proprie del direttore amministrativo, e, dall’altro lato, alla tutela giudiziaria, costituzio nalmente protetta, delle situazioni soggettive dell’interessato, inerenti alla carica.

E proprio la valutazione di tali esigenze determina il contrasto della disposizione impugnata con il principio di buon andamento sancito dall’art. 97 Cost., in quanto la disposizione stessa non àncora l’interruzione del rapporto di ufficio in corso a ragioni “interne” a tale rapporto, che – legate alle modalità di svolgimento delle funzioni del direttore amministrativo – siano idonee ad arrecare un vulnus ai principi di efficienza, efficacia e continuità dell’azione amministrativa. A ciò è da aggiungere che la norma censurata, prevedendo l’interruzione ante tempus del rapporto, non consente alcuna valutazione qualitativa dell’operato del direttore amministrativo, che sia effettuata con le garanzie del giusto procedimento. Nell’ambito di tale procedimento il nuovo direttore generale sarebbe tenuto a specificare le ragioni, connesse alle pregresse modalità di svolgimento d elle funzioni dirigenziali da parte dell’interessato, idonee a fare ritenere sussistenti comportamenti di quest’ultimo suscettibili di integrare la violazione delle direttive ricevute o di determinare risultati negativi nei servizi di competenza e giustificare, dunque, il venir meno della necessaria consonanza di impostazione gestionale tra direttore generale e direttore amministrativo. In effetti, soltanto nel rispetto delle predette modalità e condizioni il nuovo direttore generale può, con provvedimento motivato, procedere alla rimozione del direttore amministrativo prima della suddetta scadenza contrattuale.

Sotto altro aspetto, come si è già precisato, l’esistenza di una fase valutativa dei comportamenti tenuti dall’interessato può assicurare al dirigente la possibilità di fare valere il suo diritto di difesa, sulla base eventualmente dei risultati delle proprie prestazioni e delle competenze esercitate in concreto nella gestione dei «servizi amministrativi» a lui affidati.

Del resto, i commi 7 e 8 dell’art. 15 della legge regionale in questione, prevedono un particolare iter procedimentale di garanzia per il direttore amministrativo, che si articola normalmente in una prima fase svolta in contraddittorio, all’esito della quale può essere disposta, con atto motivato, la sola sospensione del dirigente; e una seconda fase, connotata sempre dalle medesime garanzie procedimentali, che, in presenza di «casi di particolare gravità, ovvero qualora le inadempienze che hanno determinato la sospensione siano reiterate», può condurre alla revoca dell’incarico.

In definitiva, in presenza delle suindicate disposizioni e avuto riguardo al complessivo sistema di nomina e di revoca del dirigente in questione, la previsione, da parte della norma impugnata, di una interruzione automatica del rapporto per effetto della nomina del nuovo direttore generale, senza la previsione di una fase procedurale che faccia dipendere la decadenza da pregressa responsabilità del dirigente, comporta una vera e propria «discontinuità della gestione» (sentenza n. 55 del 2009), in contrasto con l’art. 97 della Costituzione.

Né ad una diversa conclusione può pervenirsi per il solo fatto che la norma preveda la possibilità della riconferma del direttore amministrativo. Il potere del direttore generale di conferma di quest’ultimo non attribuisce, infatti, al rapporto dirigenziale in corso con l’interessato, alcuna significativa garanzia, atteso che dal mancato esercizio del predetto potere la norma censurata fa derivare la decadenza automatica senza alcuna possibilità di controllo giurisdizionale.

Alla luce di quanto sopra, pertanto, deve essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6, della legge regionale n. 18 del 1994.

per questi motivi

la corte costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6, della legge della Regione Lazio 16 giugno 1994, n. 18 (Disposizioni per il riordino del servizio sanitario regionale ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni e integrazioni. Istituzione delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfonso QUARANTA , Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 225

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 52, della legge della Regione Lazio 11 agosto 2009, n. 22 (Assestamento al bilancio annuale e pluriennale 2009-2011 della Regione Lazio), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19 ottobre 2009, depositato in cancelleria il 27 ottobre 2009 ed iscritto al n. 101 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;

udito nell’udienza pubblica del 25 maggio 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Claudio Chiola per la Regione Lazio.

Ritenuto in fatto

1. − Con ricorso depositato in cancelleria il 27 ottobre 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, con riferimento agli articoli 3, 51 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 52, della legge della Regione Lazio 11 agosto 2009, n. 22 (Assestamento al bilancio annuale e pluriennale 2009-2011 della Regione Lazio).

Riferisce il Presidente del Consiglio che la disposizione censurata stabilisce che «i soggetti che previa una selezione di evidenza pubblica hanno ricoperto, per almeno cinque anni consecutivi, incarichi dirigenziali nelle strutture della Regione e attualmente prestano servizio presso le stesse sono, a domanda, immessi nel ruolo della dirigenza della Regione».

Ritiene il ricorrente che il riportato comma 52 sia illegittimo. Esso, infatti, offrirebbe la possibilità a tutti i dipendenti regionali che abbiano superato una selezione di evidenza pubblica e abbiano avuto un incarico dirigenziale per cinque anni consecutivi, di diventare dirigenti grazie ad una semplice domanda.

Tale norma regionale, invero, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3, 51 e 97 Cost., determinando una grave lesione ai principi costituzionali di parità tra i cittadini (art. 3), di uguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici (art. 51) e di accesso mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge, agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni (art. 97).

In particolare, con riferimento all’art. 97 Cost., il ricorrente fa presente che la regola del pubblico concorso, come ribadito anche dal Consiglio di Stato, è posta a tutela non solo dell’interesse pubblico alla scelta dei migliori − mediante una selezione aperta alla partecipazione di coloro che siano in possesso dei prescritti requisiti − ma anche del diritto dei potenziali aspiranti a poter partecipare alla relativa selezione.

La regola costituzionale del pubblico concorso verrebbe poi concretamente salvaguardata con una serie di disposizioni legislative che espressamente comminano la nullità dell’assunzione effettuata senza osservanza delle prescritte procedure selettive e la responsabilità personale degli amministratori che vi hanno provveduto con riguardo sia alle amministrazioni statali sia alle altre amministrazioni pubbliche, compresi gli enti locali.

Ricorda il Presidente del Consiglio che, come questa Corte ha riconosciuto, l’accesso al concorso può essere condizionato al possesso di requisiti fissati in base alla legge, anche allo scopo di consolidare pregresse esperienze lavorative maturate nell’ambito dell’amministrazione, ma ciò «fino al limite oltre il quale possa dirsi che l’assunzione nell’amministrazione pubblica, attraverso norme di privilegio, escluda o irragionevolmente riduca, le possibilità di accesso, per tutti gli altri aspiranti, con violazione del carattere “pubblico” del concorso, secondo quanto prescritto in via normale, a tutela anche dell’interesse pubblico, dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione».

2. − Si è costituita in giudizio la Regione Lazio, in persona del vice-presidente Esterino Montino, giuste determinazioni del Segretario generale del Consiglio regionale n. 698 del 10 novembre 2009 e del Dipartimento Economico e Occupazionale C3307 del 24 novembre 2009, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.

3. − Successivamente, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa, nella quale ha eccepito la nullità della costituzione in giudizio della Regione. In base all’art. 41, comma 4, legge statutaria 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), il Presidente promuove l’impugnazione delle leggi dello Stato innanzi alla Corte costituzionale. Secondo il ricorrente, tale previsione, saldandosi con le prerogative attribuite al Presidente della Giunta regionale dal comma 1 della medesima disposizione, in forza del quale egli dirige la politica dell’esecutivo, comporterebbe la nullità dell’atto di costituzione della Regione Lazio nel presente giudizio di costituzionalità per carenza di potere dei due organi che hanno adottato la relativa determinazione.

Priva di fondamento risulterebbe la motivazione posta a fondamento della determinazione del Direttore del Dipartimento economico e occupazionale, che lega la pretesa attribuzione di disporre in materia di liti attive e passive all’attuale contenuto dell’articolo 48 dello Statuto regionale, con riferimento alla resistenza in giudizio in caso di impugnazione di una legge della Regione Lazio per vizi di costituzionalità.

Parimenti priva di fondamento, per la resistenza nel ricorso in esame, sarebbe la determinazione del Segretario generale, la quale richiama gli articoli 21 e 24 della legge statutaria n. 1 del 2004 inconferenti nella fattispecie, perché il primo (art. 21) riguarda le funzioni del Presidente del Consiglio regionale, tra le quali non è assolutamente prevista quella di impugnare le leggi dello Stato o di altra Regione o di resistere in giudizio, e perché il secondo (art. 24) disciplina l’autonomia del Consiglio regionale.

In ogni caso il Presidente del Consiglio insiste nelle proprie conclusioni, chiedendo l’accoglimento del ricorso.

4. − Con propria memoria, successivamente, la Regione Lazio svolgeva ulteriori deduzioni sul merito del ricorso.

5. − In apertura dell’udienza pubblica, veniva dichiarata con ordinanza l’inammissibilità della costituzione in giudizio della Regione Lazio, per la mancanza di delibera di autorizzazione del Presidente della giunta regionale, essendo state ritenute insufficienti a tal fine tanto la determinazione del Presidente del Consiglio regionale, quanto la determinazione del Direttore del Dipartimento economico e occupazionale.

Considerato in diritto

1. − Con ricorso depositato il 27 ottobre 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art. 1, comma 52, della legge della Regione Lazio 11 agosto 2009, n. 22 (Assestamento al bilancio annuale e pluriennale 2009-2001 della Regione Lazio).

Tale norma regionale, secondo il ricorrente, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, determinando una grave lesione dei principi costituzionali di parità tra cittadini (art. 3, Cost.) e di uguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici (art. 51, Cost.), nonché di quello del pubblico concorso quale modalità prescritta, salvo i casi stabiliti dalla legge, per accedere agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni (art. 97, Cost.).

2. − Preliminarmente, deve essere dichiarata la inammissibilità della costituzione in giudizio della Regione Lazio, come da ordinanza allegata, letta in udienza.

3. − Nel merito, la questione è fondata.

Come questa Corte ha più volte affermato, il principio del pubblico concorso per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, quando l’intento è di valorizzare esperienze professionali maturate all’interno dell’amministrazione, può andare incontro a deroghe ed eccezioni, attraverso la previsione di trasformazione delle posizioni di lavoro a tempo determinato, già ricoperte da personale precario dipendente. Ma, affinché «sia assicurata la generalità della regola del concorso pubblico disposta dall’art. 97 Cost.», è necessario che «l’area delle eccezioni» alla regola sancita dal suo primo comma sia «delimitata in modo rigoroso» (sentenze n. 363 del 2006, n. 215 del 2009 e n. 9 del 2010). In particolare, è indispensabile che le eccezioni al principio del pubblico concorso siano numericamente contenute in percentuali limitate, rispetto alla globalità delle assunzioni pos te in essere dall’amministrazione; che l’assunzione corrisponda a una specifica necessità funzionale dell’amministrazione stessa; e, soprattutto, che siano previsti adeguati accorgimenti per assicurare comunque che il personale assunto abbia la professionalità necessaria allo svolgimento dell’incarico (sentenza n. 215 del 2009).

Tale principio non è destinato a subire limitazioni neppure nel caso in cui il personale da stabilizzare abbia fatto ingresso, in forma precaria, nell’amministrazione con procedure di evidenza pubblica, e neppure laddove la selezione a suo tempo svolta sia avvenuta con pubblico concorso, dato che la necessità del concorso per le assunzioni a tempo indeterminato discende non solo dal rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., ma anche dalla necessità di consentire a tutti i cittadini l’accesso alle funzioni pubbliche, in base all’art. 51 Cost.

Invero, «la natura comparativa e aperta della procedura è […] elemento essenziale del concorso pubblico», sicché deve escludersi la legittimità costituzionale di «procedure selettive riservate, che escludano o riducano irragionevolmente la possibilità di accesso dall’esterno», violando il carattere pubblico del concorso (in tal senso, sentenze n. 293 del 2009 e n. 100 del 2010).

D’altra parte, come pure è stato esplicitamente affermato nelle citate decisioni di questa Corte, «il previo superamento di una qualsiasi “selezione pubblica”, presso qualsiasi “ente pubblico”, è requisito troppo generico per autorizzare una successiva stabilizzazione senza concorso», perché esso «non garantisce che la previa selezione avesse natura concorsuale e fosse riferita alla tipologia e al livello delle funzioni che il personale successivamente stabilizzato è chiamato a svolgere».

La norma regionale attualmente censurata attribuisce ai soggetti che, in seguito ad una precedente selezione di evidenza pubblica, abbiano ricoperto, per almeno cinque anni consecutivi, incarichi dirigenziali nelle strutture della Regione e attualmente prestino servizio presso le stesse, il diritto di essere immessi, su semplice domanda, nel ruolo della dirigenza della Regione.

La lesione del principio del pubblico concorso, nel caso in esame, è accentuata dal carattere assolutamente potestativo del diritto alla stabilizzazione contemplato nella norma impugnata, la quale autorizza il personale dirigente assunto in via precaria ad essere stabilizzato su semplice domanda e, dunque, senza alcuna giustificazione della necessità funzionale dell’amministrazione e senza alcuna valutazione della professionalità e dell’attività svolta da questi dirigenti.

Deve, dunque, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 52, della legge della Regione Lazio n. 22 del 2009 per violazione degli artt. 51 e 97 Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la inammissibilità della costituzione in giudizio della Regione Lazio;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 52, della legge della Regione Lazio 11 agosto 2009, n. 22 (Assestamento al bilancio annuale e pluriennale 2009-2011 della Regione Lazio).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

Allegato:

Ordinanza letta all'udienza del 25 maggio 2010

ORDINANZA

Rilevato che la Regione Lazio risulta essersi costituita in giudizio sulla base della determinazione del Segretario generale del Consiglio regionale n. 698 del 10 novembre 2009 e sulla base della determinazione del Dipartimento Economico e Occupazionale n. C 3307 del 24 novembre 2009;

che, in tali atti di determinazione, la legittimazione degli organi emittenti è stata fondata sulle prerogative del Presidente del Consiglio regionale, delineate negli artt. 21, 24 L.R. Stat. 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), tra le quali non è prevista la competenza a deliberare sui giudizi innanzi alla Corte costituzionale;

che nell'atto di determinazione del Segretario del Dipartimento Economico si è fatto riferimento anche alle disposizioni contenute negli artt. 17 e 34, L.R. 18 febbraio 2002, n. 6;

che la norma cui occorre fare riferimento è l'art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 cui si adegua l'art. 41, comma 4, del vigente Statuto della Regione Lazio (legge statutaria 11 novembre 2004, n. 1);

che, in tale competenza ad autorizzare la promozione dei giudizi di costituzionalità, deve ritenersi compresa anche la deliberazione di costituirsi in tali giudizi, data la natura politica della valutazione che i due atti richiedono;

che, pertanto, la costituzione della Regione Lazio deve ritenersi inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'inammissibilità della costituzione della Regione Lazio.

F.to: Francesco Amirante, Presidente


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SENTENZA N. 226

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 40, 41, 42 e 43 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promossi dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Umbria, notificati il 22 settembre 2009, depositati in cancelleria il 25, il 29 ed il 30 settembre 2009 e rispettivamente iscritti ai nn. 64, 66 e 67 del registro ricorsi 2009.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi gli avvocati Lucia Bora per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per le Regioni Emilia-Romagna e Umbria e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 22 settembre 2009, la Regione Toscana ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 40, 41, 42 e 43, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), per violazione dell’art. 117, commi secondo, lettera h), quarto e sesto, della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione.

La ricorrente premette che le norme impugnate regolano la collaborazione di associazioni di privati cittadini alla tutela della sicurezza urbana e alla prevenzione di situazioni di disagio sociale.

In particolare, il comma 40 del citato art. 3 prevede che «i sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale».

Il comma 41 stabilisce che le predette associazioni «sono iscritte in apposito elenco tenuto a cura del prefetto, previa verifica da parte dello stesso, sentito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, dei requisiti necessari previsti dal decreto di cui al comma 43», e demanda allo stesso prefetto di provvedere «al loro periodico monitoraggio, informando dei risultati il comitato».

Il comma 42 precisa ulteriormente che «tra le associazioni iscritte nell’elenco di cui al comma 41 i sindaci si avvalgono, in via prioritaria, di quelle costituite tra gli appartenenti, in congedo, alle Forze dell’ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato», aggiungendo che «le associazioni diverse da queste ultime sono iscritte negli elenchi solo se non siano destinatarie, a nessun titolo, di risorse economiche a carico della finanza pubblica».

Da ultimo, il comma 43 attribuisce ad un decreto del Ministro dell’interno, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, il compito di determinare gli ambiti operativi delle disposizioni di cui ai commi 40 e 41, nonché i requisiti per l’iscrizione e le modalità di tenuta degli elenchi.

Ad avviso della ricorrente, le disposizioni ora ricordate risulterebbero invasive delle competenze legislative regionali.

Alla luce di una consolidata giurisprudenza costituzionale, che si pone in linea di continuità con un orientamento formatosi già prima della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia della «sicurezza», demandata alla legislazione esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., deve essere, difatti, intesa in senso restrittivo. Tenuto conto della connessione testuale con l’«ordine pubblico» e dell’esplicita esclusione dal suo ambito della «polizia amministrativa locale», nonché dell’esigenza di evitare una smisurata dilatazione dell’area di intervento statale, il concetto di «sicurezza» va ritenuto comprensivo, in specie, dei soli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso, quest’ultimo, quale complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui cui si regge l’ordinata e ci vile convivenza nella comunità nazionale.

Quanto, invece, alla «polizia amministrativa locale» – materia rientrante nella potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi della disposizione combinata del secondo comma, lettera h), e del quarto comma dell’art. 117 Cost. – essa abbraccia l’insieme delle misure dirette ad evitare danni o pregiudizi ai soggetti giuridici e alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le competenze delle Regioni e degli enti locali.

La Regione Toscana ha esercitato la propria competenza legislativa in materia con la legge regionale 3 aprile 2006, n. 12 (Norme in materia di polizia comunale e provinciale), il cui art. 7 prevede specificamente che associazioni di volontariato possano partecipare allo svolgimento di compiti di «polizia amministrativa locale». Più in particolare, è previsto che i comuni e le province possano stipulare convenzioni con le associazioni iscritte nel registro di cui all’art. 4 della legge regionale 26 aprile 1993, n. 28 (Norme relative ai rapporti delle organizzazioni di volontariato con la Regione, gli Enti locali e gli altri Enti pubblici – Istituzione del registro regionale delle organizzazioni del volontariato), e successive modificazioni, «per realizzare collaborazioni tra queste ultime e le strutture di polizia locale rivolte a favorire l’educazione alla convivenza, al senso civico e al rispetto della legalità».

Le norme statali di cui ai commi 40, 41 e 42 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 inciderebbero sulla disciplina regionale ora ricordata, vanificando il ruolo e i compiti delle associazioni di volontariato da essa previste.

Le espressioni di cui il comma 40 si avvale – «sicurezza urbana» e «disagio sociale» – sarebbero infatti idonee, nella loro ampiezza e genericità, a svuotare di contenuto le competenze della Regione.

In base alla ricordata giurisprudenza costituzionale, la «sicurezza urbana» potrebbe essere, in effetti, ricondotta alla competenza statale solo se circoscritta agli interventi finalizzati – nell’ambito delle città – alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico. Tanto è vero che, in sede di decisione su un ricorso per conflitto di attribuzioni, la Corte costituzionale ha ritenuto che la definizione di «sicurezza urbana» offerta dall’art. 1 del decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, in attuazione dell’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, sia conforme, bensì, al dettato costituzionale, ma solo in quanto il citato decreto ministeriale fa espresso riferimento, come fondamento dello stesso, al secondo comma, lettera h), dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 1 96 del 2009). Nell’impugnato art. 3, comma 40, della legge n. 94 del 2009 mancherebbe, di contro, ogni specificazione dei limiti del concetto di «sicurezza urbana», il quale si presterebbe, di conseguenza, a ricomprendere anche gli interventi volti a migliorare le condizioni di vivibilità dei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale: interventi da ricondurre, per contro, nell’ambito della competenza regionale, in quanto espressione della polizia amministrativa locale.

A similare conclusione dovrebbe pervenirsi anche con riguardo alla concorrente locuzione «disagio sociale». Tale espressione apparirebbe, infatti, evocativa della generalità delle situazioni, protratte nel tempo, nelle quali un soggetto «non è in grado di utilizzare le proprie risorse e le opportunità offerte dalla società», e quindi «si isola o suscita rigetto da parte della società stessa». Si tratterebbe, dunque, di una nozione di ampia portata, potendo le predette situazioni derivare da molteplici cause, singole o combinate fra loro (ristrettezze economiche, difficoltà familiari, disoccupazione, malattie, invalidità, solitudine, età, carenze culturali, tossicodipendenza e così via dicendo). Sarebbe evidente, in ogni caso, come gli interventi finalizzati a porre rimedio a tali situazioni disagiate risultino riconducibili alla sfera delle «politiche sociali»: materia che ricade anch’essa nella competenza l egislativa residuale delle Regioni.

Analogo contrasto con il riparto costituzionale delle competenze legislative sarebbe riscontrabile in rapporto ai successivi commi 41 e 42, giacché, in materia di polizia amministrativa locale e di politiche sociali, la fissazione delle regole per la tenuta degli elenchi e delle condizioni per l’iscrizione in essi delle associazioni di volontari non potrebbe che spettare alle Regioni: e, infatti, la ricorrente Regione Toscana vi ha provveduto con il citato art. 7 della legge reg. n. 12 del 2006, che rinvia alla legge reg. n. 28 del 1993.

Né, d’altra parte, sarebbe possibile una interpretazione conforme a Costituzione delle norme censurate. Non si potrebbe, in particolare, ritenere che il ricorso alle associazioni di volontari sia da esse previsto nei limiti di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., perché ciò significherebbe affidare a privati cittadini una funzione necessariamente pubblica, quale quella della prevenzione dei reati e del mantenimento dell’ordine pubblico.

Le disposizioni di cui ai commi 40, 41 e 42 risulterebbero illegittime anche sotto il profilo della violazione del principio di leale collaborazione. Nessuna di tali disposizioni prevede, infatti, un coinvolgimento delle Regioni, neppure nella forma “debole” del parere della Conferenza Stato-Regioni: e ciò quantunque esse incidano su ambiti complessi, nei quali spesso le competenze statali e quelle regionali si intersecano. L’esigenza di detto coinvolgimento – inequivocamente desumibile dall’art. 118, terzo comma, Cost., che demanda alla legge statale la disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. – risulterebbe, nella specie, ancor più accentuata, giacché la coesistenza di distinte associazioni di volontariato sul medesimo territorio, regolate da norme che propongono differenti modelli organizzativi, comporterebbe un elev ato grado di incertezza, non solo normativa, ma anche applicativa.

Quanto, infine, al comma 43, esso si porrebbe in contrasto con l’art. 117, sesto comma, Cost., in quanto attribuirebbe una potestà regolamentare allo Stato in materie di competenza legislativa regionale.

2. – Con ricorsi di analogo tenore, notificati entrambi il 22 settembre 2009, la Regione Emilia-Romagna e la Regione Umbria hanno promosso questioni di legittimità costituzionale:

a) in via principale, dei commi 40, 41, 42 e 43 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009, per violazione dell’artt. 117, secondo, quarto e sesto comma, Cost.;

b) in via subordinata, dei commi 40, 41 e 43 del citato art. 3, per violazione dell’art. 118 Cost. e del principio di leale collaborazione.

Le Regioni ricorrenti premettono di essersi anch’esse dotate, nell’esercizio della propria potestà legislativa esclusiva in materia di polizia amministrativa locale, di leggi organiche di disciplina di tale servizio: rispettivamente, la legge della Regione Emilia-Romagna 4 dicembre 2003, n. 24 (Disciplina della polizia amministrativa locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza), come modificata dalla legge regionale 28 settembre 2007, n. 21 (Partecipazione della Regione Emilia-Romagna alla costituzione della fondazione «Scuola interregionale di Polizia locale». Modifiche alla legge regionale 4 dicembre 2003, n. 24), e la legge della Regione Umbria 30 aprile 1990, n. 34 (Norme in materia di polizia municipale e locale), parzialmente sostituita, da ultimo, dalla legge regionale 25 gennaio 2005, n. 1 (Disciplina in materia di polizia locale).

L’art. 8 della legge regionale emiliana prevede specificamente l’«utilizzazione del volontariato», quale «presenza attiva sul territorio, aggiuntiva e non sostitutiva rispetto a quella ordinamentale della polizia locale, con il fine di promuovere l’educazione alla convivenza e il rispetto della legalità, la mediazione dei conflitti e il dialogo tra le persone, l’integrazione e l’inclusione sociale». Si tratta di attività svolte non da associazioni, ma da singoli volontari, in qualche misura inseriti nell’organizzazione della polizia locale; mentre è previsto, al comma 3 dello stesso articolo, che le associazioni di volontariato possano stipulare convenzioni con i comuni e le province «con sole finalità di supporto organizzativo ai soci che svolgano le attività» di cui al medesimo comma. La citata norma regionale determina, altresì, analiticamente i requisiti dei volontari, prevede che la loro c ollaborazione si limiti ad una «qualificata attività di segnalazione» e dispone, fissandone i criteri, l’istituzione da parte dei Comuni di un registro nominativo dei volontari.

Con le norme impugnate, il legislatore statale sarebbe venuto ad interferire nell’indicata materia di competenza regionale.

Al riguardo – dopo avere ampiamente richiamato la giurisprudenza di questa Corte in ordine ai criteri identificativi delle materie «ordine pubblico e sicurezza» e «polizia amministrativa locale» – le Regioni ricorrenti osservano come il comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009, nel delineare l’attività delle associazioni di volontari da esso disciplinate, non menzioni neppure la materia «ordine pubblico e sicurezza», ma faccia diretto riferimento agli «eventi che possano recare danno alla sicurezza urbana» e alle «situazioni di disagio sociale».

Il concetto di «sicurezza urbana» troverebbe una definizione – a livello di disciplina statale – unicamente nel d.m. 5 agosto 2008, a mente del quale per «sicurezza urbana» deve intendersi «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità dei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale». Si tratterebbe, dunque, di una nozione non limitata alla sola attività di prevenzione e repressione dei reati e, di conseguenza, non riconducibile allo stretto ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza statale. A maggior ragione tale conclusione si imporrebbe in rapporto al generico riferimento alle «situazioni di disagio sociale»: nozione, questa, non definita a livello statale, ed alla quale si richiama, invece, la citata legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 2003, che pone tra gli scopi degli interventi la prevenzione, il contrasto e la riduzione «delle cause del disagio e dell’emarginazione sociale, con particolare riferimento alla legge regionale 12 marzo 2003, n. 2 (Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali)» (art. 2, comma 3).

Ne deriverebbe che la norma censurata, nella parte in cui prevede l’intesa del prefetto in relazione alle decisioni comunali di avvalersi della collaborazione dei volontari, violerebbe la competenza regionale in materia di polizia amministrativa locale.

L’illegittimità costituzionale del comma 40 si riverbererebbe sul comma 41, nella parte in cui prescrive che le associazioni siano iscritte in un elenco tenuto e gestito dalle prefetture. Né il carattere esclusivamente statale di tale gestione verrebbe meno a fronte del richiesto parere del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, di cui all’art. 20 della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), trattandosi di organo anch’esso statale, senza alcuna partecipazione delle Regioni.

Altrettanto dovrebbe dirsi con riguardo al successivo comma 42, che stabilisce criteri di preferenza nella scelta delle associazioni iscritte e vieta l’iscrizione nell’elenco di associazioni che fruiscano di risorse a carico della finanza pubblica: essendosi al cospetto di scelte che, nell’ambito dei servizi di polizia amministrativa locale, spettano al legislatore regionale e non a quello statale.

Da ultimo, il comma 43 – nell’affidare ad un decreto del Ministro dell’interno il completamento della disciplina posta dai commi precedenti (compito concretamente assolto dal d.m. 8 agosto 2009, di cui le ricorrenti deducono di aver deliberato l’impugnazione per conflitto di attribuzioni) – violerebbe, oltre al quarto, anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., prevedendo una competenza regolamentare statale in materia di competenza legislativa regionale.

In via subordinata, ove si ritenesse che le norme censurate siano espressione di una esigenza di disciplina unitaria in un ambito in cui le competenze statali e regionali si intersecano, i commi 40, 41 e 43 dell’art. 3 della legge statale andrebbero ritenuti comunque costituzionalmente illegittimi per la mancata previsione di adeguati meccanismi di coordinamento: più in particolare, per non aver previsto che all’intesa richiesta ai fini dell’utilizzazione delle associazioni partecipi anche la Regione; che questa abbia un ruolo nella procedura di iscrizione e nel monitoraggio delle associazioni stesse; che la disciplina di completamento sia dettata, anziché con atto unilaterale del Ministro dell’interno, dallo stesso Ministro d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o, preferibilmente – stante la presenza di interessi provinciali e comunali – con la Conferenza unificata.

L’esigenza di introdurre meccanismi di coinvolgimento delle Regioni deriverebbe non soltanto dal generale principio di leale collaborazione, ma anche dallo specifico dovere, sancito a carico dello Stato dall’art. 118, terzo comma, Cost., di disciplinare «forme di coordinamento tra Stato e Regioni» nelle materie di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117 Cost.

3. – Si è costituito, in tutti i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto dei ricorsi.

Ad avviso della difesa dello Stato, le norme impugnate si collocherebbero nell’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», quale definita dalla giurisprudenza costituzionale; ciò, anche alla luce del criterio della prevalenza, del quale la Corte ha già fatto specifica applicazione in situazioni di astratto concorso con la competenza in materia di «polizia amministrativa locale» (sentenza n. 222 del 2006): criterio che assicurerebbe «una notevole capacità penetrativa alla potestà legislativa statale, con un raggio d’azione […] trasversale e potenzialmente espansivo su altre materie anche di competenza regionale».

In questa prospettiva, rientrerebbe nella competenza statale anche l’attività degli osservatori volontari, i quali, ai sensi del comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009, segnalano situazioni di pericolo per la sicurezza urbana o di disagio sociale.

Quanto, infatti, al concetto di «sicurezza urbana», la definizione offerta dal d.m. 5 agosto 2008 – specificamente richiamato, nelle premesse, dal d.m. 8 agosto 2009, emanato in attuazione della legge n. 94 del 2009 – ha già superato il vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 196 del 2009). Ma neanche il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» implicherebbe una invasione delle competenze regionali, e in particolare di quella attinente ai «servizi sociali». Tale materia comprende, infatti, «tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi […] o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita» (sentenza n. 50 del 2008). Di contro, gli osservatori volontari previsti dalla legge n. 94 del 2009 si limitano a segnalare situazioni critiche, senza erogare servizi.

Parimenti infondate risulterebbero le censure mosse al comma 41. Acclarato, infatti, che le associazioni di volontari operano solo in ambiti di competenza statale, apparirebbe pienamente giustificata la scelta di affidare al prefetto il controllo sulle associazioni stesse e di prevedere la consultazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica: organo, quest’ultimo, alle cui sedute possono essere chiamati a partecipare i responsabili degli enti locali interessati, attuando, così, il necessario coordinamento con le attività di competenza dei sindaci.

Analogamente, la preferenza accordata dal comma 42 alle associazioni costituite da appartenenti in congedo alle Forze dell’ordine risponderebbe alla ratio di privilegiare l’intervento di persone abituate ad individuare e gestire situazioni di pericolo «per l’incolumità delle persone, la sicurezza dei possessi e il disagio sociale», confermando che il legislatore ha ritenuto l’attività dei volontari finalizzata alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Infondate risulterebbero, infine, le censure relative al comma 43, giacché il riconoscimento della piena competenza dello Stato comporterebbe che il legislatore statale sia anche abilitato ad individuare i meccanismi per la predisposizione degli elenchi delle associazioni e il controllo sugli iscritti.

Né, d’altro canto, si potrebbero invocare forme di coordinamento ulteriori rispetto a quelle già assicurate dal coinvolgimento del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Anche a ritenere, infatti, che le attività svolte dagli osservatori siano «contigue» ad ambiti afferenti alla polizia amministrativa locale, la comune finalità delle disposizioni denunciate, consistente nel miglioramento delle condizioni di sicurezza dei cittadini, varrebbe comunque a ricondurle alla materia «ordine pubblico e sicurezza» sulla base del criterio della prevalenza, senza che sia richiesta l’applicazione del principio di leale collaborazione.

4. – Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la Regione Toscana ha depositato memoria illustrativa, volta a confutare le argomentazioni della difesa dello Stato.

Secondo la ricorrente, non risulterebbe probante, ai fini di inquadrare l’attività delle associazioni di volontari nell’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», il riferimento al d.m. 5 agosto 2008, a propria volta richiamato dal d.m. 8 agosto 2009, attuativo delle norme legislative censurate (decreto, quest’ultimo, che la Regione Toscana deduce di aver anch’essa impugnato con ricorso per conflitto di attribuzioni). In primo luogo, infatti, l’idoneità lesiva delle competenze regionali, insita nella genericità delle espressioni utilizzate dalle disposizioni legislative denunciate, non potrebbe essere eliminata rimettendo l’individuazione del significato di tali espressioni ad un decreto ministeriale, per giunta tramite rinvio operato da un ulteriore decreto. In secondo luogo, e comunque, andrebbe ribadito che il decreto ministeriale in questione ha superato il sindacato della Corte costituzionale s olo perché, a differenza delle norme impugnate, faceva espresso riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.

Né potrebbe trovare applicazione, nella specie, il criterio della prevalenza. La Corte costituzionale ha, infatti, rimarcato come l’interpretazione restrittiva del concetto di «ordine pubblico e sicurezza» si imponga per non privare di significato le attribuzioni regionali in materia di «polizia amministrativa locale»: il che renderebbe illogico ipotizzare l’operatività del criterio della prevalenza, idoneo ad attrarre per altra via le predette competenze nella sfera statale. In ogni caso, non sussisterebbero neppure i requisiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale per l’applicazione del criterio in questione, ossia il perseguimento di una medesima finalità. L’unica possibile finalità comune alle disposizioni censurate sarebbe, infatti, quella di garantire la «buona vivibilità» delle aree urbane: finalità che, per l’ampiezza delle attività e delle funzioni ad essa riconducibili, deca mperebbe dall’alveo delle competenze statali.

In rapporto, poi, all’attività di segnalazione delle situazioni di «disagio sociale» verrebbe in rilievo, non tanto la competenza regionale in materia di «servizi sociali», ma quella più ampia in tema di «politiche sociali»: materia che abbraccia il complesso degli interventi volti non soltanto a rimuovere le situazioni di disagio, ma anche a prevenirle, e dunque anche l’attività preliminare di monitoraggio delle condizioni di vita della comunità. Con la legge regionale 24 febbraio 2005, n. 41 (Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), la Regione Toscana ha già esercitato, peraltro, la propria competenza in materia, prevedendo l’adozione di apposite «politiche per le persone a rischio di esclusione sociale» (art. 58), consistenti «nell’insieme degli interventi e dei servizi volti a prevenire e ridurre tutte le forme di emarginazione, comprese le forme di pove rtà estrema».

Stante l’eterogeneità delle cause delle situazioni di disagio sociale, sarebbe inoltre impossibile ravvisare in dette situazioni elementi di rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza.

Quanto, infine, all’asserita impossibilità di invocare forme di coordinamento ulteriori rispetto al previsto intervento del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, tale affermazione rifletterebbe l’erroneo presupposto che l’attività delle associazioni in questione sia integralmente riconducibile all’ordine pubblico e alla sicurezza: e ciò a prescindere dal rilievo che nel predetto comitato possono essere coinvolti solo i rappresentati degli enti locali, e non anche quelli della Regione interessata.

5. – Anche le Regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno depositato memorie illustrative, di analogo tenore, insistendo per l’accoglimento dei ricorsi.

Le ricorrenti rilevano che – diversamente da quanto sostiene la difesa dello Stato – la giurisprudenza costituzionale non avrebbe mai esteso la competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. ai settori della sicurezza urbana in senso ampio, come definita dal d.m. 5 agosto 2008, e alle situazioni di disagio sociale. Con la sentenza n. 196 del 2009, la Corte ha potuto infatti respingere il ricorso proposto avverso detto decreto ministeriale solo dandone una interpretazione restrittiva e adeguatrice, e cioè stabilendo – sulla base di un insieme di argomenti esegetici – che esso «ha ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati».

Né potrebbe condividersi la tesi secondo la quale il comma 40 dell’art. 3, nonostante il riferimento alle «situazioni di disagio sociale», non intacca le competenze regionali in materia di servizi sociali, in quanto gli osservatori volontari sono chiamati non ad erogare servizi, ma a delle semplici segnalazioni. A prescindere, infatti, dal rilievo che, ragionando in questi termini, si dovrebbe ammettere che anche la Regione sia legittimata a creare proprie «ronde» con il compito di segnalare alla polizia statale fatti che mettono in pericolo l’ordine pubblico, risulterebbe evidente come l’organizzazione di un servizio specifico in un campo rientrante nella competenza delle Regioni leda comunque la competenza stessa. In realtà, dalle norme impugnate emergerebbe chiaramente che l’attività degli osservatori è stata considerata di competenza statale per ragioni di materia, e non già perché si tratta di attivi tà di mera segnalazione, come attesta la circostanza che la segnalazione stessa non venga effettuata alle «istituzioni preposte», ma alla polizia statale e locale, senza alcun coinvolgimento degli organi competenti in materia di servizi sociali.

Quanto, poi, al comma 41, l’intervento del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza non assicurerebbe affatto un adeguato coordinamento tra competenze statali e regionali. Da un lato, infatti, tale intervento risulta limitato alla semplice formulazione di un parere circa il possesso, da parte delle associazioni, dei requisiti necessari ai fini dell’iscrizione nel registro; dall’altro, il coordinamento resterebbe comunque interno alle competenze statali (quelle del prefetto e quelle dei sindaci, quali ufficiali del Governo), senza garantire alcuna tutela alle competenze regionali.

Per quel che attiene, ancora, al comma 42, il riferimento al «disagio sociale» risulterebbe evidentemente «eterogeneo ed artificioso» rispetto alla scelta legislativa di preferire le associazioni costituite tra appartenenti in congedo «alle Forze dell’ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato».

Né, da ultimo, potrebbe farsi appello al criterio della prevalenza, giacché le norme impugnate non sarebbero affatto accomunate dalla finalità di migliorare la sicurezza dei cittadini. Ad escluderlo basterebbe già il suddetto riferimento alle «situazioni di disagio sociale»: ma lo stesso concetto di «sicurezza urbana» si estenderebbe ad interventi estranei all’ambito della materia di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.

Considerato in diritto

1. – La Regione Toscana ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 40, 41, 42 e 43, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).

Ad avviso della ricorrente, il comma 40 del citato art. 3 – nel prevedere che «i sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale» – detterebbe una disposizione esorbitante dall’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza legislativa statale esclusiva ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione: materia da reputare circoscritta, per consolidata giurisprudenza costituzionale, alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico.

Il generico concetto di «sicurezza urbana» si presterebbe, infatti, a ricomprendere interventi – quali quelli volti a migliorare le condizioni di vivibilità dei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale – che esulano dal predetto ambito, per ricadere nel campo della «polizia amministrativa locale», di competenza legislativa esclusiva regionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), e quarto comma, Cost.; mentre la formula «disagio sociale» evocherebbe un’ampia gamma di situazioni di emarginazione, di varia matrice eziologica, che richiedono interventi inquadrabili nella materia delle «politiche sociali», anch’essa di competenza regionale esclusiva ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.

Gli evidenziati profili di incostituzionalità si riverbererebbero sulle disposizioni di cui ai commi successivi dello stesso art. 3: disposizioni che, per un verso, attribuiscono al prefetto il compito di tenere l’elenco in cui le associazioni di volontari debbono essere iscritte, di verificare la sussistenza dei requisiti per l’iscrizione, sentito il parere del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, e di monitorare periodicamente le associazioni stesse (comma 41); e, per altro verso, stabiliscono che i sindaci debbano avvalersi, prioritariamente, delle associazioni costituite tra gli appartenenti, in congedo, «alle Forze dell’ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato», ed escludono che associazioni diverse da queste ultime possano essere iscritte negli elenchi ove destinatarie, a qualunque titolo, «di risorse economiche a carico della finanza pubblica» (comma 42). In materia di polizia amminist rativa locale e di politiche sociali, la fissazione delle regole in questione non potrebbe, infatti, che competere alle Regioni.

Le citate disposizioni di cui ai commi 40, 41 e 42 risulterebbero illegittime anche sotto il profilo della violazione del principio di leale collaborazione, giacché, pur incidendo su ambiti nei quali le competenze statali e regionali si intersecano, non prevedono alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni.

Da ultimo, il comma 43 – demandando ad un decreto del Ministro dell’interno il compito di determinare gli ambiti operativi delle disposizioni di cui ai commi 40 e 41, nonché i requisiti per l’iscrizione nell’elenco e le modalità di tenuta degli elenchi – si porrebbe in contrasto con il sesto comma dell’art. 117 Cost., attribuendo una potestà regolamentare allo Stato in materie di competenza legislativa regionale.

2. – Le disposizioni di cui all’art. 3, commi 40, 41, 42 e 43, della legge n. 94 del 2009 sono impugnate, con ricorsi di analogo tenore, anche dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria.

Ad avviso delle ricorrenti, il comma 40 dell’art. 3 violerebbe il secondo comma, lettera h), e il quarto comma dell’art. 117 Cost., nella parte in cui richiede l’intesa con il prefetto in rapporto alla decisione dei comuni di avvalersi della collaborazione di volontari a fini di tutela della sicurezza urbana e di prevenzione delle situazioni di disagio sociale. L’attività regolata decamperebbe, infatti, dai ristretti confini propri della materia «ordine pubblico e sicurezza», per ricadere nell’ambito della «polizia amministrativa locale», di competenza regionale.

Conseguentemente, risulterebbero inficiati da analogo vizio di costituzionalità anche i commi 41 e 42, che dettano regole in tema di iscrizione delle associazioni di volontari in elenchi tenuti dai prefetti, di scelta fra le associazioni iscritte e di divieto di iscrizione delle associazioni destinatarie di contributi pubblici: trattandosi di determinazioni che, nell’ambito dei servizi di polizia amministrativa locale, spettano al legislatore regionale e non a quello statale.

Da ultimo, il comma 43 – nel rimettere ad un decreto del Ministro dell’interno il completamento della disciplina posta dai commi precedenti – violerebbe, oltre al quarto, anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., prevedendo una competenza regolamentare statale in materia di competenza legislativa regionale.

In via subordinata, e per l’eventualità in cui le norme censurate fossero ritenute espressive di una esigenza di disciplina unitaria in un ambito in cui le competenze statali e regionali si intersecano, le ricorrenti deducono l’incostituzionalità dei commi 40, 41 e 43 per violazione del principio di leale collaborazione e dello specifico dovere, sancito a carico dello Stato dall’art. 118, terzo comma, Cost., di disciplinare «forme di coordinamento tra Stato e Regioni» nelle materie di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117 Cost. Ciò, in conseguenza della mancata previsione di adeguati meccanismi di coinvolgimento delle Regioni nelle attività regolate.

3. – I ricorsi sollevano questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto le medesime norme e basate su censure in larga parte analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

4. – Giova rimarcare preliminarmente come la disciplina dettata nelle norme impugnate formi oggetto di scrutinio, nella presente sede, esclusivamente nella prospettiva della verifica della denunciata invasione delle competenze legislative regionali, avuto riguardo segnatamente alla spettanza del potere di stabilire le condizioni alle quali i Comuni possono avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio. La decisione non investe, dunque, in alcun modo, il diritto di associazione dei cittadini ai fini dello svolgimento dell’attività di segnalazione descritta dalle disposizioni censurate: diritto che, ai sensi dell’art. 18, primo comma, Cost., resta affatto impregiudicato.

5. – Ciò puntualizzato, la questione di costituzionalità relativa al comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 è fondata, nei limiti di seguito specificati.

5.1. – La facoltà di avvalersi di gruppi di osservatori privati volontari (cosiddette «ronde») per il controllo del territorio rappresenta un ulteriore strumento offerto ai sindaci, a fini di salvaguardia della sicurezza urbana, dai tre provvedimenti legislativi statali, recanti misure in materia di sicurezza pubblica, intervenuti, in rapida successione, a cavallo degli anni 2008-2009 (cosiddetti «pacchetti sicurezza»).

Esso si affianca, infatti, al potere dei sindaci di adottare, nella veste di ufficiali del Governo, provvedimenti, «anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano […] la sicurezza urbana»: potere loro conferito dal primo dei predetti provvedimenti legislativi (art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125), tramite novellazione del comma 4 dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).

Nell’occasione, il legislatore – con tecnica poi reiterata in rapporto all’intervento normativo che qui interessa – ha demandato ad un decreto del Ministro dell’interno la determinazione dell’ambito applicativo della ricordata disposizione, con particolare riguardo, tra l’altro, alla definizione del concetto di «sicurezza urbana» (art. 54, comma 4-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000, come modificato). Tale compito è stato assolto dal d.m. 5 agosto 2008: decreto che questa Corte ha avuto modo di scrutinare a seguito di ricorso per conflitto di attribuzione promosso dalla Provincia autonoma di Bolzano, escludendo la denunciata lesione delle competenze provinciali (sentenza n. 196 del 2009).

Lo strumento in esame si aggiunge, per altro verso, alla possibilità, per i comuni, di utilizzare sistemi di videosorveglianza «per la tutela della sicurezza urbana», secondo quanto è stabilito dall’art. 6, comma 7, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38 (costituente il secondo dei provvedimenti legislativi in questione). La facoltà di avvalersi delle associazioni di volontari era, in effetti, originariamente prevista dallo stesso art. 6 del decreto-legge ora citato. Le relative disposizioni furono, tuttavia, soppresse in sede di conversione, per refluire indi nell’art. 3, commi 40, 41, 42 e 43, della legge n. 94 del 2009: norme oggi impugnate.

5.2. – Tanto premesso, il problema nodale posto dalle odierne questioni di costituzionalità attiene alla valenza delle formule «sicurezza urbana» e «situazioni di disagio sociale», che compaiono nel comma 40 dell’art. 3 della legge da ultimo citata a fini di identificazione dell’oggetto delle attività cui le associazioni di volontari sono chiamate («i sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale»). In particolare, si tratta di stabilire se dette formule individuino o meno ambiti d’intervento inquadrabili nella materia «ordine pubblico e sicurezza», demandata alla legislazione esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.: materia che – in contrapposizione alla «poliz ia amministrativa locale», da essa espressamente esclusa – deve essere intesa, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in termini restrittivi, ossia come relativa alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza della comunità nazionale (ex plurimis, sentenze n. 129 del 2009; n. 237 e n. 222 del 2006; n. 383 e n. 95 del 2005; n. 428 del 2004).

L’interrogativo richiede una risposta differenziata in rapporto alle due locuzioni che vengono in rilievo.

5.3. – Quanto, infatti, al concetto di «sicurezza urbana», il dettato della norma impugnata non è in contrasto con la previsione costituzionale.

Come già ricordato, questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi sul d.m. 5 agosto 2008, che ha definito il concetto in questione con riferimento al potere dei sindaci di adottare provvedimenti secondo la previsione dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000. Ai sensi dell’art. 1 del citato decreto ministeriale, la nozione di «sicurezza urbana» identifica «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale».

Nell’occasione, questa Corte ha ritenuto che – nonostante l’apparente ampiezza della definizione ora riprodotta – il decreto ministeriale in questione abbia comunque ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati. In tale direzione, si sono valorizzati sia la titolazione del d.l. n. 92 del 2008 (che si riferisce appunto alla «sicurezza pubblica»); sia il richiamo, contenuto nelle premesse del decreto, come fondamento giuridico dello stesso, all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., oggetto dell’interpretazione restrittiva dianzi ricordata ad opera della giurisprudenza costituzionale; sia, ancora, la circostanza che, sempre nelle premesse, il decreto escluda espressamente dal proprio ambito di riferimento la polizia amministrativa locale. Di qui, dunque, la conclusione che i poteri esercitabili dai sindaci, ai sensi dei commi 1 e 4 dellR 17;art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, non possono che essere quelli finalizzati alla attività di prevenzione e repressione dei reati, e non i poteri concernenti lo svolgimento delle funzioni di polizia amministrativa nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome (sentenza n. 196 del 2009).

Alla stessa conclusione si deve pervenire con riguardo al concetto di «sicurezza urbana» che figura nella norma legislativa statale oggi impugnata, risultando anche più numerosi e stringenti gli argomenti in tale senso.

A fianco della titolazione della legge n. 94 del 2009, che, anche in questo caso, richiama la «sicurezza pubblica», viene in particolare rilievo l’evidenziato collegamento sistematico tra il comma 40 dell’art. 3 di detta legge – che affida al sindaco la decisione di avvalersi della collaborazione delle associazioni di volontari – e il citato art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000: collegamento reso, peraltro, più evidente dalla disposizione del comma 5 di tale articolo, che già prefigurava il coinvolgimento di «soggetti privati» in rapporto ai provvedimenti sindacali a tutela della sicurezza urbana che interessassero più comuni.

Di qui, dunque, la logica conseguenza che il concetto di «sicurezza urbana» debba avere l’identica valenza nei due casi: cioè quella che, in rapporto ai provvedimenti previsti dal testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, la citata sentenza n. 196 del 2009 ha già ritenuto non esorbitante dalla previsione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Quanto precede trova, del resto, conferma nel d.m. 8 agosto 2009, che, in attuazione del comma 43 della legge n. 94 del 2009, individua gli ambiti operativi dell’attività delle associazioni in questione. Tale decreto richiama, infatti, nel preambolo espressamente tanto l’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, quanto il d.m. 5 agosto 2008, e fa ulteriore, specifico rinvio al secondo nell’art. 1, comma 2, proprio al fine di estendere all’attività delle associazioni di volontari la nozione di «sicurezza urbana» da esso offerta.

Sotto diverso profilo, poi, l’intera disciplina dettata dalle norme impugnate si presenta coerente con una lettura del concetto di «sicurezza urbana» evocativa della sola attività di prevenzione e repressione dei reati. Significative, in tale direzione, appaiono segnatamente le circostanze che la decisione del sindaco di avvalersi delle associazioni di volontari richieda una intesa con il prefetto; che le associazioni debbano essere iscritte in un registro tenuto a cura dello stesso prefetto, previo parere, in sede di verifica dei requisiti, del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica; che il sindaco debba preferire le associazioni costituite da personale in congedo delle Forze dell’ordine, delle Forze armate o di altri Corpi dello Stato, ossia da soggetti già impegnati istituzionalmente, o talvolta utilizzati in funzione integrativa nell’esercizio di attività di prevenzione e repressione dei reati; che , infine, le segnalazioni degli osservatori siano indirizzate in via esclusiva alle Forze di polizia, statali o locali.

Né può condividersi, per questo verso, l’obiezione della Regione Toscana, stando alla quale si dovrebbe escludere che il ricorso alle associazioni di volontari, previsto dalle norme impugnate, resti circoscritto nell’ambito della competenza legislativa statale di cui alla lett. h) dell’art. 117, secondo comma, Cost., perché ciò significherebbe affidare a privati cittadini una funzione necessariamente pubblica, quale appunto quella della prevenzione dei reati e del mantenimento dell’ordine pubblico. Tale obiezione non tiene conto, a tacer d’altro, del fatto che le associazioni di volontari svolgono una attività di mera osservazione e segnalazione e che qualsiasi privato cittadino può denunciare i reati, perseguibili di ufficio, di cui venga a conoscenza (art. 333 del codice di procedura penale) e addirittura procedere all’arresto in flagranza nei casi previsti dall’art. 380 cod. proc. pen. , sempre quando si tratti di reati perseguibili d’ufficio (art. 383 cod. proc. pen.); mentre lo stesso art. 24 della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), nel descrivere i compiti istituzionali della Polizia di Stato, prevede che essa eserciti le proprie funzioni al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini, «sollecitandone la collaborazione».

5.4. – La conclusione è diversa per quanto attiene al riferimento alternativo alle «situazioni di disagio sociale»: una espressione in rapporto alla quale non risulta, di contro, praticabile una lettura conforme al dettato costituzionale.

La valenza semantica propria della locuzione «disagio sociale» – già di per sé assai più distante, rispetto a quella di «sicurezza urbana», dall’ambito di materia previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. – si coniuga, difatti, all’impiego della disgiuntiva «ovvero» («eventi che possano recare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale»), che rende palese l’intento del legislatore di evocare situazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle sottese dalla locuzione precedente.

Il rilievo letterale, anche alla luce del generale canone ermeneutico del “legislatore non ridondante”, impedisce di interpretare la formula in questione in senso fortemente limitativo, tale da ridurne l’inquadramento nell’ambito dell’attività di prevenzione dei reati: ossia di ritenerla riferita a quelle sole «situazioni di disagio sociale» che, traducendosi in fattori criminogeni, determinino un concreto pericolo di commissione di fatti penalmente rilevanti. In questa accezione, essa risulterebbe, infatti, già interamente inclusa nel preliminare richiamo agli eventi pericolosi per la sicurezza urbana, come attesta puntualmente il più volte citato d.m. 5 agosto 2008, che – al fine di specificare i poteri sindacali a tutela della sicurezza urbana – richiede ai sindaci di intervenire «per prevenire e contrastare», proprio e anzitutto, «le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono lR 17;insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con l’impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all’abuso di alcool» (art. 2, lettera a).

Nella sua genericità, la formula «disagio sociale» si presta, dunque, ad abbracciare una vasta platea di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell’individuo nel tessuto sociale, derivanti dalle più varie cause (condizioni economiche, di salute, età, rapporti familiari e altre): situazioni, che reclamano interventi ispirati a finalità di politica sociale, riconducibili segnatamente alla materia dei «servizi sociali». Per reiterata affermazione di questa Corte, tale materia – appartenente alla competenza legislativa regionale residuale (tra le ultime, sentenze n. 121 e n. 10 del 2010) – individua, infatti, il complesso delle attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario (ex plurimis, sentenze n. 168 e n. 124 del 2009; n. 50 del 2008; n. 287 del 2004).

Non può, al riguardo, condividersi la tesi della difesa dello Stato, secondo cui le disposizioni impugnate non inciderebbero su tale competenza regionale, in quanto gli osservatori volontari previsti dalla legge n. 94 del 2009 si limitano a segnalare «situazioni critiche», senza erogare servizi. Il monitoraggio delle «situazioni critiche» rappresenta, infatti, la necessaria premessa conoscitiva degli interventi intesi alla rimozione e al superamento del «disagio sociale»: onde la determinazione delle condizioni e delle modalità con le quali i Comuni possono avvalersi, per tale attività di monitoraggio, dell’ausilio di privati volontari rientra anch’essa nelle competenze del legislatore regionale.

Neppure può essere utilmente invocato, al fine di ricondurre l’intera disciplina in esame nell’alveo della competenza statale – come pure sostiene l’Avvocatura dello Stato – il criterio della prevalenza. L’applicazione di questo strumento per comporre le interferenze tra competenze concorrenti implica, infatti, da un lato, una disciplina che, collocandosi alla confluenza di un insieme di materie, sia espressione di un’esigenza di regolamentazione unitaria, e, dall’altro, che una tra le materie interessate possa dirsi dominante, in quanto nel complesso normativo sia rintracciabile un nucleo essenziale appartenente ad un solo ambito materiale, ovvero le diverse disposizioni perseguano una medesima finalità (sentenza n. 222 del 2006).

Nell’ipotesi in esame, per contro, il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» si presenta come un elemento spurio ed eccentrico rispetto alla ratio ispiratrice delle norme impugnate, quale dianzi delineata, finendo per rendere incongrua la stessa disciplina da esse dettata. Gli interventi del prefetto e del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, la preferenza accordata alle associazioni fra appartenenti in congedo alle Forze dell’ordine, la circostanza che le segnalazioni dei volontari siano dirette alle sole Forze di polizia (e non, invece, agli organi preposti ai servizi sociali) – previsioni tutte pienamente coerenti in una prospettiva di tutela della «sicurezza urbana», intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati in ambito cittadino – perdono tale carattere quando venga in rilievo il diverso obiettivo di porre rimedio a condizioni di disagio ed emarginazione sociale.

6. – Il comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 deve essere dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, quarto comma, Cost., limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale».

È da escludere, per contro, che – una volta circoscritta l’attività delle associazioni di volontari alla segnalazione dei soli eventi pericolosi per la sicurezza urbana, intesa nei sensi dianzi indicati – il legislatore statale sia tenuto comunque a prevedere forme di coordinamento di tale attività con la disciplina della polizia amministrativa locale, secondo quanto sostenuto dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria. L’art. 118, terzo comma, Cost. prevede una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117 (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza), ma non implica che qualunque legge dello Stato che contenga disposizioni riferibili a tali materie debba sempre e comunque provvedere in tal senso.

7. – Le restanti questioni, concernenti i commi 41, 42 e 43 della legge n. 94 del 2009, non sono fondate.

La lesione del riparto costituzionale delle competenze deriva, infatti, esclusivamente dalla eccessiva ampiezza della previsione del comma 40. La declaratoria di illegittimità costituzionale parziale di essa, riconducendo l’attività delle associazioni di volontari, di cui il sindaco può avvalersi, nel perimetro della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza esclusiva statale, rende la disciplina complementare recata dai commi successivi non incompatibile con i parametri costituzionali evocati, senza necessità di ulteriori interventi.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 40, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale»;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 41, 42 e 43, della medesima legge 15 luglio 2009, n. 94, promosse dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Umbria, in riferimento agli artt. 117, secondo, quarto e sesto comma, e 118 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 227

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: – Francesco AMIRANTE; Giudici : – Ugo DE SIERVO, – Paolo MADDALENA, – Alfio FINOCCHIARO, – Alfonso QUARANTA, – Franco GALLO, – Luigi MAZZELLA, – Gaetano SILVESTRI, – Sabino CASSESE, – Maria Rita SAULLE, – Giuseppe TESAURO, – Paolo Maria NAPOLITANO, – Giuseppe FRIGO, – Alessandro CRISCUOLO, – Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 18, comma 1, lettera r), e 19, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanze del 27 agosto, del 4 settembre, del 28 ottobre e dell’11 novembre 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 298 e 305 del registro ordinanze 2009 ed ai nn. 10 e 45 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 50 e 52, prima serie speciale, dell’anno 2009 e nn. 5 e 9, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti l’atto di costituzione di M.K.P. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 e nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi l’avvocato Antonio Fiorella per M.K.P. e l’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– La Corte di cassazione, con ordinanza del 27 agosto 2009 (r.o. n. 298 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale», la corte di appello può disporre che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno, soltanto «qualora la persona ricercata sia cittadino italiano».

1.1.– Il giudice a quo espone che il Tribunale circondariale di Rzeszow (Polonia), in data 6 luglio 2006, ha emesso nei confronti del cittadino polacco M.K.P. un mandato di arresto europeo, in esecuzione della sentenza definitiva, del 19 novembre 2003, di condanna alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione, pronunciata dalla Corte distrettuale di Debica (Polonia), per concorso in due rapine, commesse nei giorni 11 gennaio 2003 e 15 gennaio 2003, mediante violenza alle persone, uso di armi da fuoco e di fiamma ossidrica, sottraendo denaro ed altro in due negozi di Debica (Polonia), reati previsti e puniti dagli artt. 280, 157, ed 11 del codice penale polacco.

Il condannato deve ancora espiare la pena di anni 3, mesi 1 e giorni 22 di reclusione e dagli atti acquisiti nel giudizio, secondo l’ordinanza di rimessione, risulta che egli ha effettiva residenza in Italia ed ha qui stabilito la sede principale anche dei suoi interessi affettivi.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 18 giugno 2009, aveva disposto la consegna del predetto alla competente autorità della Polonia, che ne aveva fatto richiesta, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva, affermando che l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005 – stabilendo che, «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale», può essere disposto che queste siano eseguite in Italia, conformemente al diritto interno, soltanto «qualora la persona ricercata sia cittadino italiano» – escluderebbe che tale facoltà possa concernere lo straniero residente in Italia, come ritenuto anche dalla Corte di cassazione.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.K.P., eccependo che erroneamente non sarebbe stato applicato l’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, pur ricorrendone i presupposti, e censurando il difetto di motivazione in ordine all’effettività e continuità della sua residenza in Italia. Il ricorrente ha, inoltre, richiamato le conclusioni rese il 24 marzo 2009 dall’Avvocato generale della Corte di giustizia delle Comunità europee, nella causa C–123/08, promossa dal Rechtbank di Amsterdam, avente ad oggetto l’interpretazione della Decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, n. 2002/584/GAI, «Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri» (in seguito denominata decisione quadro), formulate nel senso che, «in conformità dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro», un cittadino di un altro St ato membro che dimori o risieda nello Stato membro di esecuzione, ai sensi di questa disposizione, è assimilato a un cittadino di tale Stato nel senso che deve poter beneficiare di «una decisione di non esecuzione della consegna e della possibilità di scontare la pena nel detto Stato», ed ha quindi chiesto la sospensione del giudizio sino all’esito della decisione da parte di detta Corte.

1.2.– La Corte di cassazione osserva che il citato art. 18, comma 1, lettera r), nel prevedere che il destinatario del mandato d’arresto possa espiare la pena nel nostro Stato, qualora sia cittadino italiano, riproduce l’art. 4, punto 6, della decisione quadro e richiama una serie di sentenze della stessa Corte, le quali hanno escluso l’applicabilità di tale norma, in via interpretativa, allo straniero residente in Italia, osservando che detta decisione quadro attribuisce agli Stati membri dell’Unione europea la mera facoltà di estendere a quest’ultima una tale previsione, qualora sia stata prevista per i propri cittadini.

Secondo il rimettente, la censura con la quale il ricorrente ha dedotto l’applicabilità nella specie dell’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 è infondata. Tale norma prevede, infatti, che, «se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo ai fini di un’azione penale è cittadino o residente dello Stato italiano, la consegna è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione». Dunque, la disposizione stabilisce, univocamente, che «soltanto “la persona giudicanda” (cittadino o residente dello Stato), e per la quale è appunto in corso l’azione penale», può invocare la «consegna subordinata», con conseguente impossibilità di applicarla, mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata o per analogia, al diverso caso del mandato d’arresto emesso ai fini della esecuzione di una pena detentiva irrogata con sentenza di condanna irrevocabile.

1.3.– Posta questa premessa, il giudice a quo dubita, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., della legittimità costituzionale del citato art. 18, comma 1, lettera r), nella parte in cui non prevede che anche lo straniero residente in Italia possa ivi scontare la pena.

In punto di rilevanza, osserva che il ricorrente, «a quanto risulta, ha fornito la prova necessaria, e nei termini richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte, del suo concreto radicamento sul territorio e della sua abitudine alla dimora» (così, testualmente) in Italia.

A suo avviso, la nozione di «residente» va «determinata in modo che sia funzionale all’assimilazione dello straniero residente al cittadino, operata dall’art. 4, punto 6, della citata decisione–quadro», quindi «assume rilievo l’esistenza, nella specie non contestata, di un “radicamento reale e non estemporaneo” dello straniero in Italia», qualora questi abbia dimostrato che qui ha «istituito, con continuità temporale e sufficiente stabilità territoriale, la sede principale e non occasionale, anche se non esclusiva, dei propri interessi affettivi, professionali od economici», in virtù di una scelta indicativa di una volontà di stabile permanenza nel territorio italiano, per un apprezzabile periodo di tempo. Dunque, il ricorrente «avrebbe titolo a vedere accolta la sua domanda», nel caso in cui la questione sia ritenuta fondata.

1.3.1.– In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente richiama le sentenze della Corte di cassazione, secondo le quali la norma censurata concerne esclusivamente il cittadino italiano, affermando che neppure in via interpretativa essa è applicabile allo straniero che dimori o risieda in Italia. La decisione quadro attribuirebbe, infatti, una mera facoltà agli Stati membri dell’Unione europea di estendere le guarentigie eventualmente riconosciute ai propri cittadini anche agli stranieri residenti sul loro territorio, in virtù di una scelta di politica criminale riservata alla discrezionalità dei legislatori nazionali, neppure censurabile per l’eventuale sua irragionevolezza. Su tale facoltà non avrebbe inciso la sentenza della Corte di giustizia del 17 luglio 2008, n. 66, Kozlowsky, che ha soltanto offerto l’interpretazione della nozione di residenza richiamata nell’art. 4, punto 6, di detta decisione quadro.

La chiara ed univoca lettera del citato art. 18, comma 1, lettera r), e la sua comparazione con l’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 non permetterebbero una interpretazione diversa e meno restrittiva di quella offerta nella sentenza impugnata. Anche la Corte di giustizia ha, infatti, affermato che i giudici nazionali devono interpretare le norme nazionali alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro, entro i limiti consentiti dalla lettera delle medesime (sentenza 16 giugno 2005, n. 105/03, Pupino).

Il rimettente sintetizza, quindi, gli argomenti svolti dall’Avvocato generale presso la Corte di giustizia, per sostenere che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro attribuirebbe al legislatore nazionale la facoltà di prevedere che l’autorità giudiziaria possa rifiutare la consegna per un mandato di arresto europeo, avente ad oggetto l’esecuzione di una pena, emanato in danno di un cittadino di tale Stato, ovvero che vi risieda, ma non consentirebbe di differenziare la situazione del primo rispetto a quella del secondo. La possibilità di prevedere che la pena possa essere espiata nello Stato al quale è richiesta non configurerebbe, infatti, un privilegio per il cittadino del medesimo, la cui estensione al mero residente possa essere meramente eventuale, poiché essa è strumentale allo scopo di garantire la «risocializzazione del condannato», mediante la conservazione dei suoi legami familiari e sociali, così da permetterne un corretto reinserimento al termine dell’esecuzione della pena, in virtù di una funzione che non tollera distinzioni tra cittadino e residente.

Identiche ragioni, a suo avviso, sarebbero alla base dell’art. 5, punto 3, della citata decisione quadro (concernente il mandato d’arresto processuale), il quale, al fine che qui interessa, parifica la posizione del cittadino a quella del residente, escludendo che il legislatore nazionale possa differenziarle. Pertanto, non sarebbe giustificata la disciplina stabilita nella norma censurata, che opera una tale differenza, e ciò anche in quanto l’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, concernente il mandato d’arresto europeo «processuale», parifica invece il secondo al primo.

Il rimettente sostiene che il «principio di individualizzazione del regime di (futura) esecuzione» della pena non tollera una distinzione tra cittadino italiano e straniero residente nel territorio dello Stato, poiché esso è preordinato ad «accrescere le opportunità di inserimento del condannato nel tessuto relazionale, sociale, affettivo, ma anche economico ed abitativo, più funzionale allo sviluppo delle potenzialità socializzanti e rieducative della pena, inflitta (oppure infliggenda) dallo Stato di emissione, ma della cui positiva operatività vengono a trarre diretto ed immediato beneficio sia lo Stato di esecuzione, in quanto Stato della cittadinanza o della residenza del consegnando, sia gli altri Stati dell’Unione europea», come sottolineato dall’Avvocato generale della Corte di giustizia nelle conclusioni sopra richiamate.

Lo scopo degli artt. 4, punto 6, e 5, punto 3, della citata decisione quadro è coerente con il principio della finalità rieducativa della pena, stabilito dall’art. 27, terzo comma, Cost., con la conseguenza che la disciplina stabilita dalla norma censurata violerebbe anche detto parametro.

Sotto un ulteriore profilo, poiché nel caso in esame si tratta di un cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea, l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005 si porrebbe in contrasto con il principio di non discriminazione stabilito dall’art. 12 del Trattato del 15 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in vigore dal 1° febbraio 2003 al 30 novembre 2009, in virtù del quale chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro è cittadino dell’Unione (art. 17, n. 1) ed ha diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal Trattato CE e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso (art. 18, n. 1).

Pertanto, la norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., poiché non risulterebbero osservati i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» e l’art. 27, terzo comma, Cost.

1.3.2.– In linea subordinata, e per il caso in cui le censure riferite ai suindicati parametri costituzionali siano giudicate infondate, il giudice a quo prospetta che l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005, violerebbe l’art. 3 Cost.

A suo avviso la diversità della disciplina rispettivamente stabilita da detta norma e dall’art. 19, comma 1, lettera c), della stessa legge sarebbe, infatti, priva di ragionevole giustificazione; anzi, nel caso disciplinato dalla prima disposizione l’esecuzione della pena in Italia consente al condannato il mantenimento, per quanto possibile, delle sue relazioni familiari e sociali, mentre in quello oggetto della seconda il destinatario del mandato d’arresto deve essere consegnato allo Stato a cui appartiene l’autorità che lo ha emesso e la restituzione all’Italia, per scontare la pena, è destinata ad avvenire quando tali rapporti hanno subito un affievolimento. Dunque, nella fattispecie disciplinata dal citato art. 19, comma 1, lettera c), l’esecuzione della condanna nello Stato di emissione sarebbe meno dannosa che nel caso oggetto della norma censurata.

2.– Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituito M. K. P., ricorrente nel processo principale, chiedendo che la questione sia accolta.

A conforto della rilevanza, la parte deduce che nel giudizio a quo è stato accertato che egli risiede «effettivamente e stabilmente in Italia con il proprio nucleo familiare», quindi la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata gli permetterebbe di espiare la pena in Italia, con conseguente rilevanza delle censure.

M.K.P. fa, quindi, proprie le argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione che, sostanzialmente, riproduce per sostenere che l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005 violerebbe l’art. 27, terzo comma, Cost., il quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che richiama, vieterebbe che siano previste modalità di esecuzione della pena le quali «azzerino sostanzialmente i rapporti, le situazioni e i contesti personali e che comunque ne ostacolino irragionevolmente la prosecuzione, compatibilmente con l’esecuzione della pena e nel costante rispetto del principio di proporzione». Questo risultato sarebbe, invece, realizzato dalla norma censurata che comporterebbe anche l’impossibilità per lo straniero, pur residente in Italia, una volta consegnato all’autorità dello Stato di emissione del mandato di arresto, di «accedere alle misure alternative previste dalla legge penitenziaria dello S tato italiano», alle quali «il legislatore collega effetti sospensivi ed estintivi della pena» e «che potrebbero consentirgli di conservare – sempre nel limite di compatibilità con i fini della pena – i legami che lo avvincono al territorio ove stabilmente risiede».

Il citato art. 18, comma 1, lettera r), non ragionevolmente impedirebbe allo straniero un «effettivo recupero», reso possibile anche dalla «vicinanza del condannato al suo tessuto esistenziale», «criterio espressamente menzionato dall’ordinamento penitenziario nella disciplina delle assegnazione e dei trasferimenti ai diversi istituti di pena» (artt. 12 e 42 della legge 26 luglio 1975, n. 354), impedendogli di fruire dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario italiano, che gli permetterebbero di avere rapporti di lavoro utili al sostentamento della propria famiglia, evitando che la pena, in violazione del principio di proporzione, abbia un contenuto afflittivo eccedente quello strettamente necessario.

Secondo la parte, «l’effetto di sradicamento» prodotto da detta norma recherebbe vulnus anche al diritto inviolabile all’unità della famiglia stabilito dagli artt. 2, 29 e 30 Cost., ed al diritto al rispetto dell’unità familiare sancito dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848.

A suo avviso la norma censurata, in violazione dell’art. 3 Cost., non ragionevolmente prevedrebbe una diversità di disciplina tra il mandato di arresto avente ad oggetto una pena e quello cosiddetto processuale, potendo anzi ritenersi giustificato, contrariamente a quanto stabilito, che in relazione al secondo lo straniero non possa espiare la pena in Italia.

Il citato art. 18, comma 1, lettera r), sarebbe, inoltre, in contrasto con la garanzia della libertà di circolazione e di soggiorno spettante ai cittadini dei Paesi dell’Unione europea, in violazione degli artt. 12, 18 e 49 del Trattato CE, disposizioni che «si collocano propriamente nell’istituto della cittadinanza dell’Unione», che ha assunto maggiore rilevanza con il Trattato di Lisbona, data la sua collocazione nell’art. 9, in apertura del Titolo II, recante «Disposizioni relative ai diritti democratici», risultando ora il diritto alla libera circolazione solennemente richiamato nel preambolo del Trattato sull’Unione europea ed esplicitato nell’art. 3, comma 2, e dettagliatamente regolato dagli artt. 26, comma 2, e 45 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Il ricorrente, a conforto della denunciata violazione delle norme comunitarie, richiama quindi la sentenza della Corte di giustizia del 6 ottobre 2009, n. 123, secondo la quale «gli Stati membri non possono, nell’ambito dell’attuazione di una decisione quadro, recare pregiudizio al diritto comunitario, in particolare alle disposizioni del Trattato CE relative alla libertà riconosciuta a qualsiasi cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri» e la discrezionalità attribuita agli Stati membri nel disciplinare i limiti della consegna del destinatario del mandato di arresto non può essere esercitata in modo irragionevole e discriminatorio e deve essere ispirata alla finalità di «aumentare le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata alla scadenza della pena cui quest’ultima è stata condannata».

La norma censurata violerebbe la libertà di circolazione e soggiorno stabilita dalle norme comunitarie ed il divieto di discriminazioni fondato sulla nazionalità. La violazione del diritto di soggiornare nel territorio dello Stato appare ancora più chiara, qualora lo straniero risieda da lungo tempo in Italia, tenuto conto del disposto dell’art. 9, comma 1, lettera d), della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), il quale prevede che può essere concessa la cittadinanza italiana «al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica».

Il diritto del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea di stabilirsi in altro Stato membro della medesima e di soggiornarvi senza limite di tempo è disciplinato anche dalla direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE), la quale stabilisce che «la cittadinanza dell’Unione conferisce a ciascun cittadino dell’Unione il diritto primario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri» e che «la cittadinanza dell’Unione dovrebbe costituire lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri quando essi esercitano il lo ro diritto di libera circolazione e di soggiorno» (secondo e terzo “considerando”). Il ventesimo “considerando” dispone, quindi, che «ogni cittadino dell’Unione e i suoi familiari il cui soggiorno in uno Stato membro è conforme alla presente direttiva dovrebbero godere in tale Stato membro della parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali nel campo d’applicazione del trattato, fatte salve le specifiche disposizioni previste espressamente dal trattato e dal diritto derivato», principio al quale si conformano gli artt. 24 e 27 della direttiva, i quali, rispettivamente, stabiliscono il principio della parità di trattamento e prevedono che il diritto di circolazione può subire limitazioni soltanto per ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità, che sono espressamente identificate.

Siffatta direttiva è stata attuata dal decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), che ha disciplinato le limitazioni al diritto di ingresso e soggiorno nell’art. 20, stabilendo una disciplina che conferma il principio in virtù del quale l’esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione di un provvedimento, come invece prevedrebbe la norma censurata.

Infine, secondo la parte, neppure può ritenersi che il citato art. 18, comma 1, lettera r), abbia la finalità di dare piena attuazione alla collaborazione tra gli Stati membri, realizzata anche mediante il riconoscimento delle sentenze emesse in ciascuno di essi, dato che questo, nell’attuale stato della legislazione, trova un limite nel caso in cui la pronuncia concerna un cittadino italiano, mentre la norma censurata escluderebbe che tale limite venga in rilievo in riferimento allo straniero residente in Italia.

3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

A suo avviso, il rimettente non avrebbe esplicitato le ragioni che possano far ritenere omologhe, al fine che qui interessa, la situazione del cittadino italiano e dello straniero che risiede in Italia e la questione sollevata «poggia contraddittoriamente sulla negazione del potere discrezionale» del legislatore nazionale di differenziare dette situazioni.

La difesa dello Stato riproduce il quinto, il settimo e l’ottavo “considerando” della decisione quadro n. 2002/584/GAI, sostenendo che obiettivo di tale atto è di abolire, tra gli Stati membri, la procedura di estradizione, sostituendola con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie, che appare quindi, fondato sul principio del reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale, che è alla base della cooperazione giudiziaria tra detti Stati.

L’interveniente trascrive l’art. 1 della citata decisione quadro, nonché gli artt. 2 e 3, concernenti le condizioni che rendono ammissibile l’esecuzione del mandato d’arresto europeo; osserva che l’art. 4, punto 6, dispone che, «se il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno», mentre l’art. 5, punto 3, prevede che, «se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo ai fini di un’azione penale è cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione, la consegna può essere subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro emittente»; sintetizza la disciplina stabilita dagli artt. 11, 15 e 17 in tema di diritti della persona destinataria del mandato d’arresto europeo e di modalità della consegna e della esecuzione.

Posta questa premessa, la difesa erariale deduce che la sentenza della Corte di giustizia del 17 luglio 2008, causa C–66/08, Kozlowski, ha affermato che l’art. 4, punto 6, della citata decisione quadro va interpretato nel senso che una persona ricercata abbia fissato la residenza effettiva nello Stato membro dove deve essere eseguito il mandato d’arresto, ovvero abbia nello stesso la propria dimora, allorchè ci si trovi in presenza di un soggiorno stabile di una certa durata, che permetta di acquisire con tale Stato quei legami di particolare intensità che si instaurano in caso di residenza, dovendo le nozioni di «residenza» e «dimora» essere identiche per tutti gli Stati dell’Unione europea.

La sentenza confermerebbe che la decisione quadro non equipara il cittadino al dimorante e al residente e che il parametro di riferimento per non dare corso al mandato di arresto sarebbe costituito dal livello di integrazione del destinatario del mandato di arresto con lo Stato dove esso deve essere eseguito.

L’interveniente riproduce, quindi, ampi brani della sentenza della Corte di giustizia del 6 ottobre 2009, C–123/08, Wolzenburg, secondo la quale l’art. 4, punto 6, della citata decisione quadro attribuirebbe al legislatore nazionale la facoltà di disciplinare diversamente la situazione del cittadino e quella dello straniero residente nel territorio dello Stato. Siffatta facoltà ha costituito oggetto degli artt. 18 e 19 della legge n. 69 del 2005, che la difesa erariale si limita a trascrivere, affermando che tali disposizioni «costituiscono presupposto per la valutazione delle scelte operate in merito alla consegna del destinatario di un mandato d’arresto europeo», senza svolgere ulteriori considerazioni.

Relativamente alle censure riferite agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’interveniente osserva che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro disciplina il caso in cui può essere rifiutata la consegna del destinatario del mandato d’arresto, stabilendo una disciplina ispirata alla finalità di favorire il reinserimento sociale del condannato, tenendo conto dei legami che egli ha in un determinato Stato. Tuttavia, a suo avviso, questa finalità, secondo la Corte di giustizia, non esclude che il legislatore nazionale possa limitare le situazioni riconducibili al citato art. 4, punto 6, sicché i vizi denunciati dalla Corte di cassazione consisterebbero in «una censura all’esercizio del potere di recepimento». Le situazioni del cittadino e dello straniero residente nello Stato sarebbero diverse e la circostanza che il condannato si è allontanato dallo Stato di cui è cittadino ed in cui dovrebbe scontare la pen a sarebbe «significativa della sua personalità sociale»; la sua consegna «al giudice naturale» consentirebbe a questi di «valutare la condotta del reo e di comminargli la pena che, in base all’ordinamento penale naturale, ne consenta il recupero sociale attraverso la presa di coscienza dei valori violati». La decisione di consegnare il destinatario del mandato d’arresto sarebbe «conseguenza di una valutazione complessiva, operata in base a canoni prestabiliti, del “fatto reato” e della sua “valutazione” da parte dell’ordinamento richiedente». Inoltre, il ravvedimento del condannato dovrebbe essere «rapportato non ad una società astratta, ma alla società di appartenenza», che è appunto quella nazionale.

La “cittadinanza”, la “residenza” e la “dimora” identificherebbero l’ambito della discrezionalità riservata agli Stati membri che, in base ad esse, possono apprezzare se la condanna comprometta la politica criminale scelta; la ragione della mancata consegna «sta all’evidenza nell’interesse dell’Italia a che la rieducazione del condannato avvenga con riferimento alla società italiana anche se il valore sociale vulnerato non è condiviso dalla società italiana».

In definitiva, conclude l’Avvocatura, «la ragione per la quale non è concessa la consegna del cittadino italiano per espiare una condanna inflitta dal giudice naturale del “fatto reato” è chiaramente quella del disvalore sociale della condotta di un cittadino che si sottrae alla responsabilità contratta con la commissione di un reato nello Stato richiedente; mentre per il caso del “residente” il disvalore per la sua condotta nulla ha a che fare con la sua personalità e con le ragioni che lo hanno condotto ad esercitare il diritto di stabilimento in via strumentale», con conseguente infondatezza della questione.

4.– La Corte di cassazione, con tre ordinanze, del 4 settembre 2009 (r.o. n. 305 del 2009), del 28 ottobre 2009 (r.o. n. 10 del 2010) e dell’11 novembre 2009 (r.o. n. 45 del 2010), pronunciate in altrettanti giudizi, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale», la corte di appello può disporre che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno, «qualora la persona ricercata sia cittadino italiano».

4.1.– La prima ordinanza (r.o. n. 305 del 2009) espone che M.C.N., cittadino rumeno, è stato arrestato in Italia l’11 giugno 2009, in quanto destinatario di un mandato arresto europeo emesso dal Tribunale di Strehaia (Romania) in data 12 marzo 2009, in esecuzione della sentenza pronunciata dal medesimo Tribunale in data 1° marzo 2005, divenuta irrevocabile il 6 ottobre, di condanna alla pena di anni tre di reclusione, per il reato di omicidio colposo previsto e punito dall’art. 178 del codice penale della Romania, commesso nel maggio 2004. Detta pronuncia ha anche disposto la revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena concesso dal Tribunale di Drobetsa Turno, con sentenza del 14 ottobre 2002, di condanna per il reato di furto, previsto e punito dagli artt. 208 e 209 del codice penale di tale Stato.

La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza del 7 agosto 2009, aveva disposto la consegna di M.C.N. al Tribunale di Strehaia, ai sensi della legge n. 69 del 2005, ritenendo inapplicabile l’art. 18, comma 1, lettera r), di tale legge.

Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione M.C.N., deducendone l’erroneità, in quanto non ha ritenuto applicabile quest’ultima norma, ed eccependo la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione e la violazione di legge, nella parte in cui ha escluso l’applicabilità dell’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005.

4.2.– La seconda ordinanza (r.o. n. 10 del 2010) osserva che P.S., cittadino polacco residente in Italia, è destinatario di un mandato d’arresto europeo emesso dal Tribunale di Katowice il 4 novembre 2008, in esecuzione della sentenza definitiva, pronunciata dallo stesso Tribunale il 18 dicembre 2003, di condanna alla pena di anni tre di reclusione, per il reato di rapina aggravata in danno di un minore, commesso il 2 gennaio 2003 in Jaworzno (Polonia).

La Corte d’appello di Ancona, con sentenza del 12 agosto 2009, aveva disposto la consegna di P.S. all’autorità richiedente, ai sensi della legge n. 69 del 2005, ritenendo inapplicabile l’art. 18, comma 1, lettera r), di tale legge.

P.S. ha proposto ricorso per cassazione avverso detta sentenza deducendo l’erronea applicazione delle norme sul mandato di arresto europeo e la violazione dell’art. 5 della decisione quadro n. 2002/584/GAI, in considerazione della disparità di trattamento realizzata tra cittadini dell’Unione e della sostanziale violazione del diritto dello straniero di scontare la pena definitiva nello Stato nel quale, per libera scelta ed in attuazione del principio di libera circolazione, ha stabilito il centro dei propri interessi.

4.3.– La terza ordinanza (r.o. n. 45 del 2010) deduce che A.S., cittadino romeno, è stato attinto da un mandato di arresto europeo del 27 marzo 2007, emesso in esecuzione della sentenza irrevocabile, pronunciata dal Tribunale di Husi il 24 giugno 2004, per il reato di guida in stato di ebbrezza, commesso in detta città il 6 agosto 2003; la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 14 settembre 2009, ne aveva disposto la consegna all’autorità richiedente.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione P.S., deducendo la violazione dell’art. 7 della legge n. 69 del 2005, in quanto, alla data del reato, la condotta ascrittagli era punita in Italia a titolo di contravvenzione, con pena più mite di quella inflitta dal tribunale romeno, eccependo che, comunque, «lo stesso fatto di reato oggi in Italia sarebbe “già ricaduto nell’indulto”»; in ogni caso la pena, se inflitta da un Tribunale italiano, sarebbe estinta per prescrizione e, comunque, la Corte d’appello avrebbe dovuto verificare se in Romania fosse intervenuta la prescrizione.

Il ricorrente, all’udienza camerale, ha chiesto di potere scontare la pena in Italia.

4.4.– Le ordinanze di rimessione, poste tali premesse, dubitano, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., della legittimità costituzionale del citato art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005, nella parte in cui prevede che il destinatario del mandato d’arresto europeo «emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale» possa scontare la pena in Italia, esclusivamente qualora «sia cittadino italiano».

Secondo i giudici a quibus, la questione sarebbe rilevante, poiché i ricorrenti hanno fornito la prova necessaria del loro «concreto radicamento sul territorio» e della loro stabile ed abituale dimora in Italia, sicché avrebbero titolo a vedere accolta la domanda, qualora la norma censurata sia dichiarata costituzionalmente illegittima.

I rimettenti motivano, quindi, la non manifesta infondatezza in relazione ai parametri evocati riproducendo, quasi testualmente, le argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione del 27 agosto 2009, sopra sintetizzata, anche in ordine all’impossibilità di superare il dubbio di illegittimità mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata.

5.– Nel giudizio introdotto dall’ordinanza r.o. n. 10 del 2010, la Corte di cassazione, con nota ricevuta da questa Corte il 28 dicembre 2009, ha trasmesso l’istanza del 15 dicembre 2009 inoltrata da P.S. alla Corte d’appello di Ancona, con la quale egli dichiara di non opporsi alla consegna all’autorità giudiziaria della Polonia, poiché in tale Stato vivono la figlia di 16 mesi, la convivente e tutta la sua famiglia e «dichiara di voler rinunciare da subito alla eventuale udienza dinanzi alla Corte costituzionale», avente ad oggetto la questione di legittimità sopra indicata.

La Corte di cassazione, con nota del 17 febbraio 2010, ha trasmesso dichiarazione di rinuncia all’impugnazione proposta da P.S. in data 28 gennaio 2010 e con la quale egli insiste, affinché sia autorizzata la sua consegna all’autorità giudiziaria della Polonia.

6.– In tutti i giudizi dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, nei distinti atti, di contenuto sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata, riproducendo a conforto gli argomenti svolti nell’atto di intervento relativo al giudizio introdotto dall’ordinanza n. 298 del 2009, sopra sintetizzato.

Considerato in diritto

1.– Vengono all’esame della Corte quattro ordinanze di rimessione (r.o. n. 298 e 305 del 2009 e r.o. n. 10 e 45 del 2010) – la prima trattata all’udienza pubblica dell’ 11 maggio 2010 e le altre nella camera di consiglio del successivo 12 maggio – con le quali la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale», la corte di appello può rifiutare l’esecuzione del mandato d’arresto e disporre che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno, soltanto «qualora la persona ricercata sia cittadino italiano».

1.1.– In virtù dell’identità delle questioni sollevate e degli argomenti utilizzati va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.

2.– I rimettenti deducono, in primo luogo, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto la norma dell’Unione europea che integra il parametro costituzionale, l’art. 4, punto 6, della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, n. 2002/584/GAI, «Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri» (in seguito denominata decisione quadro), attribuisce al legislatore nazionale la facoltà di prevedere che l’autorità giudiziaria rifiuti la consegna del condannato ai fini dell’esecuzione della pena detentiva nello Stato emittente quando si tratti di un cittadino dello Stato dell’esecuzione, ovvero ivi risieda o vi abbia dimora, ma non consentirebbe di limitare il rifiuto al solo cittadino, come viceversa ha disposto la norma censurata della legge italiana di attuazione della decisione quadro.

2.1.– Inoltre, e di conseguenza, la disposizione in esame, nel dare attuazione in modo non corretto alla disposizione corrispondente della decisione quadro, avrebbe violato anche il principio di non discriminazione in base alla nazionalità (art. 12 del Trattato CE, nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, poi art. 18 TFUE, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), in quanto ha negato in modo assoluto al cittadino di altro Stato membro dell’Unione la possibilità della detenzione in Italia, che ha invece consentito al cittadino italiano.

2.2.– In linea subordinata, i rimettenti ritengono che la possibilità di espiare la pena nello Stato del quale il destinatario del mandato di arresto europeo (in seguito, MAE) è cittadino o nel quale risiede o dimora è diretta a garantire la «risocializzazione del condannato», mediante la conservazione dei suoi legami familiari e sociali, allo scopo di facilitarne il corretto reinserimento al termine dell’esecuzione della pena, funzione, questa, che costituisce attuazione della finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost. Ne conseguirebbe la violazione anche di questo parametro costituzionale, che al riguardo non consentirebbe una discriminazione tra cittadino italiano e cittadino di altro Stato membro dell’Unione.

2.3.– In linea subordinata, e per il caso che le censure riferite ai suindicati parametri costituzionali non fossero giudicate fondate, i rimettenti deducono che la citata disposizione contrasterebbe altresì con l’art. 3 Cost., poiché sarebbe priva di ragionevole giustificazione la diversità di disciplina stabilita dalla medesima rispetto all’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005. Quest’ultima norma riguarda l’ipotesi di MAE finalizzato allo svolgimento del processo penale e pone sullo stesso piano il cittadino e il residente nel subordinare la consegna a determinate condizioni.

2.4.– In punto di rilevanza, i giudici a quibus precisano che le persone per le quali sono stati emessi i MAE ai fini dell’esecuzione della pena risiedono legittimamente in Italia, in quanto hanno fornito la prova di un “concreto radicamento sul territorio” e di “abitudine alla dimora”; in breve, di un “radicamento reale e non estemporaneo” in Italia, avendo qui individuato la sede principale dei loro interessi. I rimettenti deducono, pertanto, che tali soggetti hanno titolo a che, se la sospetta incostituzionalità della norma impugnata venisse accertata, la consegna sia rifiutata e la pena detentiva espiata in Italia.

3.– Preliminarmente, in relazione al giudizio relativo all’ordinanza iscritta al r.o. n. 10 del 2010, va rilevato che la rinuncia al ricorso, trasmessa dalla Corte di cassazione, con nota del 17 febbraio 2010, non può esplicare effetti sul giudizio di legittimità costituzionale, in quanto questo, «una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente non è suscettibile di essere influenzato da successive vicende di fatto concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato», come previsto dall’art. 18 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel testo approvato il 7 ottobre 2008 (in riferimento all’identica norma contenuta in precedenza nell’art. 22: sentenza n. 244 del 2005; ordinanze n. 270 del 2003 e n. 383 del 2002).

3.1.– Ancora in limine, deve rilevarsi che i parametri ed i profili di costituzionalità, evocati dalla parte privata costituita nel giudizio innanzi a questa Corte, introdotto dall’ordinanza r.o. n. 298 del 2009, e diversi da quelli evocati dal giudice rimettente, non possono formare oggetto della decisione. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è, infatti, limitato alle norme ed ai parametri indicati, pur se implicitamente, nelle ordinanze di rimessione, non potendo essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (sentenze n. 50 del 2010; n. 236 e n. 56 del 2009; n. 130 del 2008).

4. – Nel merito la questione relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., è fondata.

5.– La censura principale svolta nelle quattro ordinanze denuncia un contrasto, insanabile in via interpretativa, tra una norma interna e la disposizione di un atto dell’Unione europea alla quale la prima ha dato attuazione.

L’atto dell’Unione che viene in rilievo è la decisione quadro n. 584 del 2002, relativa al MAE. Con tale atto gli Stati membri hanno sostituito, nei loro rapporti reciproci, la procedura di estradizione prevista da più convenzioni internazionali con un sistema semplificato, diretto, per quanto qui interessa, alla consegna da uno Stato membro (di esecuzione) ad un altro (di emissione) di soggetti da sottoporre a giudizio penale ovvero già condannati e che devono espiare una pena detentiva: la seconda ipotesi è quella di specie. Il quinto “considerando” della decisione quadro spiega che la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia impone la soppressione dell’estradizione tra Stati membri e la sua sostituzione con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie. Il decimo “considerando” indica che la decisione quadro si fonda su un «elevato grado di fiducia tra gli Stati memb ri», sul presupposto della omogeneità di sistemi giuridici e sulla garanzia equivalente dei diritti fondamentali.

L’introduzione del nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o imputate consente, in breve, di eliminare la complessità e i potenziali ritardi inerenti alla disciplina dell’estradizione. Questa Corte ha in proposito rilevato che «Il mandato d’arresto europeo poggia sul principio dell’immediato e reciproco riconoscimento del provvedimento giurisdizionale. Tale istituto, infatti, a differenza dell’estradizione non postula alcun rapporto intergovernativo, ma si fonda sui rapporti diretti tra le varie autorità giurisdizionali dei Paesi membri, con l’introduzione di un nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate» (sentenza n. 143 del 2008).

Il sistema del MAE, in definitiva, dà luogo ad un rapporto semplificato e diretto fra autorità giudiziarie, volto a consentire la circolazione delle decisioni giudiziarie aventi ad oggetto un mandato, in funzione di un processo penale ovvero dell’esecuzione di una pena detentiva. L’obiettivo è stato poi sancito anche nella successiva decisione quadro del Consiglio, 27 novembre 2008, n. 2008/909/GAI «relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea». Tale decisione è entrata in vigore il 5 dicembre 2008, mentre il termine di trasposizione per gli Stati membri è il 5 dicembre 2011 (art. 29, par. 1).

La decisione quadro n. 584 del 2002 relativa al MAE è un atto posto in essere nel periodo nel quale, in forza dei Trattati di Maastricht e poi di Amsterdam, fu introdotto un ambito di competenze dell’Unione europea relative alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (c.d. terzo pilastro), esercitate con modalità (metodo intergovernativo) e strumenti normativi almeno formalmente diversi da quelli comunitari. In particolare, per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in questa materia, il Consiglio adottava, su iniziativa di uno o più Stati membri o della Commissione, una decisione quadro. L’atto vincolava gli Stati membri «quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali quanto alla forma e ai mezzi» (art. 34 TUE), con una formula che ripeteva quella da sempre utilizzata per le direttive. Sul versante dell’Unione, la decisi one quadro richiedeva l’unanimità del Consiglio, quindi degli Stati membri; sul versante interno, richiedeva, in quanto espressamente sprovvista della diretta applicabilità ed efficacia, gli adempimenti dovuti per la sua puntuale attuazione.

La Corte di giustizia delle Comunità europee (ora Corte di giustizia dell’Unione europea) ha chiarito gli effetti della decisione quadro. In particolare, il giudice del Lussemburgo ha affermato, in primo luogo, l’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno alla lettera ed allo scopo della decisione quadro, muovendo dal riconoscimento del carattere vincolante dell’atto quanto al risultato, analogo a quello della direttiva, così realizzandone una parziale parificazione (sentenza 16 giugno 2005, C–105/03, Pupino). In successive occasioni, lo stesso giudice, ha confermato la validità della decisione quadro sul MAE (sentenza 3 maggio 2007, C–303/05, Advocaten voor de Wereld), ed ha fornito, su rinvio pregiudiziale di giudici nazionali, la sua interpretazione della norma sul rifiuto di consegna e sulle nozioni di residenza e dimora, affermando che i soggetti esclusi dal beneficio del rifiuto della consegna ai fini dell’esecuzione della pena sono legittimati a far valere la lesione derivante dal contrasto di norme nazionali con le norme della decisione quadro (sentenze 6 ottobre 2009, C–123/08, Wolzenburg; 17 luglio 2008, C–66/08, Kozlowsky).

Con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre del 2009 e precedentemente oggetto della legge italiana di adattamento 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007), la cooperazione giudiziaria in materia penale non è più oggetto di un ambito di competenze esercitate con metodo intergovernativo, ma è disciplinata dal capo 4, titolo V, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 82 e seguenti), quindi oggetto di competenze esercitate con l’ordinario e diverso metodo comunitario; l’atto con il quale si interviene sulla disciplina della materia è la direttiva, adottata secondo la procedura legislativa ordinaria (art. 82 TFUE).

6.– Alla decisione quadro sul MAE è stata data attuazione nel nostro ordinamento con la legge 22 aprile 2005, n. 69.

L’articolo 18 prevede una serie di motivi che rendono obbligatorio il rifiuto della consegna; il comma 1, lettera r), è la disposizione che ha inteso dare specifica attuazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro. Oggetto della presente questione di legittimità costituzionale è la limitazione del rifiuto al solo cittadino italiano.

7.– I giudici rimettenti hanno evocato il parametro dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, facendo applicazione, peraltro, dei principi della giurisprudenza costituzionale in ordine al complessivo rapporto tra l’ordinamento giuridico italiano e il diritto dell’Unione europea affermati e ribaditi in forza dell’art. 11 Cost. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la questione di legittimità costituzionale va «scrutinata avendo riguardo anche ai parametri costituzionali non formalmente evocati […], qualora tale atto faccia ad essi chiaro riferimento, sia pure implicito […], mediante il richiamo dei principi da questi enunciati» (ex multis sentenze n. 170 del 2008, n. 26 del 2003, n. 69 del 1999, n. 99 del 1997).

Questa Corte, fin dalle prime occasioni nelle quali è stata chiamata a definire il rapporto tra ordinamento nazionale e diritto comunitario, ne ha individuato il “sicuro fondamento” nell’art. 11 Cost. (in particolare, sentenze n. 232 del 1975 e n. 183 del 1973; ma già in precedenza, le sentenze n. 98 del 1965 e n. 14 del 1964). È in forza di tale parametro, collocato non senza significato e conseguenze tra i principi fondamentali della Carta, che si è demandato alle Comunità europee, oggi Unione europea, di esercitare in luogo degli Stati membri competenze normative in determinate materie, nei limiti del principio di attribuzione. È sempre in forza dell’art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto il potere-dovere del giudice comune, e prima ancora dell’amministrazione, di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto (sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984). È, infine, in forza delle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto la portata e le diverse implicazioni della prevalenza del diritto comunitario anche rispetto a norme costituzionali (sentenza n. 126 del 1996), individuandone il solo limite nel contrasto con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona (sentenza n. 170 del 1984).

Quanto all’art. 117, primo comma, Cost., nella formulazione novellata dalla riforma del titolo quinto, seconda parte della Costituzione, questa Corte ne ha precisato la portata, affermando che tale disposizione ha colmato la lacuna della mancata copertura costituzionale per le norme internazionali convenzionali, ivi compresa la Convenzione di Roma dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), escluse dalla previsione dell’art. 10, primo comma, Cost. (sentenze n. 348 e 349 del 2007). L’art. 117, primo comma, Cost. ha dunque confermato espressamente, in parte, ciò che era stato già collegato all’art. 11 Cost., e cioè l’obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Il limite all’esercizio della funzione legislativa imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., è tuttavia solo uno degli elementi rilevanti del rap porto tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, rapporto che, complessivamente considerato e come disegnato da questa Corte nel corso degli ultimi decenni, trova ancora “sicuro fondamento” nell’art. 11 Cost. Restano, infatti, ben fermi, anche successivamente alla riforma, oltre al vincolo in capo al legislatore e alla relativa responsabilità internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che derivano dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul piano sostanziale e sul piano processuale, per l’amministrazione e i giudici. In particolare, quanto ad eventuali contrasti con la Costituzione, resta ferma la garanzia che, diversamente dalle norme internazionali convenzionali (compresa la CEDU: sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), l’esercizio dei poteri normativi delegati all’Unione europea trova un limite esclusivamente nei principi fondamentali dell’assetto costituzionale e nella ma ggior tutela dei diritti inalienabili della persona (sentenze n. 102 d el 2008, n. 284 del 2007, n.169 del 2006).

7.1.– Nel caso in esame, i rimettenti hanno correttamente valutato, in primo luogo, l’esistenza del contrasto tra la norma impugnata e la decisione quadro, esplicitando le ragioni che precludono l’interpretazione conforme. La motivazione sul punto è plausibile, in quanto numerose decisioni della stessa Corte di cassazione configurano un “diritto vivente” in ordine all’applicabilità nella specie ed alla portata dell’art. 18, comma 1, lettera r), in particolare alla non riferibilità di questa norma allo straniero dimorante o residente in Italia. Peraltro, tale interpretazione risulta suffragata sia dalla lettera della disposizione, che dai lavori preparatori, espressivi dell’intento specifico di escludere per il MAE in executivis il rifiuto di consegna dei cittadini di altri Paesi dell’UE, esclusione oggetto di uno specifico emendamento.

Ne consegue, anzitutto, che il contrasto tra la normativa di recepimento e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere sottoposto alla verifica di costituzionalità di questa Corte. In secondo luogo, gli atti nazionali che danno attuazione ad una decisione quadro con base giuridica nel TUE, ed in particolare nell’ex terzo pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria in materia penale, non sono sottratti alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del Trattato CE, ora Trattato FUE, che integrano a loro volta i parametri costituzionali – artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – che a quelle norme fanno rinvio.

Nella specie rileva, infatti, oltre alla decisione quadro sul MAE, l’art. 12 del TCE, oggi art. 18 del TFUE, che vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità nel campo di applicazione del Trattato. Anche sotto tale profilo è corretto il ricorso al giudice delle leggi, dal momento che il contrasto della norma con il principio di non discriminazione di cui all’art. 12 del Trattato CE, non è sempre di per sé sufficiente a consentire la “non applicazione” della confliggente norma interna da parte del giudice comune. Invero, il divieto in esame, come si evince anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, pur essendo in linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti. Al legislatore dello Stato membro, infatti, è consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata, come, ad esempio, in una fattispecie quale quella che ci occupa, la previsione di un ragionevole limite temporale al requisito della residenza del cittadino di uno Stato membro diverso da quello di esecuzione (Corte di giustizia, sentenza Wolzenburg). Non solo, ma a precludere al giudice comune la disapplicazione della norma interna in ipotesi incompatibile, vale anche la circostanza che nella specie si verte in materia penale e che un provvedimento straniero che dispone la privazione della libertà personale a fini di esecuzione della pena nello Stato italiano non potrebbe essere eseguito in forza di una norma dell’Unione alla quale non corrisponda una valida norma interna di attuazione (sentenza n. 28 del 2010, punto 5).

L’ipotesi di illegittimità della norma nazionale per non corretta attuazione della decisione quadro è riconducibile, pertanto, ai casi nei quali, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non sussiste il potere del giudice comune di «non applicare» la prima, bensì il potere–dovere di sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., integrati dalla norma conferente dell’Unione, laddove, come nella specie, sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti dall’ordinamento.

8.– La questione di costituzionalità va dunque scrutinata alla luce dei principi sopra richiamati e della giurisprudenza della Corte di giustizia in ordine all’interpretazione della decisione quadro. Al riguardo, infatti, rileva che le sentenze della Corte di giustizia vincolano il giudice nazionale all’interpretazione da essa fornita, sia in sede di rinvio pregiudiziale, che in sede di procedura d’infrazione (sentenze n. 168 del 1991, n. 389 del 1989 e n. 113 del 1985).

Ora, la Corte di giustizia ha affrontato il tema specifico del rifiuto di consegna oggetto dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro nelle già qui ricordate sentenze Wolzenburg, di cui le ordinanze di rimessione della Corte di cassazione hanno esaminato le conclusioni dell’avvocato generale, e Kozlowski. La prima sottolinea che il motivo di rifiuto stabilito all’art. 4, punto 6, della decisione quadro, al pari dell’art. 5, punto 3, della stessa, mira a permettere di accordare una particolare importanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta scontata la pena cui essa è stata condannata (punti 62 e 67); e con questo preciso intento lo Stato membro è legittimato a limitare il rifiuto alle «persone che abbiano dimostrato un sicuro grado di inserimento nella società di detto Stato membro» (punto 67). D’altra parte, è questo uno degl i obiettivi principali («favorire il reinserimento sociale della persona condannata») del sistema di cooperazione giudiziaria in materia penale, fondato sul reciproco riconoscimento enunciato dal Consiglio europeo di Tampere nel 1999, com’è ribadito anche all’art. 3 della decisione quadro n. 909 del 2008, sopra ricordata.

Se questa è la ratio della norma della decisione quadro così come interpretata dalla Corte di giustizia, è agevole dedurre che il criterio per individuare il contesto sociale, familiare, lavorativo e altro, nel quale si rivela più facile e naturale la risocializzazione del condannato, durante e dopo la detenzione, non è tanto e solo la cittadinanza, ma la residenza stabile, il luogo principale degli interessi, dei legami familiari, della formazione dei figli e di quant’altro sia idoneo a rivelare la sussistenza di quel «radicamento reale e non estemporaneo dello straniero in Italia» che costituisce la premessa in fatto delle ordinanze di rimessione. Utilizzando il criterio esclusivo della cittadinanza, escludendo qualsiasi verifica in ordine alla sussistenza di un legame effettivo e stabile con lo Stato membro dell’esecuzione, la norma impugnata tradisce, in definitiva, non solo la lettera, ma anche e soprattutto la ratio della norma dell’Unione europea alla quale avrebbe dovuto dare corretta attuazione.

Gli Stati membri certamente avevano la facoltà di prevedere o di non prevedere il rifiuto di consegna (di «potere discrezionale certo» si legge al riguardo nella sentenza Wolzenburg della Corte di giustizia), non rientrando l’ipotesi di cui all’art. 4, punto 6, qui rilevante tra le ipotesi di rifiuto obbligatorio prefigurate dalla decisione quadro. Tuttavia, una volta operata la scelta di prevedere il rifiuto, andava rispettato il divieto di discriminazione in base alla nazionalità sancito dall’art. 12 del TCE (art. 18 del TFUE a partire dall’entrata in vigore del Trattato di riforma di Lisbona), peraltro pienamente osservato dal citato art. 4, punto 6, della decisione quadro, che espressamente recita: «se il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecu zione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno» [corsivi aggiunti]. Il divieto di discriminazione in base alla nazionalità consente sì di differenziare la situazione del cittadino di uno Stato membro dell’Unione rispetto a quella del cittadino di un altro Stato membro, ma la differenza di trattamento deve avere una giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta ad un rigoroso test di proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito. La previsione, in particolare, di una residenza per la durata di 5 anni per il non cittadino è stata ritenuta dalla Corte di giustizia non andare oltre quanto è necessario per conseguire l’obiettivo volto a garantire il reinserimento nello Stato membro di esecuzione (sentenza Wolzenburg, punto 73). A differenza, tuttavia, della legge olandese di recepimento della decisione quadro sul MAE, og getto del caso appena ricordato, la disposizione qui censurata non ope ra una limitazione alla parità di trattamento del cittadino di un altro Stato membro dell’Unione rispetto al cittadino italiano con riguardo, ad esempio, alla durata della residenza aut similia, ma esclude radicalmente l’ipotesi che il cittadino di altro Stato membro possa beneficiare del rifiuto di consegna e dunque dell’esecuzione della pena in Italia. Ciò si traduce in una discriminazione soggettiva, del cittadino di altro Paese dell’Unione in quanto straniero, che, in difetto di una ragionevole giustificazione, non è proporzionata.

Va in proposito precisato, poi, che le nozioni di residenza e di dimora utilizzate dalla decisione quadro, nonché per altra ipotesi dalla legge italiana di recepimento, sono nozioni comunitarie, che richiedono una interpretazione autonoma ed uniforme, a ragione della esigenza e della finalità di applicazione uniforme che è alla base della decisione quadro. Ebbene, la Corte di giustizia non ha mancato, nella ricordata sentenza Kozlowski, di fornire la sua interpretazione al giudice nazionale; e gli ha fornito indicazioni utili anche su un piano più generale. In particolare, ha identificato la nozione di “residenza” con una residenza effettiva nello Stato dell’esecuzione; e la nozione di “dimora” con un soggiorno stabile di una certa durata in quello Stato, che consenta di acquisire con tale Stato legami d’intensità pari «a quelli che si instaurano in caso di residenza» (punto 46). Ad esempio, e per q uanto qui rileva, il giudice comunitario ha sottolineato l’esigenza che il giudice nazionale proceda ad una valutazione complessiva degli elementi oggettivi che caratterizzano la situazione del ricercato, come la durata, la natura e le modalità del suo soggiorno, nonché i legami familiari ed economici che ha stabilito nello Stato dell’esecuzione (punti 48 e 54). Ed ha sottolineato, nell’ipotesi che lo straniero risieda o abbia dimora nello Stato dell’esecuzione, l’esigenza che il giudice valuti anche l’esistenza di un interesse legittimo del condannato a che la pena sia scontata in quello Stato (punto 44). La Corte di giustizia ha, infine, precisato quali circostanze, pur non essendo di per sé decisive, possono essere valutate al giusto ai fini della decisione sulla consegna, ad esempio una dimora non ininterrotta ovvero il mancato rispetto delle norme in materia di ingresso e soggiorno nello Stato dell’esecuzione (pu nto 50).

9. – Alla stregua dei rilievi svolti, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge di attuazione della decisione quadro sul MAE, limitatamente alla parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell’UE, che legittimamente ed effettivamente risieda o abbia dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno.

All’autorità giudiziaria competente spetta, pertanto, accertare la sussistenza del presupposto della residenza o della dimora, legittime ed effettive, all’esito di una valutazione complessiva degli elementi caratterizzanti la situazione della persona, quali, tra gli altri, la durata, la natura e le modalità della sua presenza in territorio italiano, nonché i legami familiari ed economici che intrattiene nel e con il nostro Paese, in armonia con l’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Resta riservata, poi, al legislatore la valutazione dell’opportunità di precisare le condizioni di applicabilità al non cittadino del rifiuto di consegna ai fini dell’esecuzione della pena in Italia, in conformità alle conferenti norme dell’Unione europea, così come interpretate dalla Corte di giustizia.

La pronuncia di illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., determina l’assorbimento delle questioni poste con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 228

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 775, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promossi dalla Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio con quattro ordinanze del 18 ottobre 2007 e dalla Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna con una ordinanza del 15 luglio 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 117,118, 119, 120 e 304 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17 e n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’11 e nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

uditi gli avvocati Edoardo Urso e Dario Marinuzzi per l’INPDAP nonché l’avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con quattro distinte ordinanze, tutte depositate in data 18 ottobre 2007, il Giudice unico per le pensioni della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio della Corte dei conti ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 775, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007).

1.1. - Il giudice a quo premette di dover giudicare sui ricorsi proposti da talune pensionate avverso i provvedimenti con i quali l’INPDAP e – nel giudizio iscritto al r.o. n. 120 del 2009 – l’INPS – Fondo speciale Ferrovie, hanno loro liquidato il trattamento pensionistico di reversibilità non già per intero, bensì nella misura del sessanta per cento della pensione che era in godimento al coniuge deceduto, comprensiva della indennità integrativa speciale (di seguito anche I.I.S.).

In tutti i giudizi si evidenzia che le ricorrenti, invocando a sostegno delle proprie ragioni l’orientamento seguito dalle sezioni riunite della Corte dei conti n. 8 del 17 aprile 2002 «e dalla conforme preponderante giurisprudenza delle Sezioni regionali e centrali della Corte medesima», avevano chiesto il ripristino dell’indennità integrativa speciale nella misura intera precedentemente erogata al coniuge, da liquidarsi separatamente dalla voce «pensione», in conformità a quanto disposto dall’art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), siccome applicabile nella specie, giacché concernente le «pensioni dirette liquidate fino al 31 dicembre 1994» e «le pensioni di reversibilità ad esse riferite».

Le istanze erano state, invece, respinte in ragione del fatto che si trattava di pensioni di reversibilità decorrenti in epoca successiva al 31 dicembre 1994 e, dunque, liquidate in forza dell’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in vigore del 17 agosto 1995, per effetto del quale «La disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato, vigente nell’ambito dell’assicurazione generale obbligatoria, è estesa a tutte le forme esclusive o sostitutive di detto regime. [...]». Con la conseguenza, secondo l’ente previdenziale, che, in base al comma 3 dell’art. 15 della citata legge n. 724 del 1994, «l’indennità integrativa speciale non costituisce più una voce distinta, liquidabile per intero, bensì è conglobata nell’unica voce “pensione” e, pertanto, soggetta alle percentuali di legge proprie delle pensioni ai superstiti».

1.2. - Ciò premesso, in punto di non manifesta infondatezza la Corte dei conti rimettente – con motivazione identica in tutte le ordinanze di rimessione – osserva che le controversie oggetto di cognizione andrebbero risolte alla luce della normativa costituita dai commi 774, 775 e 776 dell’articolo unico della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), che imporrebbe una pronuncia opposta al predetto orientamento giurisprudenziale. Tuttavia, il medesimo giudice a quo sostiene che le disposizioni anzidette si presterebbero a dubbi di illegittimità costituzionale.

1.3. - Nelle ordinanze si evidenzia, anzitutto, che il comma 774 citato, nel recare l’interpretazione autentica dell’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, determinerebbe in modo retroattivo il venir meno dell’intento «di salvaguardia dei trattamenti di reversibilità liquidati secondo il più favorevole calcolo ex art. 2 della legge n 324/1959, così come era stato invece previsto dall’art. 15, comma 5, della legge n. 724/1994», abrogato dal comma 776 dello stesso art. 1 della legge n. 296 del 2006, «con salvezza dei soli trattamenti più favorevoli “già definiti in sede di contenzioso” di cui al comma 775».

Ad avviso della Corte rimettente, la disposizione di cui all’anzidetto comma 774 confliggerebbe, però, «con l’art. 3 Costituzione, sia per quanto attiene al profilo di uguaglianza che a quello di ragionevolezza», giacché non riguarderebbe «i trattamenti di reversibilità connessi a decessi avvenuti prima del 17 agosto 1995», senza che sussista, però, «un valido motivo nel differenziare il trattamento di situazioni sostanzialmente uguali (come le pensioni di reversibilità decorrenti dal 1° gennaio 1995 e quelle decorrenti dal 17 agosto 1995), posto che il nuovo sistema di liquidazione dell’indennità integrativa speciale (conglobata alla voce pensione), disposto dal vigente comma 3 dell’art. 15 della legge n. 724/1994 (sistema che ha dato luogo alla definitiva disciplina di cui all’art. 1, comma 41, della citata legge n. 335/1995), ha effetto appunto dal 1° gennaio 1995».

Inoltre, soggiunge il rimettente, l’interpretazione dello stesso comma 774 parrebbe contrastare anche con il vigente comma 4 del medesimo art. 15 della legge n. 724 del 1994, con cui è stato disposto che «La pensione di cui al comma 3 (vale a dire quella decorrente dal 1° gennaio 1995, con l’i.i.s. inglobata nella voce pensione) è reversibile, [...] in base all’aliquota in vigore nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti». Si tratterebbe, difatti, della «medesima aliquota di reversibilità del 60% che il comma 774 prevede invece a decorrere dal 17 agosto 1995», venendo così in rilievo un «contrasto in ordine alla effettiva decorrenza delle nuove disposizioni per le pensioni di reversibilità», donde l’emersione di un «difetto di ragionevolezza».

1.4. - Ad avviso del giudice a quo, ulteriore violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza andrebbe ravvisata «nella salvezza dei migliori trattamenti in atto», stabilita dal comma 775, anch’esso denunciato. Esso, infatti, «prevede la salvezza dei soli trattamenti più favorevoli in atto alla data della sua entrata in vigore (1° gennaio 2007) “già definiti in sede di contenzioso”», così da escludere la «tutela dei diritti quesiti di coloro che hanno avuto la corresponsione del migliore trattamento di riversibilità in via amministrativa».

1.5. - La Corte rimettente sostiene, poi, che il profilo maggiormente in contrasto con i principi di cui all’art. 3 Costituzione andrebbe, comunque, individuato nella «immotivata differenza di trattamento tra i beneficiari di trattamenti di reversibilità in ogni caso riferibili a pensioni dirette decorrenti da periodo precedente il 1° gennaio 1995, con l’unico discrimine rappresentato dal momento di decorrenza del trattamento ai superstiti, a nulla rilevando la data di effettiva decorrenza della pensione diretta cui detti trattamenti sono afferenti». A tal fine, richiamandosi anche la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 34 del 1981, n. 169 del 1986, n. 926 del 1988 e n. 495 del 1993), nell’ordinanza di rimessione si osserva che l’acquisto iure proprio della pensione di reversibilità non elide il fatto che essa «resta naturalmente avvinta, proseguendolo, al pregresso istituto della pensione diretta fruita dal lavoratore ». Sicché, il pregiudizio di siffatta tutela comporterebbe un vulnus «della garanzia di cui all’art. 38 della Costituzione, strettamente collegata con lo stato di bisogno ricollegabile alle pensioni vedovili che trovano la loro causa nell’esigenza di tutelare economicamente la parte superstite nel momento in cui viene meno l’apporto economico del coniuge deceduto, tramite la reversibilità di una pensione che, a sua volta, trova titolo nella cessazione dell’attività lavorativa o nel risarcimento di un danno fisico ricollegabile al servizio svolto».

1.6. - Il giudice a quo assume, inoltre, che il denunciato comma 774 farebbe un «uso improprio della qualificazione interpretativa», posto che, nella materia di cui trattasi, non risultava alcun dubbio ermeneutico dopo l’orientamento giurisprudenziale che si era pacificamente affermato, specie dopo il ricordato intervento delle sezioni riunite della Corte dei conti del 2002, e che non risulta mai disatteso.

Peraltro, si soggiunge nell’ordinanza di rimessione, la irragionevolezza del carattere retroattivo del comma 774, in quanto norma di interpretazione autentica, «si riverbera anche sul comma 775 che, nel prevedere la salvezza delle sole situazioni giuridiche già definite favorevolmente in sede contenziosa, finisce per limitare (né potrebbe essere altrimenti) l’applicabilità della nuova disciplina, con effetto retroattivo, soltanto all’avvenuto verificarsi di un evento processuale assolutamente casuale e circostanziale (come la avvenuta definizione dei ricorsi in materia)».

Il giudice a quo ritiene, infine, che sarebbe «arduo, nella specie, individuare il rispetto di tale parametro di ragionevolezza», anche tenuto conto di altre norme contenute nella stessa legge n. 296 del 2006 (commi 578 e 765) che presentano «indubbi riflessi sulla futura spesa pensionistica».

2. - Nei giudizi iscritti al r.o. nn. 117, 118 e 119 del 2009, si è costituito l’INPDAP, parte resistente nei rispettivi procedimenti principali, concludendo – sulla scorta di argomentazioni identiche in tutte le memorie depositate – per l’inammissibilità o la manifesta infondatezza delle sollevate questioni.

2.1. - Quanto all’inammissibilità, si sostiene che essa conseguirebbe dalla sentenza n. 74 del 2008 di questa Corte, sopravvenuta alle ordinanze di rimessione, che ha scrutinato questioni di costituzionalità del comma 774 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 analoghe a quelle attualmente proposte, dichiarandole non fondate.

Ulteriore profilo di inammissibilità si sostanzierebbe nella «natura politico-legislativa» delle censure di irragionevolezza mosse dal rimettente all’intero testo della legge n. 296 citata, «in particolare con riguardo alle modalità concretamente seguite nella erogazione della spesa pubblica previdenziale, di cui ai commi 765 e 578 del medesimo art. 1».

2.2. - Nel merito, la difesa dell’INPDAP argomenta diffusamente sulla non fondatezza delle questioni, richiamando la trama normativa implicata e la giurisprudenza pensionistica che su di essa si era pronunciata, assumendo che il legislatore avrebbe fatto corretto uso della propria discrezionalità nell’emanare le censurate disposizioni con carattere di interpretazione autentica.

2.3. - Inoltre, quanto alla prospettata lesione del principio dell’affidamento «in danno dei percettori del trattamento pensionistico di reversibilità», essa non sussisterebbe, giacché, non potendosi invocare nella materia diritti quesiti, l’intervento legislativo retroattivo denunciato risulterebbe contenuto nei limiti della ragionevolezza, anche in considerazione delle esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio.

2.4. - Infine, l’INPDAP, quanto alle censure rivolte al comma 775, osserva che la norma non distingue «tra contenzioso amministrativo e giurisdizionale» e, del resto, la prassi amministrativa dello stesso Istituto sarebbe nel senso di fare salvo «quanto definito, non solo in sede giurisdizionale con sentenza passata in autorità di cosa giudicata, anche in sede amministrativa all’esito dei ricorsi proposti dinanzi ai vari Comitati di Vigilanza».

Peraltro, la parte costituita sostiene comunque la infondatezza del profilo di censura in esame, in ragione della «differenza sostanziale tra la attività giurisdizionale ed i cd. rimedi giustiziali in sede amministrativa», come evidenziato dalla stessa giurisprudenza costituzionale in riferimento al «ricorso straordinario al Presidente della Repubblica», rilevando che «i pareri e le decisioni resi dai comitati di vigilanza dell’Istituto in sede di ricorsi di natura amministrativa […] ben possono essere modificati dal Consiglio di Amministrazione dell’Istituto dietro richiesta del direttore Generale dell’Istituto».

In ogni caso, conclude l’INPDAP, proprio dalla stessa sentenza n. 74 del 2008 si evincerebbe che la salvezza delle situazioni definite in sede di contenzioso costituisce ragione essenziale «a far ritenere del tutto razionale la scelta del legislatore».

3. - In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con memorie di identico tenore, che le questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.

La difesa erariale sostiene che le disposizioni denunciate sarebbero «dirette a ribadire il processo di omogeneizzazione del calcolo dei trattamenti pensionistici, ai superstiti tra dipendenti pubblici e privati, contenuto nella legge n. 335 del 1995», al fine di poter superare un consistente contenzioso presso il giudice delle pensioni.

L’Avvocatura rileva, dunque, che, successivamente all’introduzione dei commi 774 e 775 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, alcune Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti hanno respinto i ricorsi dinanzi ad esse proposti «affermando che la pensione di reversibilità è stata liquidata dall’ente previdenziale ai sensi di legge» e che, segnatamente, non sarebbero ipotizzabili profili di illegittimità costituzionale in ragione del «precedente specifico» costituito dalla sentenza n. 74 del 2008 di questa Corte, che ha dichiarato non fondata le questioni di costituzionalità del comma 774 citato.

4. - Con ordinanza del 15 luglio 2009, il Giudice unico per le pensioni della Sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna della Corte dei conti ha sollevato, anch’esso, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 774, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, denunciandone il contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione.

Il rimettente è chiamato a decidere sui ricorsi proposti da taluni pensionati che lamentano di aver ricevuto un trattamento di reversibilità liquidato nella misura del 60% della pensione di cui erano in godimento i coniugi deceduti, comprensiva dell’indennità integrativa speciale nella misura effettivamente fruita, la quale, pertanto, è stata computata nella medesima percentuale. I ricorrenti – si evidenzia ancora nell’ordinanza di rimessione – chiedono, pertanto, «l’accertamento del proprio diritto a vedersi liquidata la pensione di reversibilità ai sensi dell’art. 15, comma 5, della legge n. 724 citata che aveva previsto, in deroga al disposto di cui al precedente comma 3, l’applicabilità della più favorevole pregressa disciplina ai trattamenti diretti decorrenti anteriormente alla data del 1° gennaio 1995 ed ai trattamenti di reversibilità ad essi riferiti».

4.1. - Ciò premesso, nell’ordinanza si sostiene che, in forza delle disposizioni recate dai commi 774, 775 e 776 dell’art. 1 della n. 296 del 2006, i ricorsi dovrebbero essere respinti, contrariamente a quanto avrebbe imposto l’orientamento giurisprudenziale pregresso e conseguente alla sentenza n. 8/QM/2002 del 17 aprile 2002 delle sezioni riunite della Corte dei conti.

Si rammenta, altresì, che sul denunciato comma 774 del citato art. 1 si è già pronunciata la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 74 del 2008, ha dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità allora sollevate in riferimento all’art. 3 Cost.. Il giudice a quo deduce, quindi, che ciò «impone a questo Giudice unico di riguardare la questione sotto un diverso profilo, non indagato dalle ordinanze di rimessione che hanno dato origine alla pronuncia sopra riportata».

A tal riguardo, si sostiene che – pur dovendosi dare atto che gli artt. 36 e 38 Cost. «non escludono affatto la possibilità di un intervento legislativo che, per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica, riduca in maniera definitiva un trattamento pensionistico in precedenza previsto» – la disciplina introdotta, con effetto retroattivo, con il comma 774 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 «comporta, per taluni ma non per tutti i destinatari della norma (coniugi superstiti di pensionati titolari di pensione ordinaria diretta avente decorrenza da data antecedente al 1° gennaio 1995 e deceduti dopo detta data, nelle fattispecie qui in argomento senza figli a carico e senza redditi propri superiori a tre volte il cosiddetto minimo INPS), un trattamento pensionistico notevolmente inferiore a quello che sarebbe spettato in applicazione del previgente ordinamento».

Ad avviso del giudice a quo, per una pensione di riferimento nella quale la componente “pensione base” sia di importo uguale a quello dell’indennità integrativa speciale «si determina, applicando le nuove norme, una pensione di reversibilità inferiore del 30% a quella che sarebbe spettata in applicazione della previgente normativa (e la percentuale di decremento cresce quanto più aumenta la differenza – in negativo – tra l’importo mensile della “pensione base” e l’importo mensile dell’indennità integrativa speciale)». L’anzidetta percentuale diminuirebbe – argomenta ancora il rimettente – con l’aumentare dell’importo della “pensione base” rispetto all’importo dell’indennità integrativa speciale, «fino a diventare uguale a zero nell’ipotesi in cui la “pensione base” è pari a quattro volte l’inde nnità integrativa speciale, punto nel quale si registra l’indifferenza tra l’applicazione della vecchia normativa e l’applicazione della novella del 2006»; anzi, oltre tale soglia le nuove disposizioni determinerebbero, per il coniuge superstite di pensionato la cui pensione base fosse superiore a quattro volte l’importo dell’indennità integrativa speciale, «una situazione più favorevole di quella recata con la previgente normativa che è tanto più favorevole quanto più elevata è la “pensione base” rispetto all’indennità integrativa speciale».

4.2. - Tanto dedotto, il rimettente Giudice unico per le pensioni osserva che «secondo il sindacato dei pensionati SPAI CGIL, che ha elaborato i dati INPS, nel 2007 la soglia di povertà relativa stimata riguarda una cifra pari ad euro 591,6 mensili che corrisponde ad una reddito annuo, espresso con il vecchio conio, pari a lire 13.745.968», sostenendo, pertanto, che «le pensioni lorde liquidate alle odierne ricorrenti sono di ben poco superiori alla predetta soglia di povertà relativa stimata».

4.3. - Il giudice a quo afferma, quindi, che il denunciato comma 774 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, volto alla salvaguardia dell’equilibrio del bilancio dello Stato ed al contenimento della spesa pubblica in considerazione della limitatezza delle risorse disponibili, «di fatto individua a tal fine una categoria (coniugi superstiti di pensionati deceduti dopo il 1° gennaio 1995, ma titolari di pensione diretta con decorrenza da data antecedente al 1° gennaio 1995), i cui appartenenti non sono tutti chiamati a concorrere alla spesa pubblica né a concorrere in misura uguale ovvero progressiva, in quanto il sistema generato dalla nuova disposizione opera in maniera oltremodo regressiva giungendo a risultati di indubbio favore proprio per le pensioni più elevate e che sono espressione di maggiore capacità contributiva, ravvisandosi altresì in siffatto risultato una palese violazione dei principi contenuti nell’art. 3 della Costituzione, atteso che la decurtazione giustificata dalle esigenze di bilancio (id est il prelievo coattivo a fini di contribuzione alle pubbliche spese) incide specificamente su una categoria di cittadini senza che sussistano evidenti motivi per tale differenziazione».

Ad avviso del rimettente, la norma denunciata contrasterebbe anche con l’art. 53 della Costituzione, violandone sia il primo comma, in considerazione «della circostanza che viene imposto a taluni appartenenti ad una specifica categoria di concorrere in misura maggiore degli altri cittadini alle spese pubbliche senza che sia stata verificata l’effettiva capacità contributiva»; sia il secondo comma, «nella indubbia regressività del sistema di prelievo che vede maggiormente incisi i cittadini aventi minore capacità contributiva (od altri, addirittura, pur appartenendo alla medesima categoria ma di maggiore capacità contributiva ottengono un risultato migliorativo rispetto a quello assicurato dal previgente ordinamento)» .

5. - Si è costituito l’INPDAP, parte resistente nei rispettivi procedimenti principali, concludendo per l’inammissibilità o la manifesta infondatezza della sollevata questione, in forza di considerazioni analoghe a quelle già sviluppate nelle memorie depositate nei giudizi di cui alle ordinanze iscritte al r.o. n. 117, n. 118 e n. 119 del 2009.

L’Istituto soggiunge, infine, che sarebbe inammissibile o comunque manifestamente infondata la censura che fa leva sull’art. 53 Cost., posto che l’art. 1, comma 774, della legge n. 296 del 2006 non ha riguardo a disposizioni tributarie, non avendo per nulla innovato il sistema di prelievo fiscale dei trattamenti pensionistici.

6. - E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata manifestamente infondata.

La difesa erariale argomenta sulla non irragionevolezza della norma denunciata siccome finalizzata «all’unico obiettivo di dare compiuta attuazione ad un principio recato da una legge di riforma»; sostiene, inoltre, la non pertinenza dell’evocazione del parametro di cui all’art. 53 Cost., concernente l’ordinamento tributario ed il presupposto di legittimità della relativa imposizione, cui sarebbe estranea la disposizione censurata.

6.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato, altresì, memoria illustrativa con la quale, nel ribadire le conclusioni già rassegnate, sostiene ulteriormente che la questione sollevata, quanto al denunciato contrasto con l’art. 3 Cost., sarebbe stata, nella sostanza, già scrutinata, nel senso della non fondatezza, dalla questa Corte con la sentenza n. 74 del 2008.

Considerato in diritto

1. - Il Giudice unico per le pensioni della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio della Corte dei conti ha sollevato, con quattro distinte ordinanze, tutte dello stesso tenore, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 775, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007).

Le denunciate disposizioni rispettivamente stabiliscono:

– «L’estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell'ambito del regime dell'assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall’articolo 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335 si interpreta nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335 indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità.» (comma 774);

– «Sono fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli in godimento alla data di entrata in vigore della presente legge, già definiti in sede di contenzioso, con riassorbimento sui futuri miglioramenti pensionistici.» (comma 775).

In riferimento al censurato comma 774 il rimettente ha prospettato la violazione dell’art. 3 della Cost. sotto molteplici profili.

In primo luogo, perché la norma non riguarderebbe «i trattamenti di reversibilità connessi a decessi avvenuti prima del 17 agosto 1995», così da differenziare, senza valido motivo, «il trattamento di situazioni sostanzialmente uguali (come le pensioni di reversibilità decorrenti dal 1° gennaio 1995 e quelle decorrenti dal 17 agosto 1995), posto che il nuovo sistema di liquidazione dell’indennità integrativa speciale (conglobata alla voce pensione)», disposto dal vigente comma 3 dell’art. 15 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), e che ha dato luogo alla definitiva disciplina di cui all’art. 1, comma 41, della citata legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), «ha effetto appunto dal 1° gennaio 1995».

Inoltre, il denunciato comma 774 contrasterebbe, con conseguente difetto di ragionevolezza, «anche con il vigente comma 4 del medesimo art. 15 della legge n. 724/1994, con cui è stato disposto che “La pensione di cui al comma 3 (vale a dire quella decorrente dal 1° gennaio 1995, con l’i.i.s. inglobata nella voce pensione) è reversibile, [...] in base all’aliquota in vigore nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti”», posto che si tratterebbe della «medesima aliquota di reversibilità del 60% che il comma 774 prevede invece a decorrere dal 17 agosto 1995».

Ed ancora, sussisterebbe una «immotivata differenza di trattamento tra i beneficiari di trattamenti di reversibilità in ogni caso riferibili a pensioni dirette decorrenti da periodo precedente il 1° gennaio 1995, con l’unico discrimine rappresentato dal momento di decorrenza del trattamento ai superstiti, a nulla rilevando la data di effettiva decorrenza della pensione diretta cui detti trattamenti sono afferenti».

Infine, vi sarebbe la violazione dell’art. 3 Cost. per l’«uso improprio della qualificazione interpretativa», posto che «nella materia di cui trattasi, non risultava alcun dubbio ermeneutico dopo l’orientamento giurisprudenziale che si era pacificamente affermato, specie dopo l’intervento delle sezioni riunite di questa Corte del 2002, e che non risulta mai disatteso».

Ad avviso del giudice a quo, il censurato comma 774 contrasterebbe anche con l’art. 38 della Costituzione e, dunque, con una garanzia «strettamente collegata con lo stato di bisogno ricollegabile alle pensioni vedovili che trovano la loro causa nell’esigenza di tutelare economicamente la parte superstite nel momento in cui viene meno l’apporto economico del coniuge deceduto, tramite la reversibilità di una pensione che, a sua volta, trova titolo nella cessazione dell’attività lavorativa o nel risarcimento di un danno fisico ricollegabile al servizio svolto».

A sua volta, il comma 775 dello stesso art. 1 della legge n. 296 del 2006 violerebbe, secondo il rimettente, l’art. 3 della Cost., giacché, nel prevedere «la salvezza dei soli trattamenti più favorevoli in atto alla data della sua entrata in vigore (1° gennaio 2007) “già definiti in sede di contenzioso”», esclude la «tutela dei diritti quesiti di coloro che hanno avuto la corresponsione del migliore trattamento di riversibilità in via amministrativa».

Ulteriore contrasto con lo stesso anzidetto parametro deriverebbe, infine, dal fatto che la irragionevolezza del carattere retroattivo del comma 774, siccome norma di interpretazione autentica, «si riverbera anche sul comma 775 che, nel prevedere la salvezza delle sole situazioni giuridiche già definite favorevolmente in sede contenziosa, finisce per limitare (né potrebbe essere altrimenti) l’applicabilità della nuova disciplina, con effetto retroattivo, soltanto all’avvenuto verificarsi di un evento processuale assolutamente casuale e circostanziale (come la avvenuta definizione dei ricorsi in materia)».

1.2. - Con ordinanza del 15 luglio 2009, la Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, in funzione di Giudice unico per le pensioni, ha sollevato anch’essa questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 774, della legge n. 296 del 2006.

A tal fine, il rimettente deduce che, sebbene volta alla salvaguardia dell’equilibrio del bilancio dello Stato ed al contenimento della spesa pubblica in considerazione della limitatezza delle risorse disponibili, la norma denunciata «di fatto individua a tal fine una categoria (coniugi superstiti di pensionati deceduti dopo il 1° gennaio 1995, ma titolari di pensione diretta decorrenza da data antecedente al 1°gennaio 1995) i cui appartenenti non sono tutti chiamati a concorrere alla spesa pubblica né a concorrere in misura uguale ovvero progressiva, in quanto il sistema generato dalla nuova disposizione opera in maniera oltremodo regressiva giungendo a risultati di indubbio favore proprio per le pensioni più elevate e che sono espressione di maggiore capacità contributiva», con conseguente «violazione dei principi contenuti nell’art. 3 della Costituzione, atteso che la decurtazione giustificata dalle esigenze di bilancio (id est il prelievo coattivo a fini di contribuzione alle pubbliche spese) incide specificamente su una categoria di cittadini senza che sussistano evidenti motivi per tale differenziazione».

Ad avviso del giudice a quo, sarebbe leso anche l’art. 53, primo comma, Cost., in considerazione «della circostanza che viene imposto a taluni appartenenti ad una specifica categoria di concorrere in misura maggiore degli altri cittadini alle spese pubbliche senza che sia stata verificata l’effettiva capacità contributiva».

Infine, sussisterebbe la violazione dell’art. 53, secondo comma, Cost., per la «indubbia regressività del sistema di prelievo che vede maggiormente incisi i cittadini aventi minore capacità contributiva (od altri, addirittura, pur appartenendo alla medesima categoria ma di maggiore capacità contributiva ottengono un risultato migliorativo rispetto a quello assicurato dal previgente ordinamento)».

2. - I giudizi investono le medesime norme, che sono denunciate in base a profili di censura in buona parte coincidenti, e vanno, quindi, riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3. - Le questioni non sono fondate.

4. - Occorre anzitutto rammentare che questa Corte, con la sentenza n. 74 del 2008, ha già scrutinato, nel senso della non fondatezza, talune questioni di costituzionalità del comma 774 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, le quali muovevano, anch’esse, dalla premessa dell’esistenza di un diritto vivente alla pensione di reversibilità nel caso di decesso di titolare di pensione diretta liquidata entro il 31 dicembre 1994, da calcolare in base alle norme di cui all’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, indipendentemente dalla data della morte del dante causa, non avendo l’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 abrogato il comma 5 dell’art. 15 appena citato.

Il denunciato comma 774 veniva, tuttavia, a smentire un siffatto diritto vivente, ma esso – ad avviso degli allora rimettenti – si sarebbe posto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, non potendo essere qualificato come norma di interpretazione autentica e ledendo, comunque, il principio dell’affidamento nella sicurezza giuridica.

La Corte, con la citata sentenza del 2008, nel ricostruire il quadro normativo di riferimento, ha posto in luce, anzitutto, che nel settore privato operava, «da epoca risalente, il principio di onnicomprensività della retribuzione pensionabile, essendo essa individuata in base ad un coacervo di elementi che, salvo specifiche eccezioni, entrano, tutti, a comporla, secondo le disposizioni che recano la disciplina di riferimento». Diversamente nel settore pubblico, in base al sistema originariamente delineato dal decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), si prevedeva che la pensione del pubblico dipendente fosse calcolata su una determinata base pensionabile «e, una volta determinata la prestazione, a questa si aggiungeva l’indennità integrativa speciale, la quale – come reso palese dall’art. 2 della legge n. 324 del 1959 e poi dall’art. 99 del t.u. del 1973 – era elemento accessorio del trattamento pensionistico». La diversità di detti sistemi si ripercuoteva, pertanto, sul calcolo della pensione di reversibilità, spettante al superstite in misura percentuale rispetto alla pensione diretta del dante causa: nel «settore privato il 60 per cento in favore del coniuge (aliquota fissata dall’art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, modificato anche dall’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903) era calcolato sulla pensione del dante causa determinata in base al principio di onnicomprensività (includente quindi tutti gli elementi retributivi sui quali operava l’aliquota del 60 per cento); nel settore pubblico, una volta determinata la pensione diretta e calcolata su questa la misura spettante al pensionato di reversibilità (al coniuge, in forza dell’art. 88 del t.u., di regola il 50 per cento della pensione d el dante causa), si aggiungeva, in misura piena, l’indennità ; integrativa speciale».

Su un tale assetto è intervenuto – ha osservato questa Corte nella citata sentenza – l’art. 15 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, stabilendo «che la corresponsione dell’indennità integrativa speciale nella misura piena si sarebbe dovuta fermare (per dar luogo, poi, al suo conglobamento nel trattamento pensionistico, con liquidazione complessiva di esso nella misura percentuale del 60 per cento secondo quanto previsto dall'assicurazione speciale obbligatoria), per quanto riguarda le pensioni dirette, al 31 dicembre 1994, ed avrebbe potuto continuare ad essere corrisposta alle pensioni di reversibilità, purché “riferite” alle pensioni dirette liquidate entro detta data». Con il successivo art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 si è previsto «che la disciplina del trattamento di reversibilità in essere nell’àmbito dell’assicurazione obbligatoria fosse esteso anche al set tore pubblico – determinando così la liquidazione della pensione con il conglobamento della indennità integrativa speciale – dalla data di entrata in vigore della legge stessa (e cioè dal 17 agosto 1995)».

Il problema della implicita abrogazione, per effetto della successione delle leggi nel tempo, del comma 5 della legge n. 724 del 1994, venne risolto in termini negativi dalla giurisprudenza prevalente della Corte dei conti.

Nello scrutinare, quindi, le questioni allora prospettate, la sentenza n. 74 del 2008 ha messo in evidenza:

– che l’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 «pone in rilievo due dati essenziali: a) l’indipendenza del trattamento pensionistico di reversibilità rispetto alla data di liquidazione della pensione diretta del dante causa; b) la decorrenza della estensione della disciplina della pensione di reversibilità prevista dall'assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive o sostitutive di detto regime dalla data di entrata in vigore della legge n. 335 del 1995»;

– che deve essere ribadito, dunque, il principio – già evidenziato dalla sentenza n. 446 del 2002 (di infondatezza di questione investente l’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995) – «dell’autonomia del diritto alla pensione di reversibilità come diritto originario»;

– che, in riferimento alla decorrenza della estensione della disciplina a regime della assicurazione generale obbligatoria, la norma censurata è effettivamente interpretativa dell’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995;

– che non può ritenersi irragionevole per contraddittorietà l’abrogazione – ad opera del comma 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 – del comma 5 dell’art. 15 della legge n. 724 del 1994, «giacché essa risulta rispondente ad una esigenza di ordine sistematico imposta proprio dalle vicende che hanno segnato la sua applicazione»;

– che, inoltre, potendo il legislatore, in sede di interpretazione autentica, «modificare in modo sfavorevole, in vista del raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati trattamenti economici con esiti privilegiati senza per questo violare l’affidamento nella sicurezza giuridica (sentenze n. 6 del 1994 e n. 282 del 2005), là dove, ovviamente, l’intervento possa dirsi non irragionevole», nella specie è da escludersi una siffatta irragionevolezza anche in vista della circostanza che «l’assetto recato dalla norma denunciata riguarda anche il complessivo riequilibrio delle risorse e non può, pertanto, non essere attenta alle esigenze di bilancio»;

– che ulteriore elemento a supporto della non irragionevolezza dell’intervento legislativo si radica nel fatto che «il legislatore, con il comma 775 dell’art. 1 della stessa legge n. 296 del 2006, ha salvaguardato i trattamenti di miglior favore già definiti in sede di contenzioso, con ciò garantendo non solo la sfera del giudicato, ma anche il legittimo affidamento che su tali trattamenti soltanto poteva dirsi ingenerato».

5. - Alla luce delle richiamate argomentazioni, si deve, quindi, pervenire ad una declaratoria di non fondatezza delle attuali censure del comma 774, le quali evocano anch’esse, come nei giudizi già oggetto di scrutinio da parte della citata sentenza n. 74 del 2008, la violazione dell’art. 3 Cost. per l’uso erroneo della qualificazione interpretativa; nonché denunciano il comma 775 per la lesione dello stesso art. 3 Cost. in ragione della pretesa limitazione della salvezza dei trattamenti più favorevoli a quelli «già definiti in sede di contenzioso».

5.1. - Quanto alle restanti censure poste dalle ordinanze iscritte al r.o. nn. 117, 118, 119 e 120 del 2009 – con le quali si deduce la irragionevolezza e la irrazionalità della disciplina denunciata, nonché la disparità di trattamento che essa determinerebbe tra pensionati in quiescenza in un momento, rispettivamente, antecedente e successivo al 1° gennaio 1995, ed infine la violazione della garanzia previdenziale posta dall’art. 38 Cost. – è da osservare che esse muovono da un presupposto interpretativo che contrasta con il principio, innanzi richiamato, di autonomia della pensione di reversibilità come diritto originario, dal quale discende come corollario che è rilevante, al fine di individuare il regime applicabile alla predetta pensione, la data della sua insorgenza, non potendo ritenersi, allo stesso fine, indefettibile, e tale da impedire ogni diverso intervento legislativo, il collegamento con la pensio ne diretta.

In effetti, non può reputarsi irragionevole la disposizione di cui all’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, la quale ha portato a regime il conglobamento della indennità integrativa speciale nella pensione di reversibilità dalla data di entrata in vigore della stessa legge. Si deve, infatti, tener presente che, per un verso è pienamente ammissibile un intervento legislativo che operi su rapporti di durata, come quelli in esame, per soddisfare esigenze, non solo di contenimento della spesa pubblica, ma anche di armonizzazione dei trattamenti pensionistici tra settore pubblico e privato, mentre d’altro canto (per costante giurisprudenza di questa Corte: di recente, vedasi ordinanza n. 170 del 2009) il fluire del tempo è valido discrimine di situazioni giuridiche analoghe e la effettività della garanzia di cui all’art. 38 Cost. non può reputarsi elisa da una regolamentazione che parifica (anche nella misura) la pensione di reversibilità del settore pubblico a quella del settore privato.

6. - In riferimento, poi, alla questione sollevata dall’ordinanza iscritta al r.o. n. 304 del 2009, è evidente l’inconferenza dei parametri di cui agli artt 3 e 53 Cost., unitariamente considerati per censurare l’art. 1, comma 774, poiché, come più volte affermato da questa Corte (tra le altre, sentenza n. 47 del 2008, nonché ordinanza n. 22 del 2003), il principio di capacità contributiva riguarda soltanto la materia tributaria, e non può essere invocato in materia previdenziale.

La questione deve, quindi, essere dichiarata non fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 774 e 775, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal Giudice unico delle pensioni della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio della Corte dei conti, con le ordinanze in epigrafe indicate;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 774, della medesima legge n. 296 del 2006, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dal Giudice unico delle pensioni della Sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna della Corte dei conti, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 229

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 449, comma 4, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Taranto nel procedimento penale a carico di I. M., con ordinanza del 30 settembre 2009, iscritta al n. 327 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Taranto, in composizione monocratica, con ordinanza depositata il 30 settembre 2009, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 449, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice, investito del giudizio direttissimo, constatata la non flagranza del reato, possa restituire gli atti al pubblico ministero.

Il rimettente riferisce che I. M., imputato del reato di tentata rapina, è stato tratto a giudizio direttissimo, ai sensi dell’art. 449, comma 4, cod. proc. pen., a seguito di arresto in flagranza convalidato dal giudice per le indagini preliminari.

In ordine ai motivi dell’arresto, il giudice a quo pone in evidenza che il 10 settembre 2009 alle ore 23,15 la centrale operativa del comando provinciale dei carabinieri di Taranto, ricevuta la segnalazione da parte della famiglia D.P. di un tentativo di rapina in danno di D.P.S., inviava una pattuglia presso l’abitazione dei predetti. All’interno del portone i militari identificavano in I. M. colui che era indicato dalla famiglia D.P. quale autore della tentata rapina.

Appresi i fatti che avevano determinato la richiesta d’intervento, i carabinieri, dopo aver interpellato il pubblico ministero di turno, alle ore 23,25 traevano in arresto I. M.

L’arrestato era sottoposto a perquisizione personale, il cui esito si rivelava negativo. Alle ore 00,50 la presunta vittima, escussa a sommarie informazioni, esponeva che intorno alle ore 22,30, mentre stava rientrando a casa, era stato fermato da un giovane che, rivolgendogli minacce, gli aveva chiesto la consegna del cellulare. L’individuo lo aveva seguito fino alla sua abitazione, dove i genitori, appreso l’accaduto, avevano richiesto l’intervento dei militari.

Ciò premesso, il rimettente osserva che, secondo le risultanze del verbale di arresto, la tentata rapina «sarebbe avvenuta in contesto spaziale e temporale del tutto estraneo alla diretta percezione dei carabinieri e, pertanto, non si comprende perché fu effettuato l’arresto in flagranza di reato, rectius in quasi flagranza», in quanto I. M. non fu sorpreso con tracce del reato e la sua mera presenza per interloquire con il denunziante è un dato che avrebbe dovuto costituire oggetto di indagini esperibili dall’inquirente.

Il rimettente, inoltre, riferisce che, in seguito a richiesta del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari «con modulo a stampa e con evidente difetto di motivazione, ha convalidato l’arresto “poiché eseguito in flagranza”» ed ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere.

Il pubblico ministero, infine, procedeva ai sensi dell’art. 449, comma 4, cod. proc. pen. nei confronti di I. M. per il reato di tentata rapina.

Dopo tale premessa in fatto, il rimettente richiama la normativa processuale concernente i procedimenti a carico di persone private della libertà personale e rileva che un soggetto «può essere tratto in arresto dall’autorità di pubblica sicurezza soltanto nello stato di flagranza (art. 382 c. p. p.) allorché viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero se, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, ovvero è sorpreso con cose e tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima».

Prosegue osservando che «la nozione della flagranza e della quasi flagranza è semplice e non ammette opinabili interpretazioni, atteso che in entrambi i casi il presupposto della privazione della libertà da parte del soggetto da parte della polizia si fonda sul fatto che la commissione del reato sia avvenuta sotto la diretta percezione della polizia operante».

Il giudicante, inoltre, pone l’accento sui casi in cui «la polizia può operare il fermo di chi sia ritenuto autore del reato», nonché sulle ipotesi nelle quali la privazione della libertà personale consegue all’applicazione di una misura cautelare disposta dal giudice che procede e dà conto dell’iter processuale contemplato per le diverse situazioni, soffermandosi sul rito direttissimo con persone in stato di detenzione, in base alla normativa dettata dall’art. 449 cod. proc. pen.

Ad avviso del giudice a quo, la procedura prevista da tale norma presenta una «evidente anomalia» in ordine alla differente disciplina stabilita con riferimento alla fattispecie processuale di cui ai commi 1 e 2, ed a quella di cui al comma 4, della medesima.

Il rimettente, in particolare, individua «una contraddizione logica non sostenibile» nel dato che, se la convalida dell’arresto è demandata allo stesso giudice del dibattimento (art. 449, comma 1, cod. proc. pen.), la mancata convalida comporta la restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 449, comma 2, cod. proc. pen.), «perché proceda nelle forme ordinarie»; invece, se il giudice per le indagini preliminari ha convalidato l’arresto ed il pubblico ministero presenta l’imputato al giudice perché proceda a giudizio direttissimo (art. 449, comma 4, cod. proc. pen), la dizione della norma parrebbe imporre la celebrazione, comunque, di detto giudizio.

Ad avviso del giudice a quo, dunque, la disposizione censurata viola l’art. 24 Cost. perché essa, se la flagranza è inesistente, non prevedendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, priva l’imputato del diritto di vedere accertata la propria responsabilità con regolari indagini preliminari e, là dove previsto, con il vaglio dell’udienza preliminare «che, quindi, gli sarebbe arbitrariamente sottratta».

Per altro verso, il rimettente sostiene che la giurisdizione dibattimentale «per effetto di apparente e fallace rappresentazione della flagranza di reato, risulta incomprensibilmente espropriata della funzione di accertare con la rapidità, connaturata al rito direttissimo, fatti che, in realtà, possono comportare defatiganti istruzioni dibattimentali».

A tal proposito, il giudice a quo pone in evidenza che il rito direttissimo è caratterizzato dalla rapida ed incontrovertibile delibazione di fatti nella sede dibattimentale e la recente innovazione legislativa, introdotta con il decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica) convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, che ha reso obbligatoria tale forma di giudizio, «con le ricadute che ciò comporta in termini di carico di lavoro, non pare possa relegare il tribunale a spettatore inerte di flagranze inesistenti».

Pur non ignorando, poi, che il controllo della convalida dell’arresto è demandato alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 391, comma 4, cod. proc. pen., il giudice a quo osserva come il mancato esperimento del relativo ricorso non equivalga a rendere legale l’arresto stesso.

Ad avviso del rimettente, inoltre, la norma censurata viola l’art. 111 Cost., in quanto, non consentendo al giudice del dibattimento di sindacare incidenter tantum la convalida già effettuata dal giudice per le indagini preliminari, al solo fine di stabilire se il giudizio direttissimo sia da ritenere ritualmente e correttamente instaurato, impedirebbe la celebrazione di un processo equo.

In punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea che il giudizio in corso deve proseguire, benché sussista l’evidenziato vulnus difensivo in quanto, secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, nel caso di specie «non è possibile dichiarare la nullità della citazione per direttissima, blindata da una formale intervenuta convalida, ancorché non motivata, dell’arresto in flagranza di reato».

2. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento con atto depositato in data 16 febbraio 2010.

La difesa dello Stato sostiene che la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal giudice del Tribunale di Taranto, dovrebbe essere ritenuta non fondata in quanto è nella discrezionalità del legislatore definire la disciplina del processo e la conformazione degli istituti processuali, il cui esercizio è censurabile sul piano della legittimità costituzionale soltanto se le scelte operate appaiono manifestamente irragionevoli o trasmodino nell’arbitrio (al riguardo richiama, tra le altre, le sentenze n. 379 del 2005, n. 180 del 2004, nonché le ordinanze nn. 389 e 215 del 2005 e n. 265 del 2004).

L’Avvocatura generale pone in evidenza, inoltre, che la disposizione censurata non determina alcun vulnus al diritto di difesa, dal momento che l’eventuale insussistenza del requisito della flagranza può essere fatta valere mediante ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di convalida dell’arresto da parte del giudice per le indagini preliminari; in ogni caso, resta ferma la possibilità di difendersi dall’accusa innanzi al giudice del dibattimento.

La difesa dello Stato, infine, alla luce del sistema delle impugnazioni che la legge processuale predispone, non ravvisa la violazione del principio del giusto processo.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Taranto, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dell’articolo 449, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice, investito del giudizio direttissimo, constatata la non flagranza del reato, possa restituire gli atti al pubblico ministero.

Il rimettente riferisce che I. M. è stato tratto a giudizio direttissimo, ai sensi dell’art. 449, comma 4, cod. proc. pen., a seguito di arresto in (ritenuta) flagranza per il reato di tentata rapina, convalidato dal giudice per le indagini preliminari, con contestuale emissione di ordinanza di custodia cautelare.

In ordine ai motivi dell’arresto, il giudice a quo rileva che il 10 settembre 2009, alle ore 23,15, una pattuglia di carabinieri si portava presso l’abitazione della famiglia D.P. dove, all’interno del portone, i militari identificavano colui che era indicato dai genitori della presunta vittima quale autore di una tentata rapina compiuta in danno del loro figlio.

Appresi i fatti che avevano determinato la richiesta di intervento, i carabinieri, dopo aver interpellato il pubblico ministero di turno, alle ore 23,25 traevano in arresto I. M. L’arrestato era sottoposto a perquisizione personale, che dava esito negativo.

Il rimettente osserva che, secondo le risultanze del verbale di arresto, la tentata rapina «sarebbe avvenuta in contesto spaziale e temporale del tutto estraneo alla diretta percezione dei carabinieri e, pertanto, non si comprende perché fu effettuato l’arresto in flagranza di reato, rectius in quasi flagranza», in quanto I. M. non fu sorpreso con tracce del reato, e la sua presenza per interloquire con il denunziante avrebbe dovuto costituire oggetto di ulteriori indagini da parte dell’organo inquirente.

Il rimettente riferisce, inoltre, che a seguito di richiesta del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari «con modulo a stampa e con evidente difetto di motivazione, ha convalidato l’arresto “poiché eseguito nella flagranza”» ed ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere.

Ciò premesso, il giudice a quo osserva che la procedura prevista dall’art. 449 cod. proc. pen. presenta una “evidente anomalia” in ordine alla diversa disciplina predisposta con riferimento alla situazione processuale di cui ai commi 1 e 2 e a quella di cui al comma 4.

Infatti, se la convalida dell’arresto è demandata allo stesso giudice del dibattimento (art. 449, comma 1, cod. proc. pen.), la mancata convalida comporta la restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 449, comma 2, cod. proc. pen.), perché proceda nelle forme ordinarie; invece, se il giudice per le indagini preliminari ha convalidato l’arresto e il pubblico ministero presenta l’imputato al giudice perché proceda a giudizio direttissimo (art. 449, comma 4, cod. proc. pen), la dizione della norma parrebbe imporre la celebrazione del detto giudizio.

Ad avviso del giudice a quo, dunque, la disposizione censurata è affetta da una «contraddizione logica non sostenibile» e viola l’art. 24 Cost. in quanto, se la flagranza è inesistente, non prevedendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, priva l’imputato del diritto di vedere accertata la propria responsabilità con regolari indagini preliminari e, se previsto, con il vaglio dell’udienza preliminare.

Il rimettente afferma, poi, che la fase dibattimentale «per effetto di apparente e fallace rappresentazione della flagranza di reato, risulta incomprensibilmente espropriata della funzione di accertare, con la rapidità connaturata al rito direttissimo, fatti che, in realtà possono comportare defatiganti istruzioni dibattimentali».

A tal proposito, il giudice a quo pone in evidenza che la recente innovazione legislativa, introdotta con il decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica) convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008 n. 125, che ha reso obbligatoria tale forma di giudizio, «con le ricadute che ciò comporta in termini di carico di lavoro, non pare possa relegare il tribunale a spettatore inerte di flagranze inesistenti».

Il rimettente non ignora, poi, che il controllo sulla legittimità della convalida dell’arresto è demandato alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 391, comma 4, cod. proc. pen., ma osserva come il mancato esperimento del relativo ricorso, che può verificarsi per molteplici motivi, non equivalga a dare all’arresto stesso il suggello della legalità.

Ad avviso del giudicante, inoltre, la norma censurata viola l’art. 111 Cost., in quanto non consente al giudice del dibattimento di sindacare incidenter tantum la convalida già effettuata dal giudice per le indagini preliminari, al fine di stabilire se il giudizio direttissimo sia stato ritualmente instaurato; in tal modo sarebbe impedita la celebrazione di un processo equo.

In punto di rilevanza il giudice a quo pone in evidenza che il giudizio in corso deve proseguire, nonostante sussista il dedotto vulnus difensivo perché, in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, non sussiste una causa di nullità della citazione per direttissima, essendo la stessa «blindata da una formale intervenuta convalida, ancorché non motivata, dell’arresto in flagranza di reato».

2. — La questione non è fondata.

L’art. 449, comma 4, cod. proc. pen. dispone che il pubblico ministero, quando l’arresto in flagranza è stato già convalidato, procede a giudizio direttissimo presentando l’imputato in udienza non oltre il trentesimo giorno dall’arresto stesso, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini.

La norma non prevede la possibilità di restituire gli atti al pubblico ministero perché proceda nelle forme ordinarie, nell’ipotesi in cui il giudice del rito direttissimo ritenga inesistente lo stato di flagranza e/o di quasi flagranza, già oggetto di valutazione da parte del giudice per le indagini preliminari.

La restituzione degli atti all’organo inquirente, in caso di arresto non convalidato è, invece, prevista in relazione alla fattispecie disciplinata dai commi 1 e 2 della disposizione censurata; nell’ipotesi, cioè, in cui una persona sia stata arrestata in flagranza di reato ed il pubblico ministero l’abbia presentata direttamente in stato di arresto davanti al giudice del dibattimento, per la convalida e il contestuale giudizio direttissimo, entro quarantotto ore dall’arresto.

Ciò premesso, si deve osservare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (ex plurimis: sentenze n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 379 del 2005; ordinanze n. 134 del 2009 e n. 67 del 2007).

Nel caso in esame deve escludersi che la disposizione censurata sia frutto di una scelta (manifestamente) irragionevole del legislatore, in quanto la differente disciplina, predisposta in relazione alle fattispecie indicate, si inserisce, in modo coerente, nel sistema processuale e, inoltre, trova adeguata tutela nella possibilità di esperire il ricorso per cassazione previsto dall’art. 391, comma 4, cod. proc. pen.

La convalida dell’arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria è oggetto di un autonomo procedimento disciplinato dall’art. 391 cod. proc. pen., applicabile, in quanto compatibile, anche al giudizio di convalida innanzi al giudice del rito direttissimo, stante il rinvio esplicito operato dall’art. 449, comma 1, cod. proc. pen.

Tale normativa è diretta a verificare, nel contraddittorio delle parti e alla presenza di un giudice terzo, se la privazione della libertà dell’arrestato sia avvenuta nel rispetto dei presupposti di legge. Il controllo sulla legittimità dell’arresto, quindi, a seconda della situazione processuale, è riservato allo stesso giudice del dibattimento o al giudice per le indagini preliminari.

In tal senso si spiega la diversità di regime processuale prevista dall’art. 449 cod. proc. pen.

Nel primo caso, versandosi nell’ipotesi in cui l’imputato, arrestato nella flagranza di reato, è presentato direttamente al giudice che celebrerà il dibattimento nelle forme del rito direttissimo, il controllo sulla legittimità dell’arresto è riservato al medesimo giudice.

Se, invece, il pubblico ministero procede al giudizio direttissimo, presentando l’imputato in udienza non oltre il trentesimo giorno dall’arresto, la legittimità di questo deve già essere stata valutata da un giudice, nella specie dal giudice per le indagini preliminari. Ai sensi dell’art. 390 cod. proc. pen., infatti, l’organo inquirente deve richiedere al detto giudice la convalida entro quarantotto ore dall’arresto e quest’ultimo deve fissare l’udienza al più presto e, comunque, entro le quarantotto ore successive.

In tal caso il sindacato del giudice del dibattimento è limitato alla verifica della sussistenza dei presupposti di ammissibilità del rito speciale: il rispetto dei termini di presentazione dell’imputato e l’intervenuta convalida dell’arresto.

Da quanto esposto, discende che, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice del dibattimento è anche il giudice chiamato a convalidare l’arresto, la mancata convalida determina la trasmissione degli atti al pubblico ministero, essendo venuto meno uno dei presupposti di ammissibilità del rito (ad eccezione del caso in cui, nonostante la mancata convalida, il pubblico ministero e l’imputato consentano che si proceda con rito direttissimo).

Contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, dunque, deve escludersi che la procedura predisposta dall’art. 449, comma 4, cod. proc. pen. presenti una «evidente anomalia», dovendosi, piuttosto, ritenere che la scelta del legislatore, di demandare al rimedio impugnatorio del ricorso per cassazione il sindacato sul merito dell’ordinanza di convalida dell’arresto, sia in armonia con il quadro normativo sopra tratteggiato e con l’art. 111, settimo comma, Cost. nella parte in cui prevede che avverso i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso per cassazione.

In questo quadro le argomentazioni del rimettente, in ordine all’asserita violazione degli artt. 24 e 111 Cost., da parte della disposizione censurata non sono condivisibili.

L’assetto processuale predisposto dall’art. 449 cod. proc. pen. non comporta la violazione del diritto di difesa dell’imputato, non potendo tale vulnus consistere – come ritiene il rimettente – nella privazione del diritto per l’imputato «di vedere accertata la propria responsabilità con regolari indagini e, occorrendo, con il vaglio dell’udienza preliminare, che, quindi, gli sarebbe arbitrariamente sottratta».

Al riguardo la Corte costituzionale ha affermato, seppure con riferimento al giudizio direttissimo disciplinato dal codice di rito del 1930, il principio per cui «la mancanza della fase istruttoria – che caratterizza il giudizio direttissimo nel suo complesso, sia esso tipico o atipico, facoltativo o obbligatorio – non confligge con il diritto di difesa, atteso che non sussiste un interesse dell’imputato, costituzionalmente protetto, a che il riconoscimento della sua innocenza avvenga in una fase anteriore al dibattimento» (sentenza n. 164 del 1983).

Inoltre, la Corte ha statuito che «il fatto che il diritto di difesa è garantito dall’art. 24, secondo comma, della Costituzione “in ogni stato” del procedimento non significa che la Costituzione imponga che il procedimento conosca necessariamente “più stati”, ma solo che, quando più fasi processuali siano stabilite dalla legge, non ve ne sia alcuna nella quale la difesa sia preclusa» (sentenza n. 172 del 1972).

Da dette pronunzie, i cui princìpi ben si attagliano anche al vigente sistema processuale penale, è possibile trarre una regola di carattere generale, applicabile anche all’attuale giudizio direttissimo, caratterizzato dall’assenza della fase delle indagini preliminari.

Invero, nella pronunzia n. 164 del 1983 la Corte ha affermato un indirizzo poi sempre ribadito, cioè che in ogni caso, «la scelta della struttura del processo si risolve comunque in un problema di scelta legislativa, come tale rimesso al legislatore ordinario, il quale può razionalmente prescindere dallo schema tradizionale sulla base di specifiche valutazioni di politica criminale, senza che ciò incida affatto sul diritto di difesa che ben potrà essere esercitato nel dibattimento in tutta la sua pienezza».

Anche la doglianza sollevata con riferimento alla violazione dell’articolo 111 Cost., infine, non è fondata in quanto, alla luce delle argomentazioni esposte, la disposizione censurata non reca alcun vulnus al principio del giusto processo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 449, comma 4, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Taranto, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 230

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 140, comma 4, primo periodo, del decreto legislativo 7 settembre 2005 n. 209 (Codice delle assicurazioni private) promosso dal Tribunale di Catania nel procedimento vertente tra S. S. ed altre, e P. I. ed altre, con ordinanza del 23 settembre 2009 iscritta al n. 329 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Catania, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 140, comma 4, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), in riferimento agli articoli 3, 24, 76 e 111, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede un'ipotesi di litisconsorzio necessario, ai sensi dell’art. 102 del codice di procedura civile, nei giudizi promossi fra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate.

2. — Il rimettente premette che il giudizio principale è stato promosso, ai sensi dell’art. 144 del d.lgs. n. 209 del 2005, da S. S. e L. S., quali genitori del defunto S. A., per ottenere il risarcimento dei danni da sinistro stradale avvenuto il 31 luglio 2006, nel quale erano rimasti coinvolti quattro autoveicoli, con un bilancio, oltre ai danni ai mezzi, di un morto, cinque feriti ed altri danneggiati a vario titolo, di cui soltanto alcuni individuati.

In base alla prospettazione delle parti ed alle domande dalle stesse proposte, oggetto delle controversie sono pretese risarcitorie ben superiori ai limiti del massimale.

Il giudice a quo riferisce che la resistente società Duomo Unione Assicurazioni s.p.a. ha eccepito la mancata integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 140, comma 3 (recte: comma 4) sopra citato, in relazione alla domanda di provvisionale proposta nel giudizio, ai sensi dell’art. 5 della legge 21 febbraio 2006, n. 102 (Disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali), subordinata dagli istanti all’integrazione del contraddittorio da porre a carico della società assicuratrice.

Richiamato il disposto della norma censurata, che prevede un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei giudizi promossi fra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate, il rimettente ritiene rilevante la questione nel giudizio a quo, osservando (e trascrivendo, in merito, le motivazioni della ordinanza del Tribunale di Nola in data 15 novembre 2008), che l’applicazione della norma censurata imporrebbe di ordinare, ai sensi dell’art. 102 cod. proc. civ., l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i danneggiati non chiamati in causa, già noti o ancora da identificare, ricorrendo un’ipotesi di illecito da circolazione stradale ad offensività multipla, sicché il giudizio non potrebbe proseguire tra i soli soggetti inizialmente in lite. Nel caso di specie, parti del giudizio principale sono, esclusivamente, i genitori del deceduto, la fidanzata dello stesso, intervenuta successivamente, i pro prietari di due dei quattro veicoli coinvolti nel sinistro e l’assicuratore di uno di questi ultimi.

Pertanto, ad avviso del rimettente, la causa non potrebbe essere correttamente istruita e decisa, prescindendo dalla verifica sulla legittimità costituzionale della nuova ipotesi di litisconsorzio necessario, introdotta dalla disposizione in esame.

Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il giudicante pone in evidenza come lo scopo della norma censurata sia quello di assicurare il principio della par condicio dei creditori, garantendo, attraverso lo strumento processuale del litisconsorzio necessario, la corretta distribuzione tra i creditori stessi del massimale eventualmente incapiente. Il corollario di tale opzione normativa è individuato dal rimettente nella sostanziale imposizione a ciascun danneggiato della necessaria proposizione delle rispettive richieste di danno nell’unico processo – a litisconsorzio necessario – previamente promosso dal più solerte di essi. Infatti, soltanto delibando in ordine all’entità di tutti i risarcimenti, il giudice sarebbe messo nelle condizioni di potere distribuire proporzionalmente il massimale tra i creditori.

La disposizione in esame, ad avviso del tribunale, si porrebbe in contrasto con l’art. 76 Cost. per mancata copertura della legge delega. Invero, si tratterebbe di una disposizione processuale, introdotta dal legislatore per ragioni di opportunità, senza che essa trovi aggancio in alcuno dei princìpi e/o criteri direttivi dettati dal legislatore delegante (art. 4 della legge 21 luglio 2003, n. 229 recante «Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. – Legge di semplificazione 2001»), per «il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni».

Dopo aver richiamato le finalità previste dalla legge delega, il rimettente osserva che non sarebbe dato rinvenire in esse «alcun chiaro principio dettato dal legislatore delegante che abbia potuto giustificare la norma in esame, fondandola validamente ex art. 76 Cost.».

Il giudice a quo rileva, al riguardo, che la modifica di norme in vigore mediante la normativa delegata, in assenza di criteri direttivi analitici poteva comunque essere considerata ammissibile, ove utile per l’armonico coordinamento del sistema normativo innovato, allo scopo di garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa, ovvero quando fossero stati osservati i principi guida della legislazione anteriore e «l’obiettivo fosse di ricondurre a sistema una disciplina stratificata negli anni» sicché, in tal caso, «non sarebbe stato necessario che fosse espressamente enunciato nella legge delega il principio già presente nell’ordinamento, essendo sufficiente il criterio del riordino di una materia delimitata (Corte cost., n. 52 del 28.1.2005; Corte cost., n. 174 del 4.5.2005».

Tuttavia, pur volendo valorizzare tali criteri interpretativi, ad avviso del tribunale persisterebbero i dubbi di legittimità costituzionale circa la disposizione in esame.

In particolare, il rimettente ritiene che il nuovo istituto processuale non risponda ad «alcuna logica interna al sistema risarcitorio delle assicurazioni per r.c.a., né appare completare, sul versante processuale, una regolamentazione sostanziale avente una ratio corrispondente».

Si tratterebbe di una opzione normativa slegata dal sistema, essendo uno strumento sconosciuto nella legislazione anteriore (legge 24 dicembre 1969, n. 990 recante disposizioni in materia di «Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti»), nonché negli orientamenti giurisprudenziali formatisi sul tema nei casi di pluralità di danneggiati (la soluzione affermatasi nella giurisprudenza di merito, prima della introduzione del litisconsorzio necessario, sarebbe stata quella di una possibile chiamata in causa iussu iudicis, ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ., dei terzi danneggiati, nel caso di pericolo di esubero del massimale, previa valutazione da parte del giudice istruttore del caso singolo).

L’istituto del litisconsorzio necessario, lungi dal «ricomporre a sistema» e “armonizzare” il tessuto normativo nel settore della responsabilità civile da sinistri stradali, sarebbe foriero di «gravi profili di disarmonia e antinomia legislativa», integrando una innovazione idonea a «complicare e confondere il sistema processuale».

Innanzitutto, il litisconsorzio necessario sarebbe stato previsto dal legislatore, con riferimento non già a situazioni giuridiche insuscettibili, per loro intrinseca natura o struttura, di definizione separata, bensì con riguardo ad azioni che, per diversità di petitum, causa petendi e soggetti, potevano essere decise separatamente.

Inoltre, sarebbe evidente la incongruenza sistematica della scelta legislativa in esame anche nella sua applicazione pratica (ad esempio, nel caso di azione congiunta ai sensi dell’art. 102 cod. proc. civ. tra più danneggiati, alcuni dei quali già soddisfatti delle loro ragioni al di fuori e prima della lite).

Il rimettente avanza poi dubbi in ordine alle conseguenze della eventuale mancata costituzione di taluno dei danneggiati chiamati in giudizio ai sensi dell’art. 102 cod. proc. civ. Infatti, stante la diversità dei singoli crediti risarcitori, la mancata costituzione in giudizio di taluno dei creditori influirebbe sulla effettiva conoscenza della causa da parte del giudice, con il conseguente problema della efficacia o meno della sentenza nei confronti del danneggiato litisconsorte rimasto contumace, della possibilità per questi di fare valere le proprie ragioni in un successivo giudizio e dell’obbligo o meno del giudice di dichiarare la non spettanza del diritto al risarcimento in capo al creditore inerte.

Il giudice a quo richiama, in merito, quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 340 del 2007 secondo cui, sebbene tra i princìpi applicabili in sede di scrutinio della legittimità costituzionale di norme di decreti legislativi, sotto il profilo della loro conformità alla legge di delegazione, vi sia anche quello del cosiddetto potere di riempimento del legislatore delegato, «per quanto ampio possa essere quest’ultimo, non può mai assurgere a principio o criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, qual è, per definizione, la legislazione su delega».

Il Tribunale sospetta la violazione dell’art. 76 Cost. anche sotto il profilo della asserita incidenza della disposizione in esame sui riti processuali. Invero, sarebbe stato previsto un litisconsorzio necessario con riferimento a domande risarcitorie potenzialmente suscettibili di essere trattate con riti diversi (i giudizi risarcitori per danni alla persona, secondo le forme del rito del lavoro, a norma dell’art. 2 [rectius: art. 3] della legge n. 102 del 2006, mentre quelli per danni a cosa con il rito ordinario), con conseguente mutamento della disciplina processuale dell’azione (di uno dei danneggiati) attratta al rito diverso. Il rimettente segnala come le ricadute dell’art. 140, ultimo comma, sui riti siano al di fuori della delega e richiama, al riguardo, la sentenza della Corte n. 71 del 2008, recante declaratoria di illegittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2003, in quant o «tale disposizione esorbita(va) dalla delega nel cui dettato, non trova(va) fondamento».

La violazione dell’art. 76 Cost. si ravviserebbe anche sotto il profilo di una possibile incidenza della normativa in esame sui criteri di competenza, senza che sussista una idonea copertura della legge delega. Infatti, ciascun danneggiato per importi rientranti nei limiti della competenza del giudice di pace – nonostante l’art. 7, comma 2, cod. proc. civ. – potrebbe essere chiamato in causa davanti al tribunale da parte di altro danneggiato che abbia preventivamente adito l’ufficio giudiziario di competenza superiore per un suo più considerevole danno, con conseguente elusione delle norme processuali sulla competenza.

Il rimettente lamenta anche la violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza della norma censurata, in quanto il legislatore avrebbe previsto l’istituto del litisconsorzio necessario senza alcuna deroga alla generalità dell’imposizione (ad esempio, nel caso in cui non si profili un pericolo di superamento del massimale, ovvero tale pericolo non sia stato allegato o eccepito da alcuna parte in causa; nel caso di danneggiati che siano stati già eventualmente ristorati prima del giudizio dalla compagnia assicurativa convenuta), imponendo all’attore oneri di evocazione in giudizio o integrazione del contraddittorio anche quando le finalità per le quali il litisconsorzio è posto non sussistano in radice.

È dedotto, altresì, il contrasto della disposizione in esame con l’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto l’istituto del litisconsorzio necessario contrasterebbe con le ragioni di una sollecita definizione del giudizio risarcitorio e dunque con una “ragionevole durata del processo”.

Infatti, ancorché l’attore sia stato diligente nelle ricerche degli altri danneggiati, la eventuale pretermissione di alcuno di essi comporta, nell’ipotesi di causa decisa in più gradi di giudizio, la rimessione al giudice di prime cure, ai sensi degli artt. 354, primo comma, e 383, ultimo comma, cod. proc. civ. (Cass. sentenza n. 10034 del 2004).

Il rimettente sottolinea come il legislatore abbia considerato la difficoltà di identificazione di tutti i danneggiati prevedendo, ex art. 140, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005, che la compagnia assicuratrice, nella fase stragiudiziale, dopo avere diligentemente ricercato i danneggiati, possa soddisfare, per quanto di ragione, quelli individuati, rispondendo nei confronti di quelli che emergano successivamente, nei limiti del massimale residuato, fatto salvo il diritto di rivalsa di questi ultimi nei confronti di chi abbia, in precedenza, incassato di più di quanto gli fosse dovuto.

Una uguale considerazione di tali difficoltà non avrebbe avuto il legislatore sul versante processuale. Infatti, l’art. 140, ultimo comma, censurato, sarebbe stato formulato senza alcuna tutela dell’affidamento dell’attore, il quale potrebbe vedere invalidato l’intero giudizio ai sensi dell’art. 354 cod. proc. civ., nel caso di danneggiati pretermessi, nonostante la massima diligenza impiegata, al momento della proposizione dell’azione, nella individuazione dei titolari al risarcimento. Non sarebbe rispettoso del canone della ragionevole durata del processo neanche il fatto di costringere, in un unico giudizio, mediante litisconsorzio necessario, domande risarcitorie da proporre nei confronti di legittimati passivi diversi (ad esempio, nel caso di azione diretta, in forza dell’art. 149, codice delle assicurazioni, proposta dal danneggiato nei confronti della propria compagnia assicuratrice, ovvero di azione, ai sensi dell’art. 141 dello stesso codice, introdotta dal terzo trasportato nei confronti della compagnia di assicurazione del vettore).

Pertanto, ad avviso del rimettente, lo strumento del litisconsorzio necessario appesantirebbe e prolungherebbe, senza significative utilità, la trattazione di quasi tutti i giudizi da celebrarsi in tema di infortunistica con più danneggiati.

Il giudice a quo, nel richiamare alcuni passaggi dell’ordinanza del Tribunale di Avezzano del 14 ottobre 2008, sottolinea come l’art. 140, comma 4, in esame, violerebbe l’art. 111 Cost., anche per la necessità di assicurare i termini di comparizione per ogni litisconsorte pretermesso, oltre al rischio – già sopra evidenziato – della vanificazione di una complessa istruttoria, qualora venga riconosciuta l’esistenza di litisconsorti pretermessi.

Quanto alla assunta violazione dell’art. 24 Cost., il giudice a quo trascrive, facendole proprie, le argomentazioni della ordinanza del Tribunale di Avezzano.

Al riguardo, la disposizione censurata, nell’imporre il litisconsorzio necessario, aggraverebbe ingiustificatamente la posizione dell’attore, danneggiato diligente, tenuto ad attivarsi per individuare gli altri danneggiati da citare in giudizio o nei cui confronti estendere il contraddittorio (nell’ordinanza del Tribunale di Avezzano è prospettata, sotto questo profilo, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. congiuntamente). Infatti, se è vero che l’ordine di integrazione del contraddittorio grava su tutte le parti e, dunque, anche sul responsabile del danno e l’assicuratore, interessato ad attivarsi per individuare gli altri danneggiati sarebbe solo l’attore. La violazione dell’art. 102 cod. proc. civ. potrebbe essere rilevata in ogni stato e grado del processo, con conseguente rimessione della causa al primo giudice (artt. 354 e 383 cod. proc. civ.) nel caso di danneggiati pretermessi, sempre fatta salva l a possibile opposizione di terzo a norma dell’art. 404 cod. proc. civ. da parte di questi ultimi nell’ipotesi di decisione della causa, ad onta del contraddittorio, con sentenza passata in giudicato formale ai sensi dell’art. 324 cod. proc. civ.

Inoltre, la norma creerebbe delle inestricabili e prevedibili stasi processuali (ad esempio, nel caso di più danneggiati nel medesimo sinistro che, all’insaputa l’uno dell’altro, introducano altrettanti giudizi di risarcimento), come avvenuto nel caso di specie, essendo il giudice a quo chiamato a decidere sulla riunione al giudizio principale, già pendente dinanzi a sé, di quello successivamente introdotto da S. C., sorella del deceduto S. A.

In merito, il rimettente osserva che mentre, prima della riforma, operavano gli strumenti della connessione e della riunione in base all’art. 274 cod. proc. civ., con la introduzione dell’istituto del litisconsorzio necessario ciascuno dei giudici dovrebbe prima ordinare l’integrazione del contraddittorio – senza la quale qualsiasi sentenza sarebbe inutiliter data – e, quindi, provvedere sulla eventuale connessione o riunione.

Il giudice a quo sottolinea, richiamando alcune pronunzie della Corte di cassazione, la autonomia delle contestuali pronunce sulle cause riunite, sebbene formalmente contenute in un’unica sentenza, con conseguente impugnabilità di ognuna di esse con il mezzo che le è proprio.

Un ulteriore profilo dell’assunta violazione dell’art. 24 Cost. si coglie, ad avviso del rimettente, nel fatto che, qualora alcuni danneggiati (con danni alle cose) abbiano promosso il relativo giudizio dinanzi al giudice civile, il litisconsorzio necessario priverebbe la vittima del medesimo sinistro con lesioni personali della facoltà di scegliere di formulare la domanda dinanzi al giudice penale, al fine di sfruttare l’efficacia vincolante dell’accertamento contenuto nella sentenza penale.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Catania, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita, in riferimento agli articoli 3, 24, 76 e 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 140, comma 4, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), nella parte in cui prevede un’ipotesi di litisconsorzio necessario, ai sensi dell’art. 102 del codice di procedura civile, nei giudizi promossi fra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate.

Il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in una causa di risarcimento danni da sinistro stradale, nel quale sono rimasti coinvolti quattro autoveicoli e che ha provocato il decesso di una persona, nonché il ferimento di altre e danni ai mezzi.

Osserva che, nella specie, l’applicazione del disposto dell’art. 140, comma 4, del d.lgs. n. 209 del 2005, in base al quale fra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate sussiste litisconsorzio necessario, ai sensi dell’art. 102 cod. proc. civ., comporterebbe la integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i danneggiati non chiamati in causa già noti o ancora da identificare, trattandosi di un sinistro ad offensività multipla con superamento del massimale e non potendo il giudizio proseguire tra i soli soggetti inizialmente in lite.

Ad avviso del giudice a quo, la previsione di un litisconsorzio necessario, senza alcuna deroga rispetto ad ipotesi assolutamente diverse, aggrava oltre ogni ragionevole misura la posizione dei danneggiati diligenti e, dunque, si pone in contrasto col principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), col diritto di agire in giudizio (art. 24, primo comma, Cost.) e col principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.).

Egli ritiene sussistente, inoltre, la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto la nuova ipotesi di litisconsorzio necessario, introdotta dalla disposizione censurata, non troverebbe aggancio in alcuno dei «principi e/o criteri direttivi» dettati dal legislatore delegante per «il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni», e inciderebbe, peraltro al di fuori della delega, sui riti e sui criteri di competenza con elusione delle norme processuali in materia.

Il rimettente, infine, motiva in modo plausibile sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza.

2. — La questione di legittimità costituzionale è inammissibile con riferimento agli articoli 3, 24 e 111, secondo comma, Cost. e non fondata in relazione all’art. 76 Cost.

3. — In ordine alla dedotta violazione del principio di ragionevolezza, del diritto di agire in giudizio e del principio di ragionevole durata del processo, con sentenza n. 329 del 2009 questa Corte ha già dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 140, comma 4, del d.lgs. n. 209 del 2005, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost.

Considerata la sostanziale identità delle censure mosse con l’ordinanza in epigrafe nel quadro dei parametri ora citati, devono essere ribadite le argomentazioni poste a fondamento della suddetta pronuncia e che qui si riassumono.

Il citato art. 140, comma 4, prevede che «Nei giudizi promossi fra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate sussiste litisconsorzio necessario, applicandosi l’art. 102 del codice di procedura civile». Il secondo periodo dello stesso comma aggiunge che «L’impresa di assicurazione può effettuare il deposito di una somma, nei limiti del massimale, con effetto liberatorio nei confronti di tutte le persone aventi diritto al risarcimento, se il deposito è irrevocabile e vincolato a favore di tutti i danneggiati».

Nella menzionata sentenza questa Corte ha sottolineato che la norma, sotto la rubrica «Pluralità di danneggiati e supero del massimale», è diretta a disciplinare il concorso di più danneggiati nello stesso sinistro, regolando i rapporti fra i creditori e l’impresa di assicurazione.

In particolare, l’art. 140, comma 1, del medesimo d.lgs. prevede, in ossequio al principio della parità tra i creditori, la proporzionale riduzione dei diritti dei danneggiati creditori fino alla concorrenza delle somme disponibili, mentre i commi 2 e 3 disciplinano, rispettivamente, i pagamenti eseguiti dall’impresa assicuratrice ad alcune delle persone danneggiate, in eccesso rispetto alla quota loro dovuta, ed i diritti spettanti agli altri danneggiati il cui credito sia rimasto insoddisfatto.

La disposizione riproduce, con alcune modifiche, l’art. 27 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), ispirandosi al medesimo principio della parità dei creditori nella distribuzione del massimale, eventualmente incapiente.

Il Consiglio di Stato, nell’esprimere il parere sullo schema di d.lgs. recante il codice delle assicurazioni (parere n. 11603 adunanza del 14 febbraio 2005), «rappresentò l’esigenza, recepita dal legislatore in sede di esercizio della delega, che fosse introdotta una fattispecie di litisconsorzio necessario, perché la decisione delle controversie rientranti nell’ambito applicativo della norma de qua doveva essere emessa nei confronti di più parti. In caso contrario, infatti, la sentenza resa tra l’assicuratore ed uno o alcuni soltanto dei danneggiati avrebbe vanificato il principio di parità tra i creditori. La necessità del litisconsorzio nelle controversie di cui si tratta, dunque, nasce dal detto principio, che comporta un rapporto di dipendenza tra le posizioni dei creditori, già idoneo a rendere non palesemente irragionevole la norma censurata, che si colloca nel quadro dei rapporti tra impresa assicu ratrice e pluralità di soggetti danneggiati a causa del medesimo sinistro. Ciò emerge anche dalla possibilità, prevista nella medesima norma, che l’impresa di assicurazione effettui il deposito di una somma, nei limiti del massimale, con effetto liberatorio nei confronti di tutte le persone aventi diritto al risarcimento, se il deposito è irrevocabile e vincolato a favore di tutti i danneggiati».

In ordine all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la Corte costituzionale ha richiamato la propria costante giurisprudenza, secondo cui al legislatore spetta un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute, nella specie non ravvisabile per le considerazioni svolte circa la ratio che ha ispirato la previsione del litisconsorzio necessario (ex plurimis, sentenze n. 221 del 2008, n.237 del 2007, ordinanza n. 405 del 2007).

In secondo luogo, essa ha rilevato «che i casi di litisconsorzio necessario, in quanto incidenti sulla libertà di agire in giudizio, devono formare oggetto d’interpretazione restrittiva».

In linea con tale insegnamento, la giurisprudenza di legittimità ha proposto un’interpretazione idonea a circoscrivere l’ambito applicativo della norma censurata, affermando la necessità del litisconsorzio esclusivamente se l’assicurazione, di fronte alle richieste di più danneggiati, formuli domanda volta ad ottenere l’accertamento nei confronti di tutti del massimale; o se uno dei danneggiati vistosi contestare l’esistenza del massimale e ritenuto che il diritto degli altri danneggiati o non sussista o sussista in misura minore, chieda l’accertamento o della non sussistenza o delle rispettive quote (Cass., ordinanza n. 1862 del 2009).

Pertanto, nella citata pronuncia, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questa Corte ha dichiarato l’inammissibilità della questione per avere il rimettente trascurato di sperimentare la possibilità di dare al testo legislativo censurato un’interpretazione costituzionalmente orientata e di spiegare le ragioni che impediscono di pervenire ad un risultato idoneo a superare i dubbi di costituzionalità (ex plurimis, ordinanze n. 257 del 2009, n. 341, n. 268, n. 226 e n. 193 del 2008).

Da ultimo, la Corte costituzionale ha sottolineato che le lamentate difficoltà di individuazione dei danneggiati (specie nelle ipotesi di incidenti catastrofici), indipendentemente dal carattere meramente ipotetico di parte di esse, non discendono in via diretta ed immediata dalla disposizione legislativa censurata, ma derivano dalle situazioni di fatto che possono di volta in volta verificarsi. Ed è orientamento consolidato della Corte che «gli inconvenienti di fatto, scaturenti dall'applicazione delle norme censurate, sono estranei al controllo di costituzionalità (ex plurimis, sentenza n. 86 del 2008, ordinanze n. 427 e n. 385 del 2008 e n. 376 del 2007)».

Tale principio deve trovare conferma anche in casi come quello in esame, nel quale l’evento, che registra la presenza di più persone danneggiate nello stesso sinistro, «non costituisce una categoria unitaria compiutamente definibile in via generale, ma si riferisce ad un’ampia gamma di situazioni, che oscillano tra gli incidenti in cui restano coinvolti pochi veicoli ed un ridotto numero di persone, nei quali le difficoltà allegate dal rimettente non sussistono e quelli classificabili come catastrofici, in cui le difficoltà d’individuare tutti i danneggiati possono verificarsi (ancorché non necessariamente). Peraltro, anche la fattispecie degli incidenti catastrofici (certamente la meno frequente) non si presta ad essere identificata con precisione, ma postula un’indagine di fatto da compiere con specifico riferimento ai casi concreti» (sentenza n. 329 del 2009, punto 4 del Considerato in diritto).

4. — Il rimettente muove all’art. 140, comma 4, del d.lgs. n. 209 del 2005 una censura ulteriore per eccesso di delega, in quanto egli ritiene che la nuova ipotesi di litisconsorzio necessario introdotta dalla norma censurata non trovi aggancio in alcuno dei principi o criteri direttivi dettati dal legislatore delegante per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni (art. 4, legge n. 229 del 2003).

In particolare, si tratterebbe di una opzione normativa del tutto slegata dal sistema, in quanto sconosciuta nella legislazione anteriore (legge n. 990 del 1969) e negli orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema nei casi di pluralità di danneggiati. Inoltre, l’istituto del litisconsorzio necessario, lungi dal «ricomporre a sistema» la materia della responsabilità civile da sinistri stradali, sarebbe foriero di «gravi profili di disarmonia e antinomia legislativa» nonché di «complicazione dello stesso sistema processuale». La previsione di tale strumento processuale, inciderebbe, poi, del tutto al di fuori della delega, sui riti e sui criteri di competenza con elusione delle norme processuali in materia.

4.1. — La questione, sotto questo profilo, non è fondata.

4.2. — Si deve osservare che, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno relativo alla disposizione che determina l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi della delega; l’altro relativo alla norma delegata da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi (tra le più recenti, sentenze n. 98 del 2008; n. 340 e n. 170 del 2007).

Relativamente al primo di essi, il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge-delega ed i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima (sentenze n. 341 del 2007; n 426 e n. 285 del 2006).

I princìpi posti dal legislatore delegante costituiscono, poi, non soltanto base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l'interpretazione della loro portata; e tali disposizioni devono essere lette, fintanto che sia possibile, nel significato compatibile con detti princìpi (sentenze n. 98 del 2008, n. 340 e n. 170 del 2007), i quali, a loro volta, vanno interpretati alla luce della ratio della legge delega (sentenze n. 413 del 2002, n. 307 del 2002; n. 290 del 2001).

Relativamente al secondo dei suindicati processi ermeneutici, va confermato l’orientamento di questa Corte, secondo il quale la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega (ordinanze n. 213 del 2005 e n. 490 del 2000). Pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali – più o meno ampi – margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (sentenza n. 199 del 2003). L’art. 76 Cost. non osta, infatti, all’emanazione di norme che rappresentino un ordinario sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsio ni stabilite dal primo; dunque, nell’attuazione della delega è possibile valutare le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (sentenze n. 199 del 2003, n. 163 del 2000, ordinanza n. 213 del 2005).

4.3. — Posti siffatti princìpi, occorre osservare che, in forza dell’art. 4, legge n. 229 del 2003, il Governo era stato delegato ad adottare «uno o più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni, ai sensi e secondo i princìpi e i criteri direttivi di cui all’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59», come sostituito dall’art. 1 della medesima legge delega e nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi enunciati nello stesso art. 4.

Tra i criteri direttivi, cui quest’ultimo (comma 1) rinvia in modo espresso, assume rilievo quello previsto dal citato art. 20, comma 3, lettera a) della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge n. 229 del 2003. In base a tale norma, nell’esercizio della delega il legislatore delegato si attiene (tra gli altri) al seguente principio e criterio direttivo: «definizione del riassetto normativo e codificazione della normativa primaria regolante la materia, previa acquisizione del parere del Consiglio di Stato, reso nel termine di novanta giorni dal ricevimento della richiesta, con determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente».

Orbene, nell’ambito del criterio costituito dalla «definizione del riassetto normativo e codificazione della normativa primaria regolante la materia» rientra l’obiettivo di ricondurre a sistema la disciplina del settore, introducendo disposizioni di carattere sostanziale e processuale che, per quanto non formino oggetto di espressa previsione nella normativa delegante, siano però coerenti con la ratio della delega e di essa costituiscano sviluppo.

Questa Corte ha affermato che «se l’obiettivo è quello della coerenza logica e sistematica della normativa, il coordinamento non può essere solo formale. Inoltre, se l’obiettivo è quello di ricondurre a sistema una disciplina stratificata negli anni, con la conseguenza che i principi sono quelli già posti dal legislatore, non è necessario che sia espressamente enunciato nella delega il principio già presente nell’ordinamento, essendo sufficiente il criterio del riordino di una materia delimitata» (sentenza n. 52 del 2005).

La previsione, ai sensi del censurato art. 140, comma 4, dell’istituto del litisconsorzio necessario tra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate, costituisce, per quanto chiarito sopra, il mezzo per garantire, sul piano processuale, il principio della parità tra i creditori nella distribuzione del massimale. Tale principio concreta la ratio sottesa al citato art. 140, nonché al previgente art. 27 della legge n. 990 del 1969. Del resto, il concetto del litisconsorzio necessario non era sconosciuto a detta legge, in quanto l’art. 23 di essa stabiliva che «Nel giudizio promosso contro l’assicuratore, a norma dell’art. 18, comma primo, deve essere chiamato nel processo anche il responsabile del danno».

Pertanto l’istituto contemplato dalla norma in questione completa sul versante processuale una regolamentazione sostanziale avente una ratio coerente con quello strumento e rappresenta, entro i limiti del criterio del riordino delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni, l’innovazione necessaria per garantire l’uniformità giuridica e sistematica della medesima normativa.

Da quanto esposto consegue che, salvi i principi e i criteri direttivi di merito specifici per ciascuna materia delegata, l’intervento del legislatore delegato risulta conforme al criterio direttivo suddetto, nel quadro degli orientamenti della giurisprudenza prima richiamati.

Se, dunque, la previsione del menzionato strumento risulta conforme ai principi e criteri direttivi di cui sopra, le ulteriori doglianze mosse dal rimettente in ordine a talune «incongruenze sistematiche» e «complicanze del sistema processuale» esulano dal supposto vizio di eccesso di delega, rappresentando solo delle possibili conseguenze processuali della concreta applicazione dell’istituto, da superare per via ermeneutica.

Ulteriore argomento posto dal rimettente a fondamento della censura, in riferimento all’art. 76 Cost., è costituito dalla assunta incidenza della disposizione normativa in esame sui riti (in quanto, nel caso di più domande risarcitorie trattate con riti diversi, verrebbe mutata, a seguito del litisconsorzio necessario, la disciplina processuale dell’azione di uno dei danneggiati, attratta ad uno dei due riti) nonché sui criteri di competenza (poiché una tale disciplina consentirebbe di eludere le norme processuali sulla competenza), senza che ciò sia previsto dai criteri direttivi della legge delega.

Tuttavia, il litisconsorzio necessario non pone un problema di incidenza sui riti o sui criteri di competenza, dovendo la decisione essere pronunciata per legge nei confronti di più parti. Infatti, in detta ipotesi, originata da una inscindibilità del rapporto giuridico dedotto in giudizio o da una dipendenza di diverse posizioni giuridiche (nel caso di specie, dal rapporto tra le posizioni dei danneggiati, in ossequio al principio di parità dei creditori), la pronuncia è unica nei confronti di tutte le parti e la competenza è governata dai criteri ordinari, avuto riguardo alle ragioni che determinano la necessità del litisconsorzio.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 140, comma 4, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Catania con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo 140, comma 4, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, sollevata, in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, dal Tribunale di Catania con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 231

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 20 della legge della Regione Toscana 21 novembre 2008, n. 62 (Legge di manutenzione dell’ordinamento regionale 2008), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27-30 gennaio 2009, depositato in cancelleria il 2 febbraio 2009 ed iscritto al n. 7 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;

udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto che con ricorso del 27 gennaio 2009, iscritto al n. 7 del registro ricorsi dell’anno 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato in via principale, tra l’altro, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 20 della legge della Regione Toscana 21 novembre 2008, n. 62 (Legge di manutenzione dell’ordinamento regionale 2008);

che l’impugnato art. 20 inserisce l’inciso «ovvero nei comuni montani o parzialmente montani ai sensi della normativa statale e regionale» nell’articolo 17, comma 2, della legge regionale 25 febbraio 2000, n. 16 (Riordino in materia di igiene e sanità pubblica, veterinaria, igiene degli alimenti, medicina legale e farmaceutica), come sostituito dall’articolo 5 della legge regionale 28 giugno 2007, n. 36 (Modifiche alla legge regionale 25 febbraio 2000, n. 16 recante Riordino in materia di igiene e sanità pubblica, veterinaria, igiene degli alimenti, medicina legale e farmaceutica), consentendo così l’istituzione delle proiezioni delle sedi farmaceutiche, già prevista per i soli comuni con popolazione sino a dodicimilacinquecento abitanti, in tutti i comuni classificati come montani o parzialmente montani;

che per il Presidente del Consiglio dei ministri tale disposizione sarebbe in contrasto con il criterio fissato dal legislatore statale per la pianificazione territoriale dell’assistenza farmaceutica;

che il ricorrente ricorda come «[i]n base all’art. 1 della L. n. 475/1968 ed all’art. 104 del R.D. n. 1265 del 1934, al fine di assicurare l’omogenea distribuzione delle farmacie su tutto il territorio nazionale, la dislocazione territoriale degli esercizi farmaceutici viene effettuata, tenendo conto sia del criterio numerico della popolazione che di quello della distanza rispetto ad altri esercizi farmaceutici», e sostiene, in particolare, che «il carattere derogatorio della disposizione regionale impugnata rispetto alla disciplina dello Stato» sarebbe «confermato dal comma 9 dell’art. 17 della medesima legge regionale n. 16/2000, il quale tuttora prevede che nei Comuni con popolazione superiore ai 12.500 abitanti si debba ricorrere alla procedura ordinaria di decentramento delle farmacie di cui all’art. 5 della legge n. 362 del 1991, che fissa i principi statali inderogabili in questa materia concorrente concernente la tutela d ella salute»;

che per il ricorrente la prevista estensione dell’istituto della proiezione delle sedi farmaceutiche ad una serie di comuni con una popolazione superiore ai 12.500 abitanti si porrebbe, pertanto, in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., laddove consentirebbe una elusione dei principi generali previsti dalla legge statale di cui all’art. 5 della legge 8 novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore farmaceutico) per il decentramento delle farmacie;

che la Regione Toscana si è costituita con una memoria, nella quale sostiene la inammissibilità e l’infondatezza del ricorso, con riserva di deduzioni e deposito di documenti;

che, in prossimità dell’udienza pubblica del 23 febbraio 2010, la Regione Toscana ha depositato una memoria, nella quale argomenta la prospettata infondatezza del ricorso;

che per la difesa regionale la istituzione di proiezioni farmaceutiche non colliderebbe con la disciplina statale invocata dal ricorrente quale parametro interposto del giudizio, atteso che la proiezione non costituirebbe una nuova sede farmaceutica, ma sarebbe un ulteriore punto vendita di medicinali comuni e di pronto soccorso già confezionati dalla medesima sede farmaceutica e rappresenterebbe, pertanto, solo un un’estensione delle attività svolte nella farmacia di riferimento, finalizzata ad una più ampia e razionale copertura del servizio di assistenza farmaceutica;

che la proiezione farmaceutica, per la Regione Toscana, avrebbe, piuttosto, affinità con i dispensari farmaceutici annuali, previsti e consentiti dalla disciplina statale, dai quali, peraltro, si distinguerebbe in quanto la proiezione non incontra i limiti di orario e di prodotti vendibili propri dei dispensari e, diversamente da questi, prescinde dalla esistenza di una sede in pianta organica nella sede dove si intende aprire.

Considerato che, dopo la proposizione del ricorso, l’art. 17, comma 2, della legge regionale n. 16 del 2000 è stato interamente sostituto dall’art. 71 della legge regionale 14 dicembre 2009, n. 75 (Legge di manutenzione dell’ordinamento regionale 2009);

che il 1° marzo 2010 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato il verbale della riunione del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio 2010, contenente la rinuncia alla impugnazione proposta nel presente giudizio;

che l’atto di rinuncia è stato formalmente accettato dalla Regione Toscana con atto del 3 marzo 2010;

che, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dall’accettazione della controparte, comporta l’estinzione del processo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

SENTENZA N. 232

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 113, comma 2, della legge della Regione Liguria 2 gennaio 2007, n. 1 (Testo unico in materia di commercio), come sostituito dall’art. 27 della legge della Regione Liguria 3 aprile 2007, n. 14 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2007), promosso dal Giudice di pace di Genova nel procedimento vertente tra Coop. Liguria s.c.c. e il Comune di Genova con ordinanza del 24 aprile 2009, iscritta al n. 206 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di costituzione della Coop. Liguria s.c.c.;

udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Luigi Arnaboldi e Alessandro Ghibellini per la Coop. Liguria s.c.c.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio di opposizione ad ordinanza dirigenziale del Comune di Genova – contenente una ingiunzione di pagamento di sanzione amministrativa per avvenuto accertamento (in data 4 gennaio 2008) della effettuazione, da parte della società cooperativa opponente presso un proprio ipermercato, di una vendita promozionale in periodo vietato – il Giudice di pace di Genova, con ordinanza emessa il 24 aprile 2009, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 113, comma 2, della legge della Regione Liguria 2 gennaio 2007, n. 1 (Testo unico in materia di commercio), come sostituito dall’art. 27 della legge della Regione Liguria 3 aprile 2007, n. 14 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2007).

Premesso che la vendita sanzionata «riguardava, oltre prodotti tessili per la casa, prodotti multimediali, articoli da cucina e pneumatici di ogni genere», il rimettente rileva che le vendite promozionali sono previste allo scopo di garantire un regime di libera concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e un regolare funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di acquisto di prodotti e di servizi.

Orbene, il Giudice di pace osserva che la norma regionale censurata – nel sancire che «Non possono essere effettuate vendite promozionali nei quaranta giorni antecedenti le vendite di fine stagione o saldi» – pone una disciplina difforme da quella nazionale, prevedendo restrizioni specifiche all’effettuazione di vendite promozionali, in contrasto con quanto dettato dall’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, che ha stabilito l’eliminazione delle limitazioni temporali, quantitative e procedurali relative alle vendite promozionali. Sicché, l’unica limitazione possibile, secondo la disciplina nazionale, concerne la fissazione di un termine antecedente a quello di svolgimento delle vendite di fine stagione, durante il quale le vendite promozionali, aventi ad oggetto gli stessi prodotti destinati ad essere posti in saldo, non possono essere effettuate.

Il Giudice di pace ritiene, pertanto, che – non avendo la Regione Liguria tenuto conto delle modifiche apportate alla disciplina del commercio dalla legge statale e non essendosi adeguata ad esse – il predetto divieto assoluto di vendite promozionali, per qualunque prodotto nel periodo antecedente le vendite di fine stagione, si pone in contrasto con i richiamati parametri costituzionali, che attribuiscono alla competenza esclusiva dello Stato la tutela della concorrenza e quella dell’accessibilità all’acquisto dei prodotti di consumo sul territorio nazionale.

2. – Si è costituita la parte privata opponente nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte dal giudice rimettente (ulteriormente sviluppate anche nel contesto di una memoria illustrativa depositata nell’imminenza dell’udienza).

In particolare, in riferimento alla contestata violazione della competenza esclusiva dello Stato nelle materie di cui agli evocati parametri, la parte rileva come la censurata limitazione temporale delle vendite promozionali (che prescinde dalla categoria merceologica che ne costituisce oggetto) assuma notevole influenza sulla regolazione del mercato e sull’accesso a questo da parte dei consumatori, attesa la forte incidenza del relativo divieto tanto sull’andamento dei prezzi dei beni di consumo, quanto sulla disponibilità degli stessi sul mercato. Pertanto, limitare in modo così netto tali tipi di vendite (in maniera difforme da quanto previsto dalla normativa statale) significa imporre una restrizione all’iniziativa privata degli operatori commerciali, attraverso una scelta di politica legislativa che la Costituzione sottrae alle Regioni; ed in pari tempo significa pregiudicare la possibilità per i consumatori liguri di dis porre di un livello di condizioni di acquisto di prodotti e servizi coerente con il sistema commerciale nazionale.

Considerato in diritto

1. – Il rimettente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 113, comma 2, della legge della Regione Liguria 2 gennaio 2007, n. 1 (Testo unico in materia di commercio) – come sostituito dall’art. 27 della legge della Regione Liguria 3 aprile 2007, n. 14 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2007) – nella parte in cui prevede che «Non possono essere effettuate vendite promozionali nei quaranta giorni antecedenti le vendite di fine stagione o saldi».

La norma regionale (applicabile ratione temporis nel giudizio a quo) viene censurata nella parte in cui prevede una disciplina difforme da quella statale dettata dall’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, che ha stabilito la eliminazione delle limitazioni temporali, quantitative e procedurali relative alle vendite promozionali, con l’unica eccezione riferita ai periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti.

Secondo il giudice a quo, la disposizione contrasta: a) con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, poiché le vendite promozionali sono previste allo scopo di garantire un regime di libera concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e un regolare funzionamento del mercato; b) con l’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, perché le vendite promozionali sono previste al fine di assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di acquisto di prodotti e di servizi.

2. – La questione è fondata sotto il profilo della violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza».

2.1. – L’art. 113 della legge della Regione Liguria n. 1 del 2007 regolamenta lo svolgimento delle vendite promozionali in ámbito regionale. La norma – oltre a sancire (al comma 2) il divieto temporale oggetto del presente scrutinio di costituzionalità – prevede anche (al comma 1) che «Le vendite promozionali sono effettuate dall’esercente dettagliante per tutti o una parte dei prodotti merceologici non oggetto delle vendite di fine stagione o saldi e per periodi di tempo limitati e residuali rispetto a quelli di cui al comma 2»; e (al comma 3) che «L’esercente dettagliante che intende effettuare la vendita promozionale è tenuto a darne comunicazione, con avviso apposto nel locale di vendita ben visibile dall’esterno, almeno tre giorni prima della data prevista per l’inizio delle vendite […]».

Nello stesso contesto – mutuando il contenuto dell’art. 15, comma 3, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) – i commi 1 e 2 dell’art. 111 della medesima legge regionale stabiliscono rispettivamente che le diverse «vendite di fine stagione [o saldi] riguardano i prodotti, di carattere stagionale o di moda, suscettibili di notevole deprezzamento se non vengono venduti entro un certo periodo di tempo», e che tali vendite «possono essere effettuate solamente in periodi dell’anno della durata massima di quarantacinque giorni e, precisamente, dal giorno dell’Epifania e dal primo venerdì di luglio».

Quanto all’oggetto della norma, dunque, i due tipi di vendita – che lo stesso decreto legislativo n. 114 del 1998 riunisce nel più ampio genus delle «vendite straordinarie» (art. 15, citato) – trovano il loro peculiare tratto distintivo nel fatto che, alla tendenziale possibilità di svolgimento durante tutto l’arco dell’anno delle vendite promozionali, che possono riguardare qualsiasi tipo di merce, si contrappone la stretta connessione tra alcuni specifici prodotti merceologici (connotati appunto dalle caratteristiche della stagionalità ovvero della rispondenza ai dettami della moda del momento) ed il dato temporale che, onde evitare una perdita di valore commerciale dei prodotti stessi, giustifica l’effettuazione delle vendite di fine stagione o saldi solo in ben determinati periodi dell’anno.

2.2. – Identificate le caratteristiche dei due tipi di vendita in esame, va rilevato che, nella sua assolutezza, il divieto regionale generalizzato di effettuare vendite promozionali, per qualsiasi tipologia di prodotti (stagionali e non) in periodo antecedente le vendite di fine stagione, si pone in aperto contrasto con la disciplina statale (dettata dall’art. 3, comma 1, della legge n. 248 del 2006) che, nel disporre la eliminazione della «fissazione di divieti ad effettuare vendite promozionali» (art. 3, comma 1, lettera e), esclude nel contempo che possano essere imposte «limitazioni di ordine temporale o quantitativo allo svolgimento di vendite promozionali di prodotti, effettuate all’interno di esercizi commerciali», con la sola eccezione dei «periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti» (art. 3, comma 1, lettera f).

Secondo la disciplina nazionale – adottata espressamente «al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato» (art. 3, comma 1) – l’unica limitazione possibile per tali tipi di vendite consiste nella previsione di un termine antecedente a quello di svolgimento delle vendite di fine stagione, durante il quale non possono essere effettuate (non già tutte) le vendite promozionali (ma solo quelle) che abbiano ad oggetto gli stessi prodotti destinati ad essere posti in saldo.

Orbene, come costantemente affermato da questa Corte (da ultimo, nella sentenza n. 45 del 2010), nella nozione di «tutela della concorrenza», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., devono essere ricomprese: a) «le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione»: si tratta di misure antitrust; b) le disposizioni legislative «di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese»: si tratta di misure volte ad assicurare la concorrenza «nel mercato»; c) le disposizioni legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali di g aranzia mediante la strutturazione di tali procedure in modo da realizzare «la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici»: si tratta di interventi miranti a garantire la concorrenza «per il mercato».

Inoltre, con specifico riferimento alla già evidenziata strumentalità, rispetto al fine di tutela e promozione della concorrenza perseguita dalle previsioni di liberalizzazione del commercio di cui al richiamato art. 3 della legge n. 248 del 2006, questa Corte ha, altresì, chiarito che «l’attribuzione delle misure [a tutela della concorrenza] alla competenza legislativa esclusiva dello Stato comporta sia l’inderogabilità delle disposizioni nelle quali si esprime, sia che queste legittimamente incidono, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse sono proprie, sulla totalità degli ámbiti materiali entro i quali si applicano»; ed ha, nel contempo, sottolineato che, ricondotta una norma alla «tutela della concorrenza», «non si tratta quindi di valutare se essa sia o meno di estremo dettaglio, utilizzando princípi e regole riferibili alla disciplina della competenza legislativa concor rente delle Regioni, ma occorre invece accertare se, alla stregua del succitato scrutinio, la disposizione sia strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale» (sentenza n. 430 del 2007).

2.3. – Il legislatore regionale, estendendo il divieto di vendite promozionali in periodo antecedente alle vendite di fine stagione o saldi, applicato alla generalità dei prodotti merceologici, ha invaso la sfera di competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza; resta assorbito l’ulteriore profilo riguardante la dedotta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

Il censurato art. 113, comma 2, della legge della Regione Liguria 2 gennaio 2007, n. 1, deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che non possono essere effettuate vendite promozionali, nei quaranta giorni antecedenti le vendite di fine stagione o saldi, dei medesimi prodotti merceologici oggetto di queste vendite.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 113, comma 2, della legge della Regione Liguria 2 gennaio 2007, n. 1 (Testo unico in materia di commercio), come sostituito dall’art. 27 della legge della Regione Liguria 3 aprile 2007, n. 14 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2007), nella parte in cui non prevede che non possono essere effettuate vendite promozionali, nei quaranta giorni antecedenti le vendite di fine stagione o saldi, dei medesimi prodotti merceologici oggetto di queste vendite.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA