Ultime pronunce pubblicate deposito del 17/06/2010
 
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Deposito del 17/06/2010 (dalla 213 alla 222)

 
S.213/2010 del 09/06/2010
Udienza Pubblica del 27/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 8, c. 4° e 6°, della legge della Regione Trentino-Alto Adige 15/07/2009, n. 5.

Oggetto: Impiego pubblico - Norme della Regione Trentino-Alto Adige - Modificazioni della legge regionale n. 15/1983 - Dirigenza - Previsto conferimento della qualità di dirigente a seguito di concorsi pubblici per esami o per titoli ed esami o a seguito di concorsi per titoli riservati agli iscritti all'albo degli idonei alle funzioni dirigenziali - Definizione delle relative modalità con regolamento della Giunta - Lamentata p ossibilità che la qualifica di dirigente sia attribuita anche con soli concorsi per titoli e riservati.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 62/2009
S.214/2010 del 09/06/2010
Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore DE SIERVO


Norme impugnate: Art. 5, c. 4°, della legge della Regione Puglia 20/12/1973, n. 26, come modificato dall'art. 1 della legge della Regione Puglia 30/09/1986, n. 28.

Oggetto: Comuni, province e città metropolitane - Regione Puglia - Modifica della circoscrizione territoriale dei comuni - Modifica effetto di permuta e/o di cessione di terren i tra contermini - Adozione con decreto del Presidente della Regione s u delibera della Giunta regionale - Referendum consultivo delle popolazioni interessate - Mancata previsione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - altro
Atti decisi: ord. 167/2009
S.215/2010 del 09/06/2010
Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 4, c. 1°, 2°, 3° e 4°, del decreto legge 01/07/2009, n. 78, convertito con modificazioni in legge 03/08/2009, n. 102, come modificato dall'art. 1, c. 1°, lett. a), del decreto legge 03/08/2009, n. 103, convertito con modificazioni in legge 03/10/2009, n. 141.

Oggetto: Energia - Previsione di interventi urgenti per le reti dell'energia da effettuarsi da parte di uno o più commissari straordinari del Governo con mezzi e poteri straordinari, con ricorso a capitale prevalentemente o interamente privato; Lamentata attrazione al centro di funzioni in sussidiarietà sul presupposto non pertinente e meramente asserito dell'urgenza anziché dell'unitarietà, introduzione di un sistema anomalo con ricorso a commissari straordinari dotati di poteri ampiamente sostitutivi e derogatori a detrimento delle attribuzioni regionali, nonché mancanza di intesa per la nomina dei commissari statali e per gli interventi relativi al trasporto e alla distribuzione dell'energia nonostante la natura concorrente della materia;
Lamentata attribuzione di poteri amministrativi ad organi statali in materie di competenza provinciale e comunque in materia di competenza concorrente, e in subordine mancanza dell'intesa con la Provincia in relazione alla trasmissione e alla distribuzione dell'energia, all'atto di nomina dei commissari e agli atti adottati dai commissari;
Mancata previsione di intesa con le Regioni per gli interventi relativi alla trasmissione ed alla distribuzione dell'energia.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 79, 80, 84 e 88/2009
S.216/2010 del 09/06/2010
Udienza Pubblica del 25/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GALLO


Norme impugnate: Art. 3, c. 3°, della legge della Regione autonoma della Sardegna 29/05/2007, n. 2, che sostituisce l'art. 4 della legge della Regione autonoma della Sardegna 11/05/2006, n. 4.

Oggetto: Imposte e tasse - Norme della Regione Sardegna - Imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromob ili e delle unità da diporto - Applicabilità alle persone fisiche o giuridiche aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale - Presupposti dell'imposta - Applicabilità nel mare territoriale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - altro
Atti decisi: ric. 36/2007
S.217/2010 del 09/06/2010
Camera di Consiglio del 12/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GALLO


Norme impugnate: Art. 49 del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546.

Oggetto: Contenzioso tributario - Tutela cautelare - Sentenza della Commissione tributaria regionale di accoglimento dell'appello proposto dall'amministrazione finanziaria soccombente in prime cure - Esecuzione in pendenza di rico rso per cassazione - Istanza del contribuente per la sospensione dell'esecuzione della sentenza e dei conseguenti atti dell'amministrazione finanziaria e dell'agente della riscossione (in specie, iscrizione a ruolo dell'intero tributo e iscrizione di ipoteca preordinata all'espropriazione immobiliare) - Ritenuta esclusione della tutela cautelare anche nel caso in cui la relativa esigenza si manifesti solo in seguito alla pronuncia di secondo grado - Omessa previsione che la sentenza di appello tributaria, impugnata con ricorso per cassazione, possa essere sospesa, in unico grado cautelare, allorquando ivi sopravvenga, per la prima volta, il pericolo di un grave ed irreparabile danno, con carattere di irreversibilità e non altrimenti evitabile.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ord. 322/2009
O.218/2010 del 09/06/2010
Udienza Pubblica del 25/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CASSESE


Norme impugnate: Artt. 33, c. 1° e 2°, 36, 37, 38, c. 5°, lett. e), 39, c. 2°, e 40 della legge della Regione Liguria 11/05/2009, n. 18.

Oggetto: Istruzione - Professioni - Norme della Regione Liguria - Sistema educativo regionale di istruzione, formazione e orientamento - Formazione superiore - Istituzione di percorsi di specializzazione rivolti a soggetti in possesso di qualifica o di diploma di scuola media superiore - Lamentata predisposizione di corsi formativi abilitanti all'esercizio di professioni successivi al conseguimento del diploma;
Istruzione - Università - Norme della Regione Liguria - Sistema educativo regionale di istruzione, formazione e orientamento - Formazione superiore - Istituzione di percorsi di alta formazione comprendenti m aster, dottorati di ricerca, scuole di specializzazione, crediti formativi;
Istruzione - Lavoro e occupazione - Norme della Regione Liguria - Sistema educativo regionale di istruzione, formazione e orientamento - Apprendistato professionalizzante - Definizione dei profili formativi e delle modalità di riconoscimento e certificazione nell'ambito della formazione in apprendistato esclusivamente aziendale - Contrasto con la normativa nazionale che rimette la materia integralmente all'autonomia contrattuale collettiva.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 50/2009
O.219/2010 del 09/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 53, c. 2°, della legge 26/07/1975, n. 354.

Oggetto: Ordinamento penitenziario - Licenze agli internati - Internato sottoposto alla misura di sicurezza della casa di lavoro - Concessione in via consecutiva di più licenze di quindici giorni ciascuna, al fine di fruire di un programma risocializzativo extramurario (nella specie, un rapporto di collaborazione con l'università) - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 316, 317, 318, 319 e 320/2009
O.220/2010 del 09/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 41 bis, c. 2 ° quater, lett. b), della legge 26/07/1975, n. 354, come modificato dall'art. 2, c. 25°, lett. f), n. 2, della legge 15/07/2009, n. 94.

Oggetto: Ordinamento penitenziario - Detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione - Previsione di limiti di durata e di frequenza dei colloqui visivi e telefonici con i propri difensori.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 21/2010
S.221/2010 del 09/06/2010
Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA


Norme impugnate: Artt. 1, c. 5°, lett. a), b), c), e k), e 7, c. 9°, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 04/0 6/2009, n. 11.

Oggetto: Appalti pubblici - Norme della Regione Friuli-Venezia Giulia - Modifiche alla legge regionale sui lavori pubblici n. 14 del 2002 - Lavori di minore complessità, di importo inferiore a 200.000 euro e per i quali sia allegata una relazione descrittiva dell'intervento - Statuizione che l'approvazione dell'elenco annuale dei lavori sostituisce l'approvazione del progetto preliminare - Contrasto con il codice dei contratti pubblici che non consente di prescindere dalla fase della progettazione preliminare;
Aggiudicazione degli incarichi di progettazione - Preferenza per il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, con obbligo di specifica ed adeguata motivazione per il caso in cui la stazione appaltante decida di ricorrere al criterio del prezzo più basso - Contrasto con il codice dei contratti pubblici;
Oneri per le spese tecniche generali e di collaudo da commisurarsi ad aliquote determinate dal Presidente della Regione - Contrasto con il codice dei contratti pubblici che attribuisce ad un decreto del Ministro della giustizia, di concerto con quello delle Infrastrutture e dei trasporti, la determinazione delle aliquote;
Opere nel settore delle infrastrutture di trasporto, della mobilità e della logistica - Riduzione del 50 per cento dei termini previsti dai singoli procedimenti di competenza della Regione e degli Enti locali correlati alla realizzazione delle opere strategiche regionali - Contrasto con il codice dei contratti pubblici e con la normativa comunitaria e internazionale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 53/2009
O.222/2010 del 09/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 140 del codice di procedura civile.

Oggetto: Procedimento civile - Notificazioni - Irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia dell'atto - Completamento dell'iter notificatorio da parte dell'ufficiale giudiziario - Decorrenza degli effetti della notifica, per il destinatario, dalla data di spedizione della raccomandata informativa - Mancata previsione che la notificazione si ha invece per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata ovvero dalla data di ritiro della copia dell'atto e/o della raccomandata che lo contiene, se anteriore.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 11/2010

pronuncia successiva

SENTENZA N. 213

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, commi 4 e 6 (recte: comma 2), della legge della Regione Trentino-Alto Adige 15 luglio 2009, n. 5 (Norme di accompagnamento alla manovra finanziaria di assestamento per l’anno 2009), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 18-23 settembre 2009, depositato in cancelleria il 22 settembre 2009 ed iscritto al n. 62 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Trentino-Alto Adige;

udito nell’udienza pubblica del 27 aprile 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi l’avvocato dello Stato Enrico Arena per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Daria De Pretis e Luigi Manzi per la Regione Trentino-Alto Adige.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso depositato in cancelleria il 22 settembre 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, con riferimento agli articoli 2, 51, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, commi 4 e 6 (recte: comma 2), della legge della Regione Trentino-Alto Adige 15 luglio 2009, n. 5 (Norme di accompagnamento alla manovra finanziaria di assestamento per l’anno 2009).

Riferisce il Presidente del Consiglio dei ministri che tale articolo, che apporta modificazioni della legge regionale 9 novembre 1983, n. 15 (Ordinamento degli uffici regionali e norme sullo stato giuridico e trattamento economico del personale), e segnatamente al suo art. 24, e successive modificazioni e integrazioni, stabilisce, al comma 4 di quest’ultima disposizione, che «la qualità di dirigente è conferita a seguito di concorsi pubblici per esami o per titoli ed esami o a seguito di concorsi per titoli riservati agli iscritti all’albo degli idonei alle funzioni dirigenziali». Il correlato comma 6, a sua volta, dispone che «con regolamento la Giunta definisce le ipotesi di ricorso alle diverse procedure concorsuali di cui al comma 4, le tipologie delle prove e le modalità di svolgimento degli esami, nonché i criteri di valutazione dei titoli».

Ritiene il Presidente del Consiglio che entrambi i riportati commi 4 e 6 siano illegittimi. Il comma 4, in particolare, disponendo che la qualifica di dirigente sia conferita anche «a seguito di concorsi per titoli riservati agli iscritti all’albo degli idonei alle funzioni dirigenziali» e prevedendo, pertanto, la possibilità che la qualifica di dirigente sia attribuita anche con soli concorsi per titoli e riservati, si porrebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione tutelati dagli articoli 3, 51, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché con il principio costituzionale del pubblico concorso, che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci, in funzione dell’efficienza della stessa amministrazione, anche per l’accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate.

La circostanza, poi, che tale disposizione sia stata introdotta da una legge della Regione Trentino-Alto Adige, che in base all’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) ha competenza legislativa primaria in materia di ordinamento degli uffici regionali e del personale ad essi addetto, secondo il Presidente del Consiglio non inciderebbe sui termini della questione, dato che tale competenza dovrebbe pur sempre essere esercitata in armonia con la Costituzione.

2. – Si è costituita in giudizio la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol e ha chiesto il rigetto del ricorso. Secondo la resistente, l’art. 8 della legge regionale n. 5 del 2009, ben lungi dal violare gli invocati principi, avrebbe apportato un miglioramento al previgente sistema, basato esclusivamente sul concorso interno, con l’introduzione, in suo luogo, di un duplice canale per l’acquisizione della qualifica dirigenziale, articolatesi nel concorso pubblico, per esami o per titoli ed esami, e nel concorso interno per titoli, riservato al personale iscritto nell’albo degli idonei alle funzioni dirigenziali. In essa sarebbero offerte dunque precise indicazioni circa le condizioni alle quali è consentito derogare al principio del pubblico concorso.

Il sistema riservato di selezione in essa previsto, concorrendo con il meccanismo aperto, presenterebbe tutti i requisiti in presenza dei quali la Corte riconosce la legittimità di tale forma di selezione, dato che, nella giurisprudenza della Corte costituzionale il principio del concorso pubblico è derogabile, al fine di consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa pubblica amministrazione, a condizione che la legge preveda adeguate condizioni di accesso, tra le quali: a) che la riserva in favore di personale interno non sia integrale; b) che la deroga alla regola del concorso sia giustificata da situazioni differenti e peculiari rispetto a quelle che danno luogo al concorso pubblico, e in particolare dall’esigenza di garantire il buon andamento dell’amministrazione o di attuare altri principi di rilievo costituzionale.

Secondo la Regione, la previsione impugnata non contempla affatto la possibilità che la qualifica di dirigente sia attribuita anche con soli concorsi per titoli e riservati, ma contemplerebbe due distinti meccanismi, destinati a concorrere nel reclutamento del personale da preporre alle qualifiche dirigenziali, ossia la selezione pubblica per esami o per titoli ed esami, e il concorso interno per coloro che hanno superato l’esame finale di apposito corso; e spetta al regolamento il compito di identificare le ipotesi di ricorso alle diverse procedure (art. 8, comma 6).

La difesa della Regione sottolinea, infine, che il personale per il quale opera il meccanismo di selezione riservato (per una percentuale dei posti da coprire, come già detto) è inquadrato nelle posizioni dell’area C - direttiva -, alla quale si accede con laurea e mediante concorso pubblico, e ha conseguito l’iscrizione all’albo degli idonei alle funzioni dirigenziali, al quale accede solo il personale in possesso dell’idoneità alla direzione d’ufficio e del diploma di laurea almeno quadriennale che abbia superato l’esame finale del corso di formazione per aspiranti dirigenti indetto dall’amministrazione.

3. – Con memoria depositata il 6 aprile 2010 la Regione illustrava ulteriormente le proprie conclusioni.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, con riferimento agli articoli 2, 51, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 15 luglio 2009, n. 5 (Norme di accompagnamento alla manovra finanziaria di assestamento per l’anno 2009).

La norma regionale censurata, in materia di dirigenti regionali, apporta una significativa modifica al sistema di selezione del personale dirigente nei ruoli della Regione Trentino-Alto Adige.

Originariamente l’art. 24 della legge regionale n. 15 del 1983 prevedeva che tale personale dovesse essere selezionato esclusivamente all’interno dell’amministrazione regionale, mediante concorso interno per titoli ed esami.

Tale sistema era stato modificato ed integrato dall’art. 17 della successiva legge regionale 11 giugno 1987, n. 5 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 9 novembre 1983, n. 15 “Ordinamento degli uffici regionali e norme sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale”), e dalla successiva legge regionale 6 dicembre 1993, n. 22 (Adeguamento normativo della dirigenza e disposizioni urgenti in materia di personale). In conseguenza delle modifiche apportate da tale ultima novella, in aggiunta al personale dirigente selezionato con concorso interno, veniva introdotta la possibilità di distacco da altre amministrazioni.

Rispetto al sistema sopra descritto, la legge regionale impugnata, da un lato, ha sostituito al concorso interno per esami e titoli, un concorso interno per soli titoli, riservato agli iscritti ad un albo di soggetti idonei alle funzioni dirigenziali; dall’altro, ha introdotto, in alternativa alla selezione interna dei dirigenti, anche il concorso aperto a personale esterno. Infine, essa ha rimesso alla Giunta regionale il compito di precisare, con apposita norma regolamentare, le ipotesi di ricorso alle due procedure alternative.

Il Presidente del Consiglio reputa la norma illegittima in quanto consentirebbe alla Giunta di coprire i posti di dirigenti a disposizione soltanto mediante concorsi interni per titoli. Il sistema introdotto, pertanto, sarebbe irragionevole e violerebbe sia i principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97, primo comma, sia il principio del pubblico concorso, di cui agli artt. 51 e 97, terzo comma, della Costituzione.

La Regione, per contro, ha sottolineato che la norma, nel prevedere il ricorso a entrambe le procedure selettive, non consentirebbe l’esclusiva utilizzazione del solo sistema selettivo basato sul concorso interno, ma renderebbe necessario il ricorso ad entrambi i metodi selettivi, rimettendo alla Giunta il compito di stabilire, mediante regolamento, le percentuali di ricorso ai due diversi meccanismi selettivi.

2. – Preliminarmente, deve rilevarsi che la questione, sollevata con riferimento all’art. 8, commi 4 e 6, della legge regionale 15 luglio 2009, n. 5 (Norme di accompagnamento alla manovra finanziaria regionale di assestamento per l’anno 2009), deve intendersi riferita all’art. 24, commi 4 e 6, della legge regionale 9 novembre 1983, n. 15 (Ordinamento degli uffici regionali e norme sullo stato giuridico e trattamento economico del personale), così come modificato dalla prima. La trasposizione deve infatti ritenersi consentita poiché non sussistono dubbi sulla reale volontà del ricorrente, dal momento che l’art. 8 della norma regionale del 2009 si compone di soli due commi, il secondo dei quali sostituisce l’art. 24 della legge del 1983, come risultante dalle successive modifiche, con l’attuale formulazione, nella quale sono individuabili i commi censurati dal ricorrente, per cui non è dubitabile che le censure siano rivolte alla norma originaria, così come modificata dall’art. 8, comma 2, della legge del 2009.

3. – Nel merito, le questioni sollevate con riferimento all’art. 51 Cost. e all’art. 97, terzo comma, Cost., sono fondate.

Questa Corte ha sempre ritenuto che il concorso pubblico è la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego e che può derogarsi a tale regola solo in presenza di peculiari situazioni giustificatrici, nell’esercizio di una discrezionalità che trova il suo limite nella necessità di garantire il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, primo comma, della Costituzione) e il diritto di tutti i cittadini ad accedere ai pubblici uffici (art. 51 Cost.) e il cui vaglio di costituzionalità passa attraverso una valutazione di ragionevolezza della scelta operata dal legislatore.

Coerentemente, essa, se ha riconosciuto la legittimità di norme che affidavano la scelta dei dirigenti a criteri di selezione alternativi al concorso pubblico e volti a valorizzare esperienze interne all’amministrazione (in tal senso, sentenze n. 159 del 2005, n. 205 del 2004, n. 517 del 2002, n. 141 del 1999, n. 1 del 1999, e, da ultimo, n. 100 del 2010, n. 293 e n. 215 del 2009), ha sempre chiarito che tali deroghe possono ritenersi consentite a condizione, da un lato, che siano previsti adeguati criteri selettivi volti a garantire la necessaria professionalità degli assunti e, dall’altro, che la legge bilanci in modo equilibrato il criterio di selezione del personale mediante concorso pubblico con i sistemi alternativi allo stesso, stabilendo delle percentuali rigorose entro le quali è consentito, all’ente pubblico, il ricorso alle procedure di selezione interne (v. sentenze n. 205 e n. 81 del 2006, n. 407 del 2005, n. 34 d el 2004).

Più specificamente, in tale prospettiva, questa Corte ha avuto modo di chiarire che l’accesso al concorso può anche essere condizionato al possesso di requisiti fissati dalla legge, allo scopo di consolidare pregresse esperienze lavorative maturate nell’ambito dell’amministrazione, purché l’assunzione nell’amministrazione pubblica non escluda o irragionevolmente riduca, attraverso norme di privilegio, le possibilità di accesso per tutti gli altri aspiranti, con violazione del carattere pubblico del concorso (sentenze n. 34 del 2004 e n. 141 del 1999).

La legge regionale censurata, introducendo un sistema misto di selezione del personale regionale, allo scopo di valorizzare le professionalità interne all’amministrazione, non solo omette di prevedere i criteri in base ai quali la Giunta è autorizzata a scegliere un sistema o l’altro, ma lascia nell’indeterminatezza la proporzione tra dirigenti selezionati con concorso interno per titoli e dirigenti selezionati con concorso pubblico per titoli ed esami.

La mancata determinazione dei criteri in base ai quali la Giunta, sulla scorta del comma 6 della norma censurata, è autorizzata a scegliere un sistema o l’altro e la mancata individuazione, in alternativa, di una percentuale di posti riservati al concorso pubblico, lasciano all’arbitrio dell’organo esecutivo la scelta del sistema di selezione del personale, rendendo astrattamente possibile l’obliterazione del criterio del concorso pubblico. Ciò determina un’eccessiva e non preventivabile compressione del carattere aperto dei meccanismi di selezione, consentendo, in ultima analisi, che l’assunzione di personale a seguito di concorso pubblico sia relegata a ipotesi marginali e sia assicurata entro percentuali esigue e, comunque, non predeterminate.

In tale prospettiva, la circostanza, evidenziata dalla difesa regionale, che la legge censurata riservi la possibilità di concorso interno al personale laureato, a suo tempo selezionato mediante concorso pubblico ed iscritto all’albo degli idonei alle funzioni dirigenziali, non consente di ritenere superati tutti i profili di illegittimità costituzionale. Se, infatti, la previsione di requisiti di partecipazione al concorso interno rende la norma non irragionevole e rispettosa del principio di efficienza dell’azione amministrativa, essa non vale a salvaguardare il necessario carattere pubblico del concorso; carattere che, pur essendo finalizzato al buon andamento della pubblica amministrazione, non si esaurisce nella tutela di tale valore, essendo diretto anche e prima di tutto ad assicurare il diritto di tutti i cittadini di poter concorrere, in condizione di uguaglianza, agli uffici pubblici.

4. – Deve dunque essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 51 e 97, comma terzo, Cost., sia del comma 4 dell’art. 24 della legge della Regione Trentino-Alto Adige n. 15 del 1983, che, per la selezione dei dirigenti, contempla il duplice meccanismo di selezione senza predeterminare i criteri e le percentuali per la scelta dell’uno o all’altro, sia del successivo e correlato comma 6, che rimette tale scelta alle determinazioni dell’organo esecutivo della Regione.

5. – L’accoglimento della questione, con riferimento ai parametri sopra indicati determina l’assorbimento delle altre questioni sollevate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, commi 4 e 6, della legge della Regione Trentino-Alto Adige 9 novembre 1983, n. 15 (Ordinamento degli uffici regionali e norme sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale), come modificato dall’art. 8, comma 2, della legge della Regione Trentino-Alto Adige 15 luglio 2009, n. 5 (Norme di accompagnamento alla manovra finanziaria di assestamento per l’anno 2009).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 214

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Puglia 20 dicembre 1973 n. 26 (Norme in materia di circoscrizioni comunali), come modificato dall’art. 1 della legge della Regione Puglia 30 settembre 1986 n. 28 (Modifica della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26 concernente norme in materia di circoscrizioni comunali), promosso dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione di Lecce, nel procedimento vertente tra A. P. e il Comune di Sogliano Cavour ed altri con ordinanza del 23 marzo 2009, iscritta al n. 167 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di costituzione di A. P.;

udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

udito l’avvocato Giuseppe Gallo per A. P..

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza depositata il 23 marzo 2009 e pervenuta a questa Corte il 20 maggio 2009 il Tribunale amministrativo per la Puglia, sezione di Lecce, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Puglia 20 dicembre 1973, n. 26 (Norme in materia di circoscrizioni comunali), nel testo aggiunto dall’art. 1 della legge della medesima Regione 30 settembre 1986, n. 28 (Modifica della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26 concernente norme in materia di circoscrizioni comunali), in riferimento all’art. 133 della Costituzione.

Il TAR rimettente premette di essere investito del ricorso proposto con riguardo alla destinazione urbanistica di un fondo originariamente sito presso il Comune di Sogliano Cavour, ma entrato a far parte del contiguo Comune di Galatina per effetto del decreto del Presidente della Giunta regionale n. 326 del 2004, che ha operato una variazione dei confini dei due Comuni contermini.

Il predetto decreto, prosegue il rimettente, è stato adottato in applicazione della disposizione impugnata, secondo la quale «quando la modifica della circoscrizione territoriale ha luogo per effetto di permuta e/o di cessione di terreni fra comuni contermini che, d’accordo, ne regolino anche i rapporti patrimoniali ed economico-finanziari di cui al successivo art. 7, alle istanze dei comuni interessati provvede il Presidente della Giunta regionale con proprio decreto, su conforme deliberazione della Giunta medesima». Pertanto, il procedimento di modifica delle circoscrizioni comunali interessate, preceduto nel caso di specie dall’accordo fra i Comuni sulla permuta dei terreni, non è stato accompagnato dal referendum rivolto alle popolazioni interessate, né si è perfezionato per mezzo di una legge regionale, secondo quanto invece prescritto dall’art. 133, secondo comma, della Costituzione.

Nel giudizio a quo, prosegue il rimettente, il passaggio del fondo della ricorrente da un Comune all’altro spiega effetti, poiché comporta il rigetto della domanda di rilascio di permesso a costruire, che è stata formulata all’indirizzo del Comune di Sogliano Cavour, anziché del Comune di Galatina, ove, comunque, vige una normativa urbanistica più severa.

Pertanto il TAR giudica rilevante la questione di costituzionalità della legge regionale impugnata, di cui il decreto del Presidente della Giunta (anch’esso censurato nel giudizio a quo) ha reso puntuale applicazione.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che l’art. 5 della legge impugnata prevede ai commi 1 e 2 un’ipotesi generale di modifica territoriale delle circoscrizioni comunali, alla quale si applica integralmente quanto previsto dall’art. 133, secondo comma, Cost.; a tale disposizione costituzionale, invece, il comma 4, oggetto di censura, apporterebbe una deroga per il caso peculiare su cui verte il processo principale: la norma impugnata non potrebbe essere interpretata in un senso costituzionalmente conforme, né con riguardo all’art. 133 Cost., né con riguardo all’art. 63 dello statuto della Regione Puglia, approvato con la legge 22 maggio 1971, n. 349 (Approvazione, ai sensi dell’art. 123, comma secondo, della Costituzione, dello Statuto della Regione Puglia), e vigente quando il decreto del Presidente della Giunta è stato emanato, che nella sostanza riprodurrebbe quanto previsto dalla Costituzione.

Si è costituita in giudizio la ricorrente nel processo principale, concludendo per l’accoglimento della questione.

La parte privata reputa palese la violazione degli artt. 3 e 133 Cost., posto che la norma impugnata non prevede né il referendum consultivo, né la riserva di legge regionale, e spende a tale proposito argomenti analoghi a quelli del rimettente.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Puglia 20 dicembre 1973, n. 26 (Norme in materia di circoscrizioni comunali), nel testo aggiunto dall’art. 1 della legge della medesima Regione 30 settembre 1986, n. 28 (Modifica della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26 concernente norme in materia di circoscrizioni comunali), in riferimento all’art. 133 della Costituzione.

La disposizione impugnata prevede che una modifica territoriale «effetto di permuta e/o di cessione di terreni» fra Comuni confinanti, che siano tra loro d’accordo e che anche abbiano regolato d’intesa tra loro «i rapporti patrimoniali ed economico finanziari», possa intervenire mediante decreto del Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale.

Ad avviso del giudice a quo, che deve fare applicazione di tale previsione normativa in giudizio, con una disposizione del genere si derogherebbe a quanto previsto del secondo comma dell’art. 133 Cost., secondo cui le modifiche delle circoscrizioni comunali debbono essere decise da leggi regionali, sentite le popolazioni interessate. Anche la disposizione dello statuto della Regione Puglia vigente alla data del provvedimento regionale che ha parzialmente modificato i confini fra i Comuni di Galatina e di Sogliano Cavour (art. 63 della legge 22 maggio 1971, n. 349, Approvazione, ai sensi dell’art. 123, comma secondo, della Costituzione, dello Statuto della Regione Puglia) prevedeva che mutamenti del genere potessero avvenire solo per legge regionale «sentite le popolazioni interessate».

2. – Nel costituirsi in giudizio, la parte ricorrente nel processo principale ha dedotto, altresì, la violazione dell’art. 3 Cost., che è parametro non invocato dal rimettente: tale censura non può conseguentemente divenire oggetto di scrutinio, poiché nel giudizio incidentale «non possono essere esaminati gli autonomi vizi eccepiti» dalle parti, ma non dal giudice a quo (ex plurimis, sentenza n. 362 del 2008).

3. – La questione è fondata.

La norma impugnata introduce un procedimento semplificato, ai fini della modifica delle circoscrizioni comunali nella Regione Puglia, limitatamente al caso in cui essa derivi da permuta e/o da cessione di terreni voluta dalle due amministrazioni comunali confinanti: la formulazione letterale di tale previsione normativa rende evidente che si possa procedere in difetto di entrambi i requisiti richiesti dall’art. 133, secondo comma, Cost., ovvero la legge regionale ed il referendum consultivo.

Quanto a quest’ultimo, in particolare, questa Corte ha già affermato, da ultimo nella sentenza n. 237 del 2004, che è principio consolidato della propria giurisprudenza quello «secondo cui l’art. 133, secondo comma, della Costituzione, che nell’attribuire alla Regione il potere, con legge, di istituire «nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni», prescrive di sentire «le popolazioni interessate», «comporta, per le Regioni a statuto ordinario, l’obbligo di procedere a tal fine mediante referendum (cfr. sentenze n. 279 del 1994, n. 107 del 1983 e n. 204 del 1981)». L’istituto referendario, infatti, garantisce «l’esigenza partecipativa delle popolazioni interessate» (sentenza. n. 279 del 1994) anche per la mera modificazione delle circoscrizioni comunali (sentenza. n. 433 del 1995) e pertanto il legislatore regionale dispone in materia soltanto del potere di regolare il p rocedimento che conduce alla variazione, ed in particolare di stabilire gli eventuali criteri per la individuazione delle “popolazioni interessate” al procedimento referendario (sentenza. n. 94 del 2000).

Posto che l’art. 133, secondo comma, Cost. impone l’osservanza di tali forme ogni qual volta si verifichi l’effetto di una modifica delle circoscrizioni territoriali, non sono ammesse deroghe per ipotesi ritenute di minor rilievo.

Difatti, la legislazione statale e, quanto alla Regione Puglia, la stessa legislazione statutaria sviluppatasi a partire dall’art. 133, secondo comma, Cost. è rispettosa delle condizioni appena accennate.

L’art. 15 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nel disciplinare l’esercizio dei poteri regionali in tema di modifiche territoriali dei Comuni, ha previsto in generale la necessità che la Regione proceda in via legislativa, sentendo previamente le popolazioni interessate, senza distinguere dalle altre le ipotesi in cui esista una concorde volontà degli enti coinvolti nelle modificazioni territoriali.

Inoltre, la stessa Regione Puglia ha previsto in entrambi i testi statutari che ha adottato, in conformità al dettato costituzionale ed alla richiamata giurisprudenza costituzionale, una disciplina uniforme sia per l’istituzione mediante legge di nuovi Comuni, sia per i mutamenti delle loro circoscrizioni e denominazioni ed ha previsto la necessità di previe idonee forme di partecipazione delle popolazioni interessate (al già richiamato art. 63 dello statuto del 1971 è seguito l’art. 19, secondo comma, dello statuto attualmente vigente, approvato con la legge regionale 12 maggio 2004, n. 7, recante lo Statuto della Regione Puglia).

Invece, nella propria legislazione ordinaria, a partire dal 1986, la Regione ha escluso sia la necessità della apposita legge regionale, sia la previa consultazione referendaria delle popolazioni interessate, nell’ipotesi, propria del giudizio a quo, in cui fra Comuni contermini, in presenza di permuta e/o cessione di terreni, vi fosse un accordo fra le amministrazioni comunali interessate dalle modifiche territoriali, quando, invece, l’art. 133, secondo comma, Cost. non consente in nessun caso di surrogare con altri elementi procedimentali né la legge regionale, né il referendum: così l’art. 2 della legge regionale 30 settembre 1986, n. 26 (Modifica della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 27, concernente norme sul referendum abrogativo e consultivo) ha introdotto nell’art. 21, comma 4, lettera f) della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 27 (Norme sul referendum abrogativo e consultivo), i criteri di individuaz ione delle popolazioni interessate al referendum nel caso di permuta del territorio fra due o più Comuni contermini solo per l’eventualità che manchi l’accordo dei Comuni interessati, postulando in tal modo in forma inequivoca che, ove l’accordo sia raggiunto, il referendum possa non avere luogo; contemporaneamente l’art. 1 della legge regionale n. 28 del 1986 ha introdotto il censurato comma 4 dell’art. 5 della legge regionale n. 26 del 1973.

Infine, l’art. 4 della legge regionale 25 febbraio 2010, n. 6 (Marina di Casalabate: modifica delle circoscrizioni territoriali dei Comuni di Lecce, Trepuzzi e Squinzano e integrazione della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26, Norme in materia di circoscrizioni comunali) ha aggiunto espressamente al comma 2 dell’art. 5 della stessa legge regionale n. 26 del 1973 la previsione secondo la quale «in caso di accordo fra i Comuni interessati si prescinde dalla consultazione popolare», ogni qual volta si proceda alla modifica delle circoscrizioni territoriali: con tale ultima disposizione normativa la deroga apportata all’art. 133, secondo comma, Cost. assume quindi una portata ancora più ampia, sia pure per il solo profilo dell’obbligo della consultazione referendaria.

La disposizione impugnata, confermata dalla contemporanea modifica apportata alla legge regionale sul referendum, non può pertanto che essere interpretata come elusiva della speciale procedura prescritta dal secondo comma dell’art. 133 Cost., a garanzia della partecipazione popolare al procedimento e della necessaria assunzione di responsabilità in questa materia da parte del massimo organo rappresentativo della Regione, mediante l’approvazione di un’apposita legge.

La disposizione censurata deve pertanto essere dichiarata incostituzionale.

4. – Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 la dichiarazione di incostituzionalità deve essere estesa al comma 4, lettera f), dell’art. 21 della legge regionale n. 27 del 1973, limitatamente alle parole «quando manca l’accordo dei Comuni interessati», posto che tale previsione fa corpo con la norma impugnata, producendo unitamente ad essa, quanto alle parole colpite dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, l’effetto di escludere il referendum. Parimenti incostituzionale in via consequenziale deve ritenersi l’art. 5, comma 2, della legge regionale n. 26 del 1973, limitatamente alle parole «In caso di accordo tra i comuni interessati si prescinde dalla consultazione popolare.», aggiunte dal già rammentato art. 4 della legge regionale n. 6 del 2010. Né vi sono ostacoli ad estendere la dichiarazione di illegittimità costituzionale ad una disposizione normativa sopravenuta all o stesso giudizio a quo, quando essa abbia carattere consequenziale. Infatti, l’apprezzamento di questa Corte, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, non presuppone la rilevanza delle norme ai fini della decisione propria del processo principale, ma cade invece sul rapporto con cui esse si concatenano nell’ordinamento, con riguardo agli effetti prodotti dalle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionali. In tale prospettiva, l’art. 4 della legge regionale n. 6 del 2010 riproduce il medesimo vizio di incostituzionalità da cui è affetta la norma impugnata dal rimettente, sotto il profilo della sottrazione della procedura al referendum per il caso di accordo tra Comuni, ponendosi con quest’ultima in un rapporto tale per cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale della sola disposizione censurata non sarebbe da sé sola idonea a rimuovere integralmente un vizio, in parte riprodotto dalla s uccessiva legislazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Puglia 20 dicembre 1973, n. 26 (Norme in materia di circoscrizioni comunali), aggiunto dall’art. 1 della legge della Regione Puglia 30 settembre 1986, n. 28 (Modifica della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26 concernente norme in materia di circoscrizioni comunali);

dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, lettera f), della legge della Regione Puglia 20 dicembre 1973, n. 27 (Norme sul referendum abrogativo e consultivo), come modificato dall’art. 2 della legge della Regione Puglia 30 settembre 1986, n. 26 (Modifica alla legge regionale 20 dicembre 1973, n. 27 concernente norme sul referendum abrogativo e consultivo), limitatamente alle parole: «quando manca l’accordo dei Comuni interessati»;

dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge della Regione Puglia n. 26 del 1973, come modificato dall’art. 4 della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 6 (Marina di Casalabate: modifica delle circoscrizioni territoriali dei Comuni di Lecce, Trepuzzi e Squinzano e integrazione della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26, Norme in materia di circoscrizioni comunali), limitatamente alle parole: «In caso di accordo tra i comuni interessati si prescinde dalla consultazione popolare.».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 215

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3 e 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, promossi dalla Regione Umbria, dalla Provincia autonoma di Trento e dalle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna con ricorsi notificati il 3 e il 2 ottobre 2009, depositati in cancelleria il 7, l’8 e il 13 ottobre 2009, rispettivamente iscritti ai nn. 79, 80, 84 e 88 del registro ricorsi 2009.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché gli atti di intervento della TERNA, Rete elettrica nazionale s.p.a.;

udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi gli avvocati Rosaria Russo Valentini e Giandomenico Falcon per la Regione Emilia Romagna, Giandomenico Falcon per la Regione Umbria, per la Provincia autonoma di Trento e per la Regione Toscana e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Regione Umbria ha promosso, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118, secondo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141 (R.R. n. 79 del 2009).

1.1. – La ricorrente premette che il predetto art. 4 concerne interventi urgenti per le reti dell’energia. Esso, al comma 1, dispone che il Consiglio dei ministri, su proposta dei Ministri competenti, «individua gli interventi relativi alla trasmissione ed alla distribuzione dell’energia, nonché, d’intesa con le Regioni e le province autonome interessate, gli interventi relativi alla produzione dell’energia, da realizzare con capitale prevalentemente o interamente privato, per i quali ricorrono particolari ragioni di urgenza in riferimento allo sviluppo socio-economico e che devono essere effettuati con mezzi e poteri straordinari».

Per la realizzazione dei predetti interventi e con le medesime modalità, il comma 2 prevede la nomina, con deliberazione del Consiglio dei ministri, di uno o più Commissari straordinari del Governo ai sensi dell’art. 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri).

Ciascun commissario, «sentiti gli enti locali interessati, emana gli atti e i provvedimenti, nonché cura tutte le attività, di competenza delle amministrazioni pubbliche che non abbiano rispettato i termini previsti dalla legge o quelli più brevi, comunque non inferiori alla metà, eventualmente fissati in deroga dallo stesso Commissario, occorrenti all’autorizzazione e all’effettiva realizzazione degli interventi, nel rispetto delle disposizioni comunitarie, avvalendosi ove necessario dei poteri di sostituzione e di deroga di cui all’articolo 20, comma 4, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185» (comma 3, come modificato dal d.l. n. 103 del 2009, convertito dalla legge n. 141 del 2009).

Con i provvedimenti di cui al comma 1 «sono altresì individuati le strutture di cui si avvale il Commissario straordinario, senza che ciò comporti nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, nonché i poteri di controllo e di vigilanza del Ministro per la semplificazione normativa e degli altri Ministri competenti» (comma 4).

1.2. – La ricorrente pur non contestando che, nelle circostanze indicate dalla norma, l’individuazione degli interventi urgenti relativi alla trasmissione, alla distribuzione e alla produzione dell’energia sia fatta a livello centrale, ricorda come questa Corte abbia sottolineato che la «chiamata in sussidiarietà» di funzioni statali in materie di competenza regionale può giustificarsi solo qualora la legislazione statale «detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e [...] risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tal fine»; inoltre, «essa deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di Governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate agli organi centrali» (sentenza n. 6 del 2004).

Ad avviso della Regione Umbria, la disciplina dell’art. 4 del d.l. n. 78 del 2009 non è pertinente (perché gli imprecisati interventi per i quali sussisterebbero «particolari ragioni di urgenza» devono essere realizzati «con capitale prevalentemente o interamente privato» e pertanto la legge non é idonea a regolare interventi realmente urgenti, poiché la disponibilità del capitale privato é per definizione non garantita), né proporzionata, non essendovi ragioni per attrarre al centro, oltre all’individuazione degli interventi, anche la loro realizzazione.

Il legislatore statale avrebbe potuto realizzare l’obiettivo dell’accelerazione degli interventi di competenza regionale riducendo i termini o semplificando in altro modo i procedimenti, nell’esercizio della sua potestà legislativa di principio. Né lo strumento dei commissari è previsto per compiere atti urgenti di competenza di altre amministrazioni.

La difesa regionale aggiunge che il principio di sussidiarietà ha già operato nella materia dell’energia, considerato che l’art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), e la legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), attribuiscono ad organi statali alcune funzioni amministrative, in base ad esigenze di esercizio unitario.

Secondo la Regione Umbria, pertanto, l’art. 4, commi 2, 3 e 4, del d.l. n. 78 del 2009, prevedendo poteri amministrativi statali in materie di competenza regionale (energia e governo del territorio), violerebbe gli artt. 117, terzo comma, e 118, commi primo e secondo, della Costituzione.

1.3. – In via subordinata, la ricorrente deduce che l’art. 4, comma 3, del d.l. n. 78 del 2009, attribuendo al commissario straordinario del Governo i poteri di sostituzione e di deroga di cui all’art. 20, comma 4, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e quello di fissare, per l’espletamento delle attività di competenza delle pubbliche amministrazioni, termini inferiori rispetto a quelli previsti dalle leggi, violerebbe comunque i predetti parametri costituzionali.

Infatti, quanto ai poteri sostitutivi, ad avviso della difesa regionale non è costituzionalmente ammissibile che presunte ragioni di urgenza legittimino il conferimento ad un commissario del potere di “espropriare” le competenze amministrative spettanti alle Regioni e agli enti locali in materia di energia, governo del territorio e tutela della salute, né che il commissario possa derogare ad ogni norma, comprese quelle regionali che regolano la valutazione di impatto ambientale e quelle poste a difesa della salute dei cittadini; inoltre, la previsione di tali poteri sostitutivi non risponderebbe ai requisiti richiesti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (precisamente, non sussiste la competenza di un organo politico, non si tratta di atti obbligatori e non sono stabilite garanzie procedimentali per le Regioni).

Il potere di riduzione dei termini, invece, incide potenzialmente sulla normativa regionale e pregiudica la possibilità di esercizio della funzione amministrativa regionale o degli enti locali, mettendo a repentaglio gli interessi all’ordinato sviluppo del territorio, all’ambiente e alla salute tutelati dalle leggi regionali in materia di energia e di urbanistica.

1.4. – La Regione Umbria afferma, poi, che l’art. 4, commi 1, 2 e 3, del d.l. n. 78 del 2009, nella parte in cui non prevede l’intesa della Regione interessata per l’atto di individuazione degli interventi relativi alla trasmissione ed alla distribuzione dell’energia (comma 1), per l’atto di nomina dei commissari (comma 2) e per gli atti adottati dai commissari (comma 3), viola gli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, Cost. e il principio di leale collaborazione, i quali richiedono un forte coinvolgimento della Regione quando, come nella specie, lo Stato attragga a sé funzioni amministrative attinenti a materie di competenza regionale.

Infatti, il comma 1 del menzionato art. 4 richiede l’intesa solamente per l’individuazione degli interventi di produzione dell’energia, non anche per quelli di trasmissione e di distribuzione. Ad avviso della Regione, tale differenziazione non è giustificata, né la lacuna potrebbe essere corretta in sede interpretativa, stante la chiarezza del testo della norma.

Il comma 2 prevede che per la realizzazione dei predetti interventi e con le medesime modalità si provvede alla nomina, con deliberazione del Consiglio dei ministri, di uno o più commissari straordinari del Governo. Anche in questo caso, secondo la difesa regionale, dovrebbe ugualmente valere il principio dell’intesa, che invece è richiesto, attraverso il rinvio al comma 1, per le sole opere di produzione dell’energia; ne conseguirebbe l’illegittimità del comma 2 per non aver previsto l’intesa anche sulla nomina di commissari statali in relazione alle opere di trasmissione e di distribuzione dell’energia.

Anche l’art. 4, comma 3, del d.l. n. 78 del 2009, ad avviso della ricorrente, sarebbe illegittimo, perché non stabilisce che i provvedimenti relativi all’autorizzazione e alla realizzazione degli interventi vengano assunti d’intesa con la Regione interessata.

La Regione Umbria richiama, poi, la giurisprudenza di questa Corte che ha sancito la necessità dell’intesa con la Regione interessata per la localizzazione e la realizzazione di opere gestite da organi centrali in virtù del principio di sussidiarietà (sentenze n. 303 del 2003, n. 6 del 2004, n. 62 e n. 383 del 2005).

Infine, la ricorrente segnala che anche la Commissione parlamentare per le questioni regionali, nel parere del 29 luglio 2009, aveva chiesto il ripristino del testo originario del d.l. n. 78 del 2009 che prevedeva l’intesa con le Regioni e le Province autonome interessate per l’individuazione, non solo degli interventi relativi alla produzione dell’energia, ma anche di quelli relativi alla trasmissione e alla distribuzione dell’energia.

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio e chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque infondato nel merito.

Il resistente afferma che l’art. 4 del d.l. n. 78 del 2009 mira a superare situazioni di stallo che si possono verificare con riferimento ad impianti privati di produzione di energia (già realizzati o in corso di realizzazione), sui quali le competenze della Regione e degli enti locali già si sono espresse e per i quali si presentino difficoltà per la piena utilizzazione del prodotto nella rete nazionale, ovvero con riferimento all’individuazione di nuovi insediamenti necessari per risolvere deficit strutturali di energia riscontrabili in importanti aree del Paese.

Esso, dunque, si applica solamente in circostanze di particolare urgenza che richiedono il ricorso a mezzi e poteri straordinari al fine di tutelare in modo unitario gli interessi dell’intera collettività nazionale.

La difesa erariale aggiunge che la chiamata in sussidiarietà prevista dalla norma impugnata è ragionevole e proporzionata.

Infatti, assodato (come riconosciuto dalla stessa ricorrente) che le circostanze di urgenza giustificano l’individuazione, da parte dello Stato, degli interventi da compiere, sarebbe semmai irragionevole che la fase esecutiva, che è quella che determina l’effettivo soddisfacimento delle esigenze unitarie che giustificano l’intervento statale, non fosse anch’essa attratta in capo allo Stato.

Irrilevante sarebbe, poi, la forma, pubblica o privata, dell’intervento da realizzare, decisiva essendo invece la finalità pubblicistica che si intende celermente perseguire.

Quanto alla pretesa violazione del principio di leale collaborazione, la difesa erariale afferma che, nel caso di specie, esso è stato attuato nei limiti della ragionevole essenzialità e, cioè, per gli interventi di nuove produzioni, con l’intesa con la Regione interessata e, in tutti i casi, con la partecipazione egli enti locali.

La differenziazione della disciplina degli interventi urgenti relativi alla trasmissione e alla distribuzione, da un lato, e quelli relativi alla produzione dell’energia, dall’altro, è il frutto di una consapevole scelta del legislatore, basata sulla constatazione che situazioni critiche in tema di trasporto e distribuzione presuppongono necessariamente una preventiva positiva valutazione della Regione sull’attività di produzione e mirano a superare difficoltà e gelosie locali in ordine alla fruizione di un bene già esistente che una non razionale distribuzione potrebbe disperdere.

Inoltre l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea come gli interventi in materia di trasporto e distribuzione di energia siano caratterizzati da un interesse strategico statale più marcato rispetto a quelli inerenti la produzione. Infatti il servizio di trasporto e trasformazione dell’energia elettrica sulla rete nazionale ha la funzione di connettere i centri di produzione nazionali e transazionali, al fine di ottimizzare la produzione.

3. – La Provincia autonoma di Trento ha promosso, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118, secondo e terzo comma, Cost., agli artt. 8, numeri 5, 6, 17, 19 e 22, e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e all’art. 4, comma 1, del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), questioni di legittimità costituzionale – tra l’altro – dell’art. 4, commi 1, 2, 3 e 4, del medesimo d.l. n. 78 del 2009 (R.R. n. 80 del 2009) di cui al precedente ricorso.

3.1. – La ricorrente premette che le disposizioni impugnate attengono alla materia «energia», nella quale essa ha potestà legislativa ed amministrativa in virtù del d.lgs. 11 novembre 1999, n. 463 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige in materia di demanio idrico, di opere idrauliche e di concessioni di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, produzione e distribuzione di energia elettrica), che, in attuazione delle norme statutarie che attribuiscono potestà primaria alla Provincia di Trento nelle materie dell’«urbanistica», della «tutela del paesaggio», dei «lavori pubblici di interesse provinciale», della «assunzione diretta di servizi pubblici» e della «espropriazione per pubblica utilità (art. 8, nn. 5, 6, 17, 19 e 22 dello statuto di autonomia speciale), ha aggiunto l’art. 01 nel d.P.R. 26 marzo 1977, n. 235 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-A lto Adige in materia di energia).

Inoltre, l’art. 14, primo comma, dello statuto di speciale autonomia prevede il parere obbligatorio della Provincia per le concessioni in materia di comunicazioni e trasporti riguardanti linee che attraversano il territorio provinciale e l’art. 9 del d.P.R. n. 235 del 1977 precisa che quanto disposto da tale art. 14 si applica «per quanto concerne il territorio delle province autonome» a tutto ciò che riguarda «lo sviluppo della rete di trasmissione nazionale».

In particolare, l’art. 01 del d.P.R. n. 235 del 1977 trasferisce alle Province autonome «le funzioni in materia di energia esercitate sia direttamente dagli organi centrali e periferici dello Stato sia per il tramite di enti e istituti pubblici a carattere nazionale o sovraprovinciale, salvo quanto previsto dal comma 3» (comma 1); ed il comma 2 precisa che le funzioni relative alla materia «energia» di cui al comma 1 «concernono le attività di ricerca, produzione, stoccaggio, conservazione, trasporto e distribuzione di qualunque forma di energia».

Allo Stato il citato art. 01, comma 3, lettera c), riserva solamente «la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti convenzionali di potenza superiore a 300 MW termici nonché le reti per il trasporto dell’energia elettrica costituenti la rete di trasmissione nazionale con tensione superiore a 150 KV, l’emanazione delle relative norme tecniche e le reti di livello nazionale di gasdotti con pressione di esercizio superiore a 40 bar e oleodotti». Anche in relazione a tali compiti, comunque, l’art. 01, comma 4, prevede il parere obbligatorio della Provincia, ai sensi dell’art. 14, primo comma, dello statuto di speciale autonomia.

Infine, la ricorrente ricorda che, in base agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., le Regioni ordinarie hanno potestà legislativa concorrente e potere di allocare le funzioni amministrative in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia».

3.2. – La Provincia autonoma di Trento sostiene che, se l’art. 4 del d.l. n. 78 del 2009 dovesse essere inteso come riferito a tutti gli impianti e a tutte le reti (e cioè anche a quelli che l’art. 01 del d.P.R. n. 235 del 1977 attribuisce alla competenza provinciale), violerebbe sia gli artt. 8, numeri 5, 6, 17, 19 e 22, e 16 del d.P.R. n. 670 del 1972, sia l’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 266 del 1992, il quale esclude che la legge possa attribuire agli organi statali – nelle materie di competenza propria delle Province autonome – funzioni amministrative, comprese quelle di vigilanza, di polizia amministrativa e di accertamento di violazioni amministrative, diverse da quelle spettanti allo Stato secondo lo statuto speciale e le relative norme di attuazione.

3.3. – Ad avviso della ricorrente l’art. 4 del d.l. n. 78 del 2009 sarebbe illegittimo anche se inteso come riferito esclusivamente alle opere diverse da quelle trasferite alla competenza della Provincia di Trento.

Infatti, pur restando ferma la necessità del parere della Provincia per le concessioni in materia di comunicazioni e trasporti riguardanti linee che attraversano il territorio provinciale prevista dall’art. 14 del d.P.R. n. 670 del 1972 (previsione che – in virtù dell’art. 9 del d.P.R. n. 235 del 1977 – si applica anche allo sviluppo della rete di trasmissione nazionale dell’energia), la norma impugnata attribuirebbe inammissibilmente compiti amministrativi ad organi statali in materia oggetto di competenza concorrente, senza prevedere un forte coinvolgimento della Provincia.

Al riguardo la ricorrente svolge considerazioni analoghe a quelle contenute nel ricorso proposto alla Regione Umbria (v., supra, n. 1.4).

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito e chiede che il ricorso sia respinto.

La difesa del Governo afferma che le disposizioni impugnate prevedono, in materia di produzione di energia, il coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome interessate attraverso lo strumento dell’intesa. Invece il trasporto e la distribuzione dell’energia avvengono in un quadro di riferimento che richiederebbe necessariamente una valutazione d’insieme che solamente la visione unitaria dello Stato sarebbe in condizione di garantire.

Coerente con tale competenza statale sarebbe la nomina dei commissari di cui all’art. 4, comma 2, del d.l. n. 78 del 2009, mentre il rispetto dei principi di leale collaborazione è garantito dalla necessità (prevista dal successivo comma 3) di sentire gli enti locali interessati. Infine, del tutto legittimamente il comma 4 dello stesso art. 4 disciplinerebbe l’ufficio del commissario, che è un organo dello Stato.

5. – Anche la Regione Toscana ha promosso, in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost. e al principio di leale collaborazione, questione di legittimità costituzionale – tra l’altro – dell’art. 4, comma 1, del medesimo d.l. n. 78 del 2009 di cui ai precedenti ricorsi (R.R. n. 84 del 2009).

La ricorrente espone che l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 78 del 2009, nella sua versione originaria era conforme a Costituzione, poiché prevedeva la necessità dell’intesa con la Regione interessata, per l’individuazione, non solo degli interventi in tema di produzione dell’energia, ma anche di quelli relativi al trasporto e alla distribuzione dell’energia.

Invece, per questa seconda categoria di interventi, la necessità dell’intesa è stata eliminata in sede di conversione in legge e tale testo della norma è stato riprodotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 103 del 2009.

Ciò determinerebbe la lesione delle competenze regionali in materia di trasporto e distribuzione dell’energia, poiché lo Stato ha assunto la titolarità di funzioni amministrative che in tale materia spetterebbero alle Regioni, senza prevedere la necessità di una intesa forte, così come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (in proposito, la ricorrente cita le sentenze n. 303 del 2003, n. 6 del 2004 e n. 383 del 2005).

6. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito e chiede che il ricorso sia respinto.

Il resistente afferma che il legislatore non ha previsto la necessità dell’intesa per gli interventi in materia di trasporto e distribuzione dell’energia perché questi sono caratterizzati da un preminente interesse strategico ai fini dello sviluppo economico, della produzione industriale e della fornitura dei servizi pubblici essenziali sull’intero territorio nazionale e pertanto legittimamente ha ritenuto che, in una situazione di particolare urgenza, il coinvolgimento delle singole Regioni interessate potesse avvenire esclusivamente in materia di produzione dell’energia.

7. – Anche la Regione Emilia-Romagna ha promosso, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., nonché per violazione del principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 4, commi 1, 2, 3 e 4, del d.l. n. 78 del 2009 (R.R. n. 88 del 2009), svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte nel ricorso della Regione Umbria e riportate supra, sub numeri da 1.1. a 1.4).

8. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito e chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque infondato nel merito, sulla base degli stessi argomenti svolti nell’atto di costituzione nel giudizio promosso dalla Regione Umbria (v., supra, sub n. 2).

9. – In tutti i giudizi è intervenuta la TERNA – Rete Elettrica Nazionale s.p.a., la quale chiede che i ricorsi siano respinti.

10. – Le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento hanno depositato memorie.

10.1. – La Regione Umbria premette che l’art. 2-quinquies del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 3 (Misure urgenti per garantire la sicurezza di approvvigionamento di energia elettrica nelle isole maggiori), inserito dalla legge di conversione 22 marzo 2010, n. 41, a norma del quale ai commissari straordinari di cui all’art. 4 del d.l. n. 78 del 2009 non si applicano le previsioni dell’art. 11 della legge n. 400 del 1988, non incide sulla materia del contendere nel presente giudizio.

Eccepisce, inoltre, l’inammissibilità dell’intervento della TERNA s.p.a.

Nel merito, la Regione Umbria contesta le argomentazioni svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri, affermando che le situazioni indicate dall’Avvocatura generale dello Stato a fondamento della norma impugnata non valgono a giustificare la chiamata in sussidiarietà per la realizzazione degli interventi contemplati dalla norma medesima; aggiunge che le disposizioni censurate non sono neppure idonee a garantire interventi effettivamente urgenti, poiché questi devono essere realizzati con prevalente capitale privato.

La Regione ribadisce, quindi, che l’art. 4 del d.l. n. 78 del 2009 viola il principio di leale collaborazione e che esso è illegittimo anche perché attribuisce ai commissari poteri troppo ampi.

Nega, infine, che gli interventi previsti dalla norma impugnata si riferiscano a strutture la cui realizzazione sarebbe già stata concertata con le Regioni e che le situazioni di urgenza che li giustificherebbero dipendano da obblighi internazionali assunti dall’Italia.

10.2. – La Provincia autonoma di Trento, nella propria memoria, svolge considerazioni analoghe a quelle contenute nella memoria della Regione Umbria.

10.3. – La Regione Emilia-Romagna, a sua volta, contesta le argomentazioni svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri e dalla TERNA s.p.a. ed afferma che la normativa impugnata sarebbe illegittima anche perché i poteri attribuiti ai commissari sono eccessivamente ampi, né essi sono limitati agli impianti per i quali sia in corso un procedimento autorizzativo che necessiti di un intervento sollecitatorio ovvero a quelli la cui realizzazione sarebbe stata già concertata con le Regioni.

Ad avviso della difesa regionale, il principio di leale collaborazione sarebbe leso per non essere state previste forme di collaborazione Stato-Regione in relazione agli interventi di trasmissione e distribuzione dell’energia. Né l’asserito più marcato interesse strategico statale nei confronti di questi interventi rispetto a quelli inerenti la produzione dell’energia giustificherebbe l’attrazione della materia de qua nella sfera di competenza esclusiva dello Stato.

La Regione, infine, contesta che lo Stato avesse titolo ad emanare le norme censurate in ragione della propria competenza legislativa in materia di rapporti con l’unione europea, di ambiente e di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Infatti le norme in questione rientrano nella materia della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», oggetto di competenza legislativa concorrente. Conseguentemente, la necessità di adeguamento alla normativa europea di far fronte ai ritardi accumulati dal nostro Paese è inconferente e insufficiente a legittimare i contenuti concretamente adottati dal legislatore statale, in ragione, sia della violazione del principio di leale collaborazione, sia della mancanza di un riscontro positivo delle asserite ragioni di urgenza (stante anche la mancata previsione di forme cert e e pubbliche di finanziamento per la realizzazione degli interventi che si ritengono necessari).

Considerato in diritto

1. – Le Regioni Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento hanno promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3 e 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del d.l. anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, agli artt. 8, numeri 5, 6, 17, 19 e 22, e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), all’art. 4, comma 1, del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), ed al principio di leale collaborazione.

La Provincia autonoma di Trento e la Regione Toscana hanno promosso, con i medesimi ricorsi, anche questioni di legittimità costituzionale di altre disposizioni del medesimo d.l. n. 78 del 2009, per le quali si è proceduto a separati giudizi.

1.1. – L’art. 4 del d.l. n. 78 del 2009, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 103 del 2009, prevede che il Consiglio dei ministri può individuare interventi relativi alla produzione, al trasporto ed alla distribuzione dell’energia, da realizzare con capitale prevalentemente o interamente privato, per i quali ricorrono particolari ragioni di urgenza in riferimento allo sviluppo socio-economico e che devono essere effettuati con mezzi e poteri straordinari (comma 1); la disposizione richiede la necessità dell’intesa con la Regione solo per l’individuazione degli interventi relativi alla produzione e non anche per quelli concernenti il trasporto e la distribuzione.

Il Consiglio dei ministri nomina, con la stessa procedura di cui al comma 1, uno o più Commissari straordinari per la realizzazione di tali interventi (comma 2).

Il Commissario straordinario può fissare, per l’attività occorrente per l’autorizzazione e l’esecuzione degli interventi in questione, termini più brevi rispetto a quelli ordinariamente previsti; inoltre, in tutti i casi in cui le amministrazioni non rispettino tali termini (quelli ordinari ovvero quelli da lui abbreviati), può sostituirsi alle amministrazioni medesime nel compimento di tutta l’attività che sarebbe di loro competenza (comma 3).

Con i provvedimenti di cui al comma 1 sono altresì individuati le strutture di cui si avvale il Commissario straordinario, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, nonché i poteri di controllo e di vigilanza del Ministro per la semplificazione normativa e degli altri Ministri competenti (comma 4).

1.2. – Ad avviso delle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna e della Provincia autonoma di Trento, premesso che la norma censurata deve essere ricondotta alla materia della «produzione, trasporto e distribuzione dell’energia», non sussisterebbero le ragioni giustificatrici della chiamata in sussidiarietà in capo ad organismi statali disposta dalla norma denunciata.

Le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento sostengono anzitutto che la chiamata in sussidiarietà del potere di individuare e realizzare interventi relativi alla produzione, alla trasmissione ed alla distribuzione dell’energia è stata attuata dall’art. 4, commi 1, 2, 3 e 4, del d.l. n. 78 del 2009 con una normativa non pertinente (perché gli interventi per i quali sussisterebbero «particolari ragioni di urgenza» devono essere realizzati «con capitale prevalentemente o interamente privato» e, pertanto, la legge non sarebbe idonea a regolare interventi realmente urgenti, la disponibilità del capitale privato essendo per definizione non garantita), né proporzionata, perché non ci sono ragioni per attrarre al centro, oltre all’individuazione degli interventi, anche la loro realizzazione.

Le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna deducono, in via subordinata, che, in ogni caso, i poteri attribuiti ai Commissari sarebbero troppo ampi.

Infine, tutte le ricorrenti sostengono che, ammesso che sussista l’esigenza accentratrice, la norma sarebbe illegittima nella parte in cui prevede l’intesa con le Regioni solo per gli interventi relativi alla produzione e non anche per quelli relativi al trasporto ed alla distribuzione dell’energia.

Risulterebbero pertanto violati, per le Regioni ricorrenti, gli artt. 117 e 118 Cost. e, per la Provincia di Trento, anche le norme statutarie in materia di «energia» (artt. 8, numeri 5, 6, 17, 19 e 22, e 16 del d.P.R. n. 670 del 1972, e art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 266 del 1992).

2. – Stante la loro connessione oggettiva, i quattro ricorsi devono essere riuniti ai fini di un’unica pronuncia.

3. – Nei giudizi di costituzionalità è intervenuta la TERNA s.p.a., gestore della rete elettrica nazionale.

Tale intervento è inammissibile, perché, come costantemente affermato da questa Corte, i giudizi di costituzionalità in via principale si svolgono solamente fra i soggetti titolari di potestà legislativa, con esclusione di qualsiasi altro soggetto.

4. – La questione è fondata.

In considerazione del fatto che si verte in materia di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia, non può in astratto contestarsi che l’individuazione e la realizzazione dei relativi interventi possa essere compiuta a livello centrale, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione. In concreto, però, quando un simile spostamento di competenze è motivato con l’urgenza che si ritiene necessaria nell’esecuzione delle opere, esso dev’essere confortato da valide e convincenti argomentazioni.

Ora, è agevole osservare che, trattandosi di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d’urgenza dovrebbe comportare l’assunzione diretta, da parte dello Stato, della realizzazione delle opere medesime.

Invece la disposizione impugnata stabilisce che gli interventi da essa previsti debbano essere realizzati con capitale interamente o prevalentemente privato, che per sua natura è aleatorio, sia quanto all’an che al quantum.

Si aggiunga che la previsione, secondo cui la realizzazione degli interventi è affidata ai privati, rende l’intervento legislativo statale anche sproporzionato. Se, infatti, le presunte ragioni dell’urgenza non sono tali da rendere certo che sia lo stesso Stato, per esigenze di esercizio unitario, a doversi occupare dell’esecuzione immediata delle opere, non c’è motivo di sottrarre alle Regioni la competenza nella realizzazione degli interventi.

I canoni di pertinenza e proporzionalità richiesti dalla giurisprudenza costituzionale al fine di riconoscere la legittimità di previsioni legislative che attraggano in capo allo Stato funzioni di competenza delle Regioni non sono stati, quindi, rispettati. Va dichiarata pertanto l’illegittimità dell’art. 4, commi da 1 a 4, del d.l. n. 78 del 2009, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 103 del 2009, per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione.

4. – Le ulteriori questioni sollevate dai ricorrenti (in tema di ampiezza dei poteri dei Commissari straordinari e di mancata previsione dell’intesa con le Regioni in sede di individuazione degli interventi in materia di trasmissione e distribuzione dell’energia) restano assorbite, stante la caducazione integrale delle norme censurate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi e riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Provincia autonoma di Trento e dalla Regione Toscana,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3 e 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 216

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), quale sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 2 agosto 2007, depositato in cancelleria il 7 agosto 2007 ed iscritto al n. 36 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione della Regione Sardegna;

udito nell’udienza pubblica del 25 maggio 2010 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi l’avvocato dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Graziano Campus per la Regione Sardegna.

Ritenuto in fatto

1. – Con i ricorsi n. 91 del 2006 e n. 36 del 2007, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, nei confronti della Regione Sardegna, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), sia nel testo originario sia nel testo sostituito, rispettivamente, dai commi 1, 2 e 3 dell’art. 3 della legge reg. 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), nonché dell’art. 5 della citata legge reg. n. 2 del 2007. Ciascuno degli articoli denunciati stabilisce e disciplina un particolare tributo regionale.

Viene qui in rilievo, in particolare, l’art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007, istitutivo dell’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto, censurato con il ricorso n. 36 del 2007.

La norma denunciata disciplina l’imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, al soggetto avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assume l’esercizio dell’aeromobile o dell’unità da diporto (con l’esenzione dall’imposta: delle imbarcazioni che fanno scalo per partecipare a regate di carattere sportivo, a raduni di barche d’epoca, di barche monotipo ed a manifestazioni veliche, anche non agonistiche, il cui evento sia stato preventivamente comunicato all’Autorità marittima da parte degli organizzatori; delle unità da diporto che sostano tutto l’anno nelle strutture portuali regionali; della sosta tecnica, limitatamente al tempo necessario per l’effettuazione della stessa), dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili adibiti al trasporto privato, per classi dete rminate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale delle unità da diporto, per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.

La questione proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri, relativa alle imprese, è stata sollevata con riferimento a diversi parametri costituzionali e, in particolare, all’art. 117, primo comma, della Costituzione, per violazione delle norme del Trattato CE relative alla tutela della libera prestazione dei servizi (art. 49), alla tutela della concorrenza (art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10»), e al divieto di aiuti di Stato (art. 87): rispetto a tali parametri, il ricorrente ha richiesto che fosse effettuato il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 234 del Trattato CE.

Con la sentenza n. 102 del 2008, pronunziata nei due giudizi riuniti, la Corte costituzionale ha deciso le questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso n. 91 del 2006 e parte di quelle promosse con il ricorso n. 36 del 2007. In particolare, quanto all’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto denunciata con quest’ultimo ricorso, con la indicata sentenza sono state dichiarate inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento a parametri costituzionali diversi dal primo comma dell’art. 117 Cost.; con la stessa sentenza, è stata altresí disposta la separazione del giudizio concernente la questione di legittimità costituzionale della suddetta imposta regionale sullo scalo turistico promossa con riferimento al primo comma dell’art. 117 Cost. e relativa all’assoggettamento a tassazione delle imprese es ercenti aeromobili o unità da diporto. Quanto alle violazioni del diritto comunitario denunciate dal ricorrente, la Corte ha ritenuto di sollevare questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, esclusivamente con riguardo alle violazioni degli artt. 49 e 87 del Trattato CE, riservando al prosieguo del giudizio ogni decisione sulla violazione dell’art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», anche in relazione alla pertinenza di tale combinato disposto con la norma censurata.

2. – Con l’ordinanza n. 103 del 2008, pronunziata nel giudizio separato, la Corte costituzionale ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte di giustizia CE in via pregiudiziale, le seguenti questioni di interpretazione degli artt. 49 e 87 del Trattato CE: a) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione di una norma, quale quella prevista dall’art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), secondo la quale l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari; b) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna; c) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione di una norma, qua le quella prevista dallo stesso art. 4 della legge della Regione Sarde gna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, secondo la quale l’imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità; d) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Tratta to – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna.

Quanto al merito delle questioni sollevate, la Corte costituzionale ha evidenziato che l’art. 4 della legge regionale n. 4 del 2006 disciplina un tributo che, essendo applicabile alle persone fisiche e giuridiche, riguarda le imprese che assumono l’esercizio di unità da diporto e aeromobili dell’aviazione generale adibiti al trasporto privato di persone. Ha sottolineato, inoltre, che la disposizione, nell’assoggettare a tassazione le imprese non aventi domicilio fiscale in Sardegna, sembra creare una discriminazione rispetto alle imprese che, pur svolgendo la stessa attività, non sono tenute al pagamento del tributo per il solo fatto di avere domicilio fiscale in Sardegna e che, di conseguenza, essa sembra dare luogo a un aggravio del costo dei servizi resi, a detrimento delle imprese non residenti. La stessa Corte costituzionale ha sollevato, poi, dubbi in ordine alle giustificazioni addotte dalla Regione Sardegna e fondate, da un lato, sul fatto che tali imprese non residenti fruirebbero, analogamente alle imprese aventi domicilio fiscale in detta Regione, dei servizi pubblici regionali e locali, ma senza contribuire al finanziamento di tali servizi, e, dall’altro, sulla necessità di compensare i maggiori costi sostenuti, a causa delle peculiarità geografiche ed economiche legate all’insularità della Regione Sardegna, dalle imprese domiciliate in quest’ultima. In particolare, per quanto attiene alla lamentata violazione dell’art. 87 CE, ha rilevato che si pone il problema se il vantaggio economico concorrenziale derivante alle imprese aventi domicilio fiscale in Sardegna dal loro non assoggettamento all’imposta regionale sullo scalo rientri nella nozione di aiuto di Stato, dato che detto vantaggio deriva non dalla concessione di un’agevolazione fiscale, ma indirettamente dal minor costo da esse sopportato rispetto a quelle stabilite fuori dal territorio regionale.

3. – Con la sentenza 17 novembre 2009, C169/08, la Corte di giustizia CE ha dichiarato che: «1) L’art. 49 CE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una norma tributaria di un’autorità regionale, quale quella di cui all’art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4, recante disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo, nella versione risultante dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007, la quale istituisce un’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili adibiti al trasporto privato di persone nonché delle unità da diporto che grava unicamente sulle persone fisiche e giuridiche aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale. 2) L’art. 87, n . 1, CE deve essere interpretato nel senso che una normativa tributaria di un’autorità regionale che istituisce un’imposta sullo scalo, quale quella di cui trattasi nella causa principale, la quale grava unicamente sulle persone fisiche e giuridiche aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, costituisce una misura di aiuto di Stato a favore delle imprese stabilite su questo stesso territorio».

3.1. – Per giungere a tali conclusioni, la Corte di giustizia CE esamina, in primo luogo, la prima e la terza questione, relative all’art. 49 CE, con le quali la Corte costituzionale aveva chiesto, in sintesi, se l’art. 49 CE dovesse essere interpretato nel senso che osta a una norma tributaria di un’autorità regionale, come l’art. 4 della legge regionale n. 4 del 2006, la quale istituisce un’imposta regionale sullo scalo turistico di aeromobili adibiti al trasporto privato di persone nonché di unità da diporto, qualora tale imposta gravi unicamente sulle imprese aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale.

3.1.1. – Quanto ai presupposti per l’applicazione del citato art. 49 CE, la Corte di giustizia afferma che occorre accertare anzitutto se la legge regionale n. 4 del 2006 rientri nell’ambito di applicazione della libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 50 CE.

Osserva la stessa Corte che l’imposta regionale sullo scalo non concerne le imprese di trasporto civile di persone e di merci e si applica, in particolare, alle imprese che eserciscono aeromobili per effettuare operazioni di trasporto aereo senza remunerazione per motivi relativi alla loro attività di impresa e alle imprese la cui attività consiste nel porre le unità da diporto a disposizione di terzi dietro remunerazione. Secondo la giurisprudenza della stessa Corte, la nozione di «servizi» ai sensi dell’art. 50 CE implica che si tratti di prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione e che quest’ultima costituisce il corrispettivo economico della prestazione ed è pattuita fra il prestatore ed il destinatario del servizio. L’imposta regionale in questione riguarda gli esercenti di mezzi di trasporto che si recano sul territorio della Regione e non le imprese di trasporto che esercitano la loro attività i n detta Regione. Tuttavia, dalla semplice circostanza che tale imposta non riguarda le prestazioni di trasporto non può dedursi – secondo la Corte – che la normativa tributaria di cui trattasi nella causa principale non presenti alcun nesso con la libera prestazione dei servizi. Deve essere, infatti, dato rilievo alla giurisprudenza consolidata secondo cui, sebbene l’art. 50, terzo comma, CE citi soltanto la libera prestazione dei servizi attiva – nell’ambito della quale il prestatore si sposta verso il destinatario dei servizi –, quest’ultima comprende altresí la libertà dei destinatari di servizi, segnatamente dei turisti, di recarsi in un altro Stato membro nel quale è stabilito il prestatore per fruire ivi di detti servizi. Nel caso di specie, le persone che assumono l’esercizio di un mezzo di trasporto nonché quelle che utilizzino tale mezzo usufruiscono di vari servizi sul territorio della Region e Sardegna, quali i servizi forniti negli aerodromi e nei porti; con l a conseguenza che lo scalo costituisce un presupposto necessario per fruire di detti servizi e l’imposta regionale sullo scalo presenta un certo nesso con una tale prestazione. Inoltre, i servizi sui quali l’imposta regionale sullo scalo ha un’incidenza possono rivestire un carattere transfrontaliero poiché tale imposta, da un lato, può incidere sulla possibilità delle imprese stabilite in Sardegna di offrire servizi di scalo negli aerodromi e nei porti a cittadini e ad imprese stabiliti in un altro Stato membro e, dall’altro, ha un’incidenza sull’attività delle imprese straniere aventi la loro sede in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana e che assumono l’esercizio di unità da diporto in Sardegna.

Ne deriva – secondo la Corte – che la Regione Sardegna ha istituito un’imposta che grava direttamente sulla prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 50 CE.

3.1.2. – Quanto alla questione se la normativa di cui trattasi nella causa principale costituisca una restrizione alla libera prestazione dei servizi, la Corte rileva innanzi tutto che, nel settore della libera prestazione dei servizi, un provvedimento fiscale nazionale che ostacoli l’esercizio di tale libertà può costituire una misura vietata, sia che esso emani dallo Stato stesso sia che emani da un ente locale.

Con riferimento al caso in esame – osserva la Corte – è pacifico che l’imposta regionale sullo scalo grava sugli esercenti degli aeromobili e delle unità da diporto aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale e che il fatto generatore dell’imposta è lo scalo dell’aeromobile o dell’unità da diporto in detto territorio. L’imposta, anche se si applica soltanto in una parte circoscritta di uno Stato membro, grava sugli scali degli aeromobili e delle unità da diporto di cui trattasi senza distinguere a seconda che essi provengano da un’altra regione d’Italia o da un altro Stato membro. L’applicazione di detta normativa tributaria comporta che, per tutti i soggetti passivi dell’imposta aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale e stabiliti in altri Stati membri, i servizi considerati sono resi piú onerosi di quelli forniti agli esercenti st abiliti su tale territorio. E ciò perché tale normativa introduce un costo supplementare per le operazioni di scalo degli aeromobili e delle imbarcazioni a carico degli operatori aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale e stabiliti in altri Stati membri e crea cosí un vantaggio per talune categorie di imprese stabilite in tale territorio.

Quanto al trattamento differenziato dei non residenti rispetto ai residenti nel caso in esame, la Corte – premesso di avere affermato, nelle sue pronunce in tema di fiscalità diretta, che le due posizioni non sono di regola paragonabili, in quanto presentano differenze oggettive per quanto attiene sia alla fonte dei redditi sia alla capacità contributiva personale del contribuente o alla presa in considerazione della sua situazione personale e familiare – rileva che occorre prendere in considerazione le caratteristiche specifiche dell’imposta di cui è causa; con la conseguenza che una disparità di trattamento tra residenti e non residenti costituisce una restrizione alla libera circolazione vietata dall’art. 49 CE qualora non sussista alcuna obiettiva diversità di situazione, rispetto all’imposta di cui è causa, tale da giustificare la disparità di trattamento tra le varie categorie di contribue nti. Ciò vale in particolare per l’imposta di cui trattasi nella causa principale, perché essa è dovuta per effetto dello scalo degli aeromobili adibiti al trasporto privato di persone e delle imbarcazioni da diporto e non in ragione della situazione finanziaria dei contribuenti interessati. Ne consegue che, indipendentemente dal luogo in cui risiedono o sono stabilite, tutte le persone fisiche o giuridiche che fruiscono dei servizi di cui trattasi sono in una situazione oggettivamente paragonabile con riguardo a detta imposta in relazione alle conseguenze per l’ambiente. Il fatto che le persone soggette all’imposta in Sardegna contribuiscano, attraverso il gettito generale e, in particolare, le imposte sui redditi, all’azione della Regione Sardegna per la tutela dell’ambiente è irrilevante ai fini del raffronto della situazione dei residenti e dei non residenti con riguardo all’imposta in questione, perché quest& #8217;ultima non ha la stessa natura e non persegue gli stessi obietti vi delle altre imposte corrisposte dai contribuenti sardi, che mirano segnatamente ad alimentare in modo generale il bilancio pubblico e, pertanto, a finanziare l’insieme delle azioni regionali.

Se ne conclude che la normativa tributaria di cui trattasi costituisce una restrizione alla libera prestazione dei servizi, in quanto essa grava unicamente sugli operatori esercenti aeromobili adibiti al trasporto privato di persone e imbarcazioni da diporto aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, senza assoggettare alla stessa imposta gli operatori stabiliti in quest’ultimo.

3.1.3. – La Corte di giustizia CE passa poi a trattare dell’eventuale giustificazione della normativa in esame, sotto i profili delle esigenze di tutela dell’ambiente e della sanità pubblica e della coerenza del sistema tributario.

3.1.3.1. – Quanto al primo profilo, la Corte richiama il suo orientamento, secondo cui, a prescindere dall’esistenza di uno scopo legittimo che corrisponda a motivi imperativi di interesse generale, la giustificazione di una restrizione alle libertà fondamentali garantite dal Trattato CE presuppone che la misura in questione sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vada oltre quanto è necessario per il suo raggiungimento.

Nel caso di specie – rileva la stessa Corte –, ammettendo che gli aeromobili privati e le unità da diporto che fanno scalo in Sardegna costituiscano una fonte di inquinamento, questo si produce indipendentemente dalla provenienza di detti aerei e imbarcazioni e non presenta, in particolare, alcun legame con il domicilio fiscale degli esercenti stessi, perché gli aeromobili e le imbarcazioni dei residenti contribuiscono al degrado dell’ambiente tanto quanto quelli dei non residenti. Ne consegue che la restrizione alla libera prestazione di servizi, quale essa risulta dalla normativa tributaria di cui trattasi nella causa principale, non può essere giustificata da motivi relativi alla tutela dell’ambiente, in quanto l’applicazione dell’imposta regionale sullo scalo che essa istituisce si basa su una differenziazione tra le persone priva di relazione con detto obiettivo ambientale. Né una restrizione del ge nere può essere giustificata da motivi sanitari, non avendo la Regione Sardegna fornito alcun elemento che consenta di constatare che tale normativa mira a tutelare la sanità pubblica.

3.1.3.2. – Quanto al secondo profilo, relativo ad un’eventuale giustificazione della disciplina in esame fondata sulla coerenza del sistema tributario, la Corte premette che, in linea di principio, l’esigenza di salvaguardare la coerenza del sistema tributario può giustificare una restrizione all’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato, ma siffatto argomento giustificativo esige un nesso diretto tra il beneficio fiscale di cui trattasi e la compensazione di tale beneficio con un determinato prelievo fiscale, dovendosi determinare il carattere diretto del suddetto nesso alla luce della finalità della normativa di cui trattasi. L’imposta regionale sullo scalo – prosegue la Corte – non persegue gli stessi obiettivi delle imposte versate dai soggetti passivi residenti in Sardegna, le quali mirano ad alimentare in generale il bilancio pubblico della Regione Sardegna e, perciò, il non assoggettamento a tale imposta di detti residenti non può essere considerato come una compensazione delle altre imposte cui questi sono soggetti.

Ne deriva che la restrizione alla libera prestazione dei servizi, quale risulta dalla normativa tributaria di cui trattasi nella causa principale, non può essere giustificata da motivi relativi alla coerenza del sistema tributario della Regione Sardegna.

3.2. – La Corte di giustizia CE esamina, poi, la seconda e la quarta questione, relative all’art. 87 CE, con le quali la Corte costituzionale aveva chiesto se l’art. 87 CE dovesse essere interpretato nel senso che la normativa tributaria di un’autorità regionale che istituisca un’imposta regionale sullo scalo, quale quella prevista all’art. 4 della legge regionale n. 4 del 2006, che grava unicamente sugli esercenti aventi il loro domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, costituisca una misura di aiuto di Stato a favore delle imprese stabilite sullo stesso territorio.

La Corte conclude – come visto al punto 3. – che una normativa tributaria come quella di cui trattasi nella causa principale costituisce una misura di aiuto di Stato a favore delle imprese stabilite in Sardegna e che è compito del giudice a quo trarre da tale constatazione le opportune conseguenze.

La stessa Corte CE premette che la qualificazione di una misura quale aiuto ai sensi del Trattato presuppone che sia soddisfatto ognuno dei quattro criteri cumulativi sui quali si fonda l’art. 87, n. 1, CE. In primo luogo, deve trattarsi di un intervento dello Stato ovvero effettuato mediante risorse statali, in secondo luogo, tale intervento deve poter incidere sugli scambi tra gli Stati membri, in terzo luogo, deve concedere un vantaggio al suo beneficiario e, in quarto luogo, deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza.

Nella fattispecie – prosegue la Corte – è pacifico che l’imposta di cui trattasi nella causa principale risponde al secondo e al quarto criterio in quanto essa incide sui servizi forniti in relazione allo scalo di aeromobili e di unità da diporto, che riguardano il commercio intracomunitario, e che siffatta imposta, attribuendo un vantaggio economico agli operatori stabiliti in Sardegna, come è stato rilevato al punto 32 della sentenza, può falsare la concorrenza. Ne deriva che le questioni relative all’interpretazione dell’art. 87 CE riguardano, nel caso di specie, l’applicazione degli altri due criteri di qualificazione dell’imposta regionale sullo scalo come aiuto di Stato, posto che la Commissione conclude, nelle sue osservazioni scritte, che detta imposta risponde a tutti i quattro criteri enunciati.

3.2.1. – Quanto all’uso delle risorse pubbliche, la Corte ricorda che la nozione di aiuto non comprende soltanto prestazioni positive, come sovvenzioni, prestiti o assunzione di partecipazioni al capitale delle imprese, ma anche interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che di regola gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, hanno la stessa natura e producono identici effetti.

Una normativa tributaria come quella controversa nella causa principale, che conceda a talune imprese un non assoggettamento all’imposta di cui trattasi, costituisce, dunque, un aiuto di Stato, pur non comportando un trasferimento di risorse statali, in quanto consiste nella rinuncia da parte delle autorità interessate al gettito tributario che di norma avrebbero potuto riscuotere.

3.2.2. – Quanto alla selettività della normativa tributaria in esame, la Corte premette che, nel caso di una misura adottata non dal legislatore nazionale, ma da un’autorità infrastatale, tale misura non è selettiva ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE solo perché concede vantaggi esclusivamente nella parte del territorio nazionale nella quale la misura si applica. Tuttavia, al fine di valutare la selettività di una misura adottata da un ente infrastatale avente uno statuto autonomo rispetto al governo centrale, come quello di cui gode la Regione Sardegna, occorre esaminare se, tenuto conto dell’obiettivo perseguito da detta misura, questa costituisca un vantaggio per talune imprese rispetto ad altre imprese che si trovino, all’interno dell’ordinamento giuridico nel quale l’ente esercita le sue competenze, in una situazione fattuale e giuridica analoga. Occorre, cioè, stabilire se, tenuto cont o della caratteristiche dell’imposta regionale sullo scalo, le imprese aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale siano, rispetto all’ambito giuridico di riferimento, in una situazione fattuale e giuridica paragonabile a quella delle imprese stabilite sullo stesso territorio.

Come già rilevato – conclude la Corte – si deve constatare che, tenuto conto della natura e della finalità di detta imposta, tutte le persone fisiche e giuridiche che fruiscono dei servizi di scalo in Sardegna sono in una situazione oggettivamente paragonabile indipendentemente dal luogo in cui risiedono o sono stabilite; con la conseguenza che la misura non può essere considerata generale, perché essa non si applica a tutti gli esercenti di aeromobili e di imbarcazioni da diporto facenti scalo in Sardegna.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha censurato l’art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), quale sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), che disciplina l’imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre di ogni anno, al soggetto avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assume l’esercizio dell’aeromobile o dell’unità da diporto (con l’esenzione dall’imposta: delle imbarcazioni che fanno scalo per partecipare a regate di carattere sportivo, a raduni di barche d’epoca, di barche monotipo ed a manifestazioni veliche, anc he non agonistiche, il cui evento sia stato preventivamente comunicato all’Autorità marittima da parte degli organizzatori; delle unità da diporto che sostano tutto l’anno nelle strutture portuali regionali; della sosta tecnica, limitatamente al tempo necessario per l’effettuazione della stessa), dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili adibiti al trasporto privato, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale delle unità da diporto, per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.

Secondo il ricorrente, la disposizione censurata contrasta con l’art. 117, primo comma, Cost., perché víola: a) l’art. 49 del Trattato CE, «introducendo una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel mercato sardo dei servizi nautici e aerei, che costituisce una parte rilevante del mercato europeo»; b) l’art. 87 del Trattato CE, perché istituisce un aiuto alle imprese con sede in Sardegna; c) l’art. 81 del Trattato CE, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», perché ha l’effetto di falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune.

1.1. – Con la sentenza n. 102 del 2008 questa Corte ha ritenuto di sollevare questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, esclusivamente con riguardo alle violazioni degli artt. 49 e 87 del Trattato CE, riservando al prosieguo del giudizio ogni decisione sulla violazione dell’art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», anche in relazione alla pertinenza di tale combinato disposto con la norma censurata.

1.2. – Di conseguenza, la Corte, con l’ordinanza n. 103 del 2008, ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte di giustizia CE, in via pregiudiziale, le seguenti questioni di interpretazione degli artt. 49 e 87 del Trattato CE: a) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione di una norma, quale quella prevista dall’art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), secondo la quale l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna eserce nti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari; b) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna; c) se l’art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione di una norma, quale quella prevista dallo stess o art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo s ostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, secondo la quale l’imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità; d) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato a lle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna.

2. – Con la sentenza 17 novembre 2009, C-169/08, la Corte di giustizia CE, pronunciando sulle questioni pregiudiziali ad essa sottoposte, ha dichiarato, in primo luogo, che l’art. 49 del Trattato CE deve essere interpretato nel senso che detta disposizione osta ad una norma tributaria di un’autorità regionale, quale quella di cui all’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006 – nella versione risultante dall’art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 – la quale istituisce un’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili adibiti al trasporto privato di persone nonché delle unità da diporto che grava unicamente sulle persone fisiche e giuridiche aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale.

In particolare, la Corte di giustizia ha rilevato che: a) l’imposta sullo scalo rientra nell’àmbito di applicazione della libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 50 del Trattato CE, perché le persone che assumono l’esercizio di un mezzo di trasporto, nonché quelle che utilizzano tale mezzo usufruiscono di vari servizi sul territorio della Regione Sardegna, che possono rivestire un carattere transfrontaliero, quali i servizi forniti negli aerodromi e nei porti; b) la normativa regionale di cui trattasi costituisce una restrizione alla libera prestazione dei servizi, in quanto essa grava unicamente sugli operatori aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, che esercitano sia aeromobili adibiti al trasporto privato di persone sia imbarcazioni da diporto, senza assoggettare alla stessa imposta gli operatori stabiliti nel suddetto territorio; c) la normativa in esame non trova giustificazione sotto il profilo della tutela dell’ambiente, perché, ammettendo che gli aeromobili privati e le unità da diporto che fanno scalo in Sardegna costituiscano una fonte di inquinamento, questo non presenta alcun legame con il domicilio fiscale degli esercenti stessi, contribuendo gli aeromobili e le imbarcazioni dei residenti al degrado dell’ambiente tanto quanto quelli dei non residenti; d) la normativa in esame non trova giustificazione neanche sotto il profilo della coerenza del sistema tributario, perché l’imposta regionale sullo scalo non persegue gli stessi obiettivi delle imposte versate dai soggetti passivi residenti in Sardegna, le quali mirano ad alimentare in generale il bilancio pubblico della Regione Sardegna, con la conseguenza che il non assoggettamento a tale imposta dei residenti non può essere considerato come una compensazione delle altre imposte cui questi sono soggetti.

3. – Dall’interpretazione della normativa comunitaria fornita dalla Corte di giustizia con tale pronuncia consegue la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

Infatti, con la sentenza n. 102 e l’ordinanza n. 103 del 2008, questa Corte ha sollevato davanti alla Corte di giustizia CE le suddette questioni pregiudiziali, sul presupposto che, nei giudizi promossi in via principale – come quello in esame – in cui si dubiti della compatibilità di leggi regionali con norme comunitarie dotate di efficacia diretta, queste ultime fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost. (sentenze n. 129 del 2006; n. 406 del 2005; n. 166 e n. 7 del 2004). Poiché il denunciato art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nella versione risultante dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, è incompatibile con la norma interposta dell’art. 49 del Trattato CE come interpretata dalla Corte di giustizia, esso deve essere dichiarato costituzional mente illegittimo, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

4. – Restano assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale della norma censurata prospettati dal ricorrente e relativi alla violazione: a) dell’art. 87 del Trattato CE; b) dell’art. 81 del Trattato CE, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10».

5. – Le indicate ragioni di contrasto dell’impugnato art. 4 con l’art. 117, primo comma, Cost. valgono anche per il suddetto articolo nella sua formulazione originaria – precedente alla modifica introdotta dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007 – il quale stabiliva, al pari della successiva formulazione oggetto del ricorso in esame, che il soggetto passivo dell’imposta dovesse avere domicilio fiscale fuori dal territorio regionale. Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la pronuncia di illegittimità costituzionale deve pertanto estendersi, in via consequenziale, a tale previgente formulazione normativa.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo sostituito dall’art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007);

2) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 217

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413), promosso dalla Commissione tributaria regionale della Campania, nel procedimento cautelare vertente tra Giovanni Mario Annunziata e l’Agenzia delle entrate, ufficio di Nola, con ordinanza pronunciata il 13 ottobre 2008, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un procedimento instaurato a séguito dell’istanza proposta da un contribuente per ottenere, in via cautelare, la sospensione dell’esecuzione di una sentenza tributaria di secondo grado, la Commissione tributaria regionale della Campania, con ordinanza pronunciata il 13 ottobre 2008, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione, nonché, quale norma interposta all’art. 10 Cost., in riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848 – questione di legittimità dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413), il quale stabilisce che «Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto».

2. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto di fatto, che: a) con propria sentenza n. 417/07/2004, emessa in grado di appello e depositata il 27 aprile 2005, aveva rigettato – in riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento del gravame proposto dall’Agenzia delle entrate – il ricorso proposto da un contribuente avverso l’avviso di accertamento, ai fini dell’IRPEF, dei redditi derivanti dalla sua partecipazione ad una società di persone nell’anno 1993; b) il contribuente aveva successivamente presentato ricorso per cassazione («depositato il 20 giugno 2007») avverso la predetta sentenza di appello, deducendo che solo nel 2007 aveva avuto notizia, in occasione della ricezione della notificazione di una cartella di pagamento, dell’esistenza della citata sentenza di appello (e, quindi, del correlativo giudizio) riguardante il sopra menzionato avviso di accertamento; c) il ricorso pe r cassazione, in particolare, era basato sull’assunto che nel secondo grado di giudizio era stato violato il contraddittorio, perché la notifica dell’atto di appello, avvenuta a mezzo posta con la consegna del plico al portiere dell’appellato, non era stata seguita dall’invio di altra lettera raccomandata per informare il destinatario dell’avvenuta notificazione e l’appellato contribuente, pertanto, non aveva avuto notizia del proposto gravame; d) nelle more del giudizio di cassazione, il medesimo contribuente aveva presentato alla Commissione tributaria regionale un’istanza di sospensione, in via cautelare, dell’esecuzione dell’impugnata sentenza di secondo grado, invocando l’applicazione dell’art. 373 cod. proc. civ. e degli artt. 47, 49 e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992 e deducendo che dall’esecuzione della sentenza poteva derivargli grave ed irreparabile danno, a séguito sia della notificazi one nei suoi confronti della menzionata cartella di pagamento, basata sull’avviso di accertamento di cui alla sentenza di appello, sia della comunicazione (con nota del 25 luglio 2008) dell’eseguita iscrizione ipotecaria immobiliare effettuata – ai sensi dell’art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) – a garanzia, ad un tempo, del credito tributario risultante dalla suddetta sentenza di appello (pari ad € 210.988,62), nonché di un ulteriore credito, per altro titolo (pari ad altri € 342.951,48).

3. – Il giudice rimettente premette altresí, in punto di diritto, che: a) il denunciato comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 esclude espressamente l’applicabilità al processo tributario dell’art. 337 cod. proc. civ. e quindi, secondo «la giurisprudenza assolutamente prevalente», esclude l’applicabilità anche delle disposizioni menzionate da tale articolo, tra le quali è compreso l’art. 373 cod. proc. civ., il quale prevede, al secondo periodo del primo comma, che «il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione»; b) l’interpretazione della disposizione censurata fornita da tale giurisprudenza, secondo cui l’art. 373 cod. proc. civ. non è applicabile al processo tributario, costituisce «fedele applicazione delle regole ermeneutiche»; c) nella specie, «il rischio di danno irreparabile (in presenza di una sentenza annullatoria dell’accertamento in primo grado) nasce per la prima volta dalla sentenza di appello che ha “ribaltata” la prima sentenza, sicché sulla domanda di cautela (che non poteva che essere formulata dopo la sentenza di appello) mai vi è stata la pronuncia di giudice (né mai in precedenza avrebbe potuto esservi)».

4. − Tanto premesso, il giudice a quo afferma che la disposizione denunciata víola: a) il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché nel caso in cui – come nella specie – la pronuncia di appello abbia riformato la sentenza di primo grado favorevole al contribuente, irragionevolmente esclude la tutela cautelare «a fronte di atti impositivi esecutivi per la prima volta emessi in esecuzione di una sentenza di secondo grado» e, pertanto, consente il «sacrificio inevitabile ed irreparabile» dei diritti del contribuente, nonostante che il sistema processuale sia stato «creato a garanzia di diritti soggettivi tributari (a versare il giusto tributo)» e che la giurisprudenza della Corte di giustizia CE tenda ad «ampliare la sfera della tutela cautelare e ad affermare l’esigenza della effettiva e sostanziale tutela dei diritti derivanti dalla normativa comunitaria» (sentenze: Factorame del 19 giugno 1990, in causa C-231/89; Zuckerfabrik del 21 febbraio 1991, in cause C-143/88 e C-92/88; Atlanta del 9 novembre 1989, in causa C-465/92; Kofisa Italia dell’11 gennaio 2001, in causa C-1/99); b) gli artt. 23 e 24 Cost., perché consente «l’assoggettamento ad esecuzione forzata […] senza che in base alla legge il debitore possa adire un giudice in sede cautelare», pur essendo la disponibilità di misure cautelari componente essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 Cost. (come sottolineato da numerose pronunce della Corte costituzionale); c) l’art. 113 Cost., perché, escludendo «aprioristicamente» un rimedio cautelare avverso l’esecuzione di una sentenza di secondo grado che abbia riformato la sentenza di primo grado favorevole al contribuente, per ciò stesso esclude anche che la tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi legittimi sia «sempre» ammessa, come invece richiesto dall’evocato pa rametro costituzionale; d) gli artt. 111 Cost. e 6, comma 1, della Con venzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata a Roma il 4 novembre 1950, «in relazione all’art. 10 Cost.», perché «il ritardo di giustizia non può tradursi, nelle more della sentenza della Corte di cassazione» sulla sentenza di appello impugnata, «in perdita irreversibile del patrimonio del contribuente che, in ipotesi, risulterà avere ragione».

Il rimettente osserva, infine, che alla prospettata dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione denunciata non ostano i precedenti giurisprudenziali della Corte costituzionale concernenti l’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (sentenza n. 165 del 2000; ordinanze n. 217 del 2000, n. 325 del 2001 e n. 119 del 2007).

In particolare, con la sentenza n. 165 del 2000 la Corte costituzionale ha affermato che la previsione di mezzi di tutela cautelare nelle fasi di giudizio successive alla pronuncia di merito sulla domanda, in favore della parte soccombente nel merito, deve ritenersi rimessa alla discrezionalità del legislatore. Tuttavia – osserva il giudice a quo – tale pronuncia riguarda la «tutela ordinaria» del contribuente in sede cautelare e non quella «eccezionale», la cui esigenza sorga cioè, come nel caso di specie, solo a séguito della sentenza di appello che, riformando la sentenza di primo grado, abbia rigettato il ricorso del contribuente avverso un atto impositivo.

Con le ordinanze n. 217 del 2000 e n. 325 del 2001, la medesima Corte ha rilevato, poi, che gli art. 3 e 24 Cost. non impongono né il doppio grado cautelare né l’uniformità tra i vari tipi di processo, con la conseguenza che la previsione di cui all’art. 373 cod. proc. civ. può ben restare confinata nel processo civile. Tuttavia – osserva ancora il rimettente – nella presente questione non si invocano né «un parallelismo […] di tutela cautelare tra processo tributario e processo civile o anche processo amministrativo», «né il doppio grado cautelare», ma si richiama solo la necessità di garantire nel processo tributario una tutela cautelare, in unico grado, quando per la prima volta, a séguito della pronuncia di appello, «ne sorgano i presupposti e l’esigenza».

Con l’ordinanza n. 119 del 2007, infine, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione sottopostale in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sia perché nel giudizio a quo l’istanza di sospensione era stata reiterata dopo il suo rigetto, in limine dell’appello; sia perché «l’oggetto del provvedimento di sospensione non potrebbe mai essere la sentenza che ha respinto l’impugnazione, bensí semmai il provvedimento impositivo la cui impugnazione è stata rigettata in primo grado». Tuttavia – argomenta il medesimo rimettente – la sentenza di primo grado, nel caso in esame, non è stata sfavorevole al contribuente e, pertanto, a differenza dell’ipotesi esaminata dalla citata ordinanza n. 119 del 2007, l’istanza di sospensione non è stata né proposta né rigettata in sede di appello, ma è stata proposta solo dopo la sentenza di secondo grad o, con riferimento proprio al «“provvedimento impositivo”, ossia» alla «iscrizione a ruolo effettuata dall’Agenzia (da cui, a sua volta, deriva la iscrizione ipotecaria effettuata dall’agente della riscossione) in quanto è tale iscrizione (e la sua attuazione mediante ipoteca e consequenziale espropriazione forzata) a costituire il sopravvenuto pericolo di danno grave ed irreparabile».

5. − In ordine alla rilevanza della sollevata questione, il rimettente afferma che «sussisterebbero nella specie i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di sospensione sia dell’efficacia dell’impugnata sentenza di secondo grado, sia dell’efficacia della iscrizione a ruolo e dell’iscrizione di ipoteca emessi, in via consequenziale e derivata ex art. 68, comma 1, lett. c), d.lgs. nr. 546/1992». Ad avviso del giudice a quo sussisterebbero, infatti, i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora: a) quanto al primo, perché, in base ad una «delibazione sommaria incidenter tantum e limitatamente ai […] fini cautelari», il ricorso per cassazione proposto dal contribuente è fondato, posto che «il mancato invio della raccomandata di conferma» della notificazione effettuata «tramite agente postale con consegna […] al portiere» appare «in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 139 , comma 4, c.p.c. e 16, comma 2, e 61 d.lgs. nr. 546/1992 […], 60, comma 1, D.P.R. nr. 600/1973», soprattutto in considerazione del fatto che «l’art. 37, comma 27, lett.a) d.l. nr. 223/2006, conv. con modifiche in legge nr. 248/2006 ha chiarito che le notifiche a mezzo di messi di atti o avvisi di accertamento, se effettuata a mani di accipiens diverso dal destinatario, deve essere seguita dalla c.d. seconda raccomandata» e che «siffatta esigenza di una seconda raccomandata appare ancora piú pregnante, in caso di notifica a mezzo posta, quando si tratti di notifica di atti di appello»; b) quanto all’altro presupposto, perché è evidente il pericolo del grave ed irreparabile danno «che deriverebbe al contribuente dalla vendita forzata dei 18 immobili ipotecati […] e dalla consequenziale irrecuperabilità di quei beni, una volta coattivamente alienati», a fronte dell’adeguata salvaguardia dell’interesse dell’amminist razione finanziaria tramite la «garanzia reale» operante anche nel per iodo di eventuale sospensione dell’efficacia della sentenza di secondo grado e della consequenziale iscrizione ipotecaria, fino alla decisione della Corte di cassazione. In proposito, il rimettente aggiunge che l’autonoma impugnabilità del provvedimento di iscrizione ipotecaria – prevista dal comma 1, lettera e-bis), dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 – non fa venir meno la rilevanza della questione, perché tale impugnazione può essere proposta solo per i vizi propri dell’iscrizione, senza che il giudice possa sindacare «il presupposto di essa (nella fattispecie, la sentenza di secondo grado […] impugnata con ricorso per cassazione)».

6. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

La difesa dello Stato osserva che la Corte costituzionale si è costantemente pronunciata nel senso della legittimità costituzionale del denunciato art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (ordinanze n. 119 e n. 4 del 2007; n. 325 del 2001; n. 310, n. 217 e n. 165 del 2000) e «ritiene che tale orientamento debba essere confermato anche nel presente caso», senza che il giudice possa sindacare «il presupposto di essa (nella fattispecie, la sentenza di secondo grado […] impugnata con ricorso per cassazione)». Deduce, al riguardo, che la suddetta disposizione non si pone in contrasto con alcuno dei parametri costituzionali evocati dal rimettente: a) non con l’art. 3 Cost. – sotto l’aspetto della parità di trattamento rispetto ad altri sistemi processuali e della ragionevolezza –, perché non sussiste alcun principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo (vengono citate le s entenze n. 18 del 2000 e n. 82 del 1996; nonché l’ordinanza n. 325 del 2001) e perché la spiccata specificità del processo tributario, nel quale occorre ricercare il contemperamento tra la preminente esigenza pubblica di assicurare il flusso delle entrate tributarie e le pretese del contribuente, rende non irragionevole l’attribuzione di una minore ampiezza di poteri cautelari all’organo giudicante tributario, rispetto a quella dei giudici civili od amministrativi; b) non con l’art. 23 Cost., perché la pretesa dell’amministrazione tributaria trova il suo fondamento proprio nella legge; c) non con l’art. 24 Cost., perché, come sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale, «la garanzia costituzionale della tutela cautelare» deve ritenersi «imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo, una pronuncia di merito che accolga – con efficacia esecutiva – la domanda […] ovvero la re spinga» (sentenze n. 217 e n. 165 del 2000; ordinanza n. 325 del 2001) e perché a nulla rileva «che, nel caso di specie, non sia stata possibile, per l’andamento del processo, una doppia tutela cautelare avendo avuto il contribuente ragione nel primo grado e torto nel secondo»; d) non «con l’art. 111 Cost.», perché tale parametro è stato erroneamente evocato – in luogo dell’art. 117, primo comma, Cost. – con riferimento all’obbligo internazionale derivante dall’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007); e) non con l’art. 113 Cost., «atteso che il diritto azionato dalla parte pubblica, che si vuole paralizzare, è attualmente all’esame della Corte di cassazione». L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea infine, sotto il profilo della rilevanza, che l’iscrizione ipotecaria immobiliare effettuata con riferimento alla sentenza di appello impugnata per cassazione costituisce un atto autonomamente impugnabile e, per tanto, può essere sospesa in via cautelare, ove da essa possa derivare un danno grave ed irreparabile.

Considerato in diritto

1. – La Commissione tributaria regionale della Campania dubita – in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione, nonché, quale norma interposta all’art. 10 Cost., in riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848 – della legittimità dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), il quale stabilisce che «Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto».

La suddetta Commissione tributaria afferma che la norma denunciata víola gli evocati parametri costituzionali, «nella parte in cui non prevede, in unico grado, la possibilità di sospensione della sentenza di appello tributaria, impugnata con ricorso per cassazione, allorquando ivi sopravvenga, per la prima volta, il pericolo di un “grave ed irreparabile danno”, con carattere di irreversibilità e non altrimenti evitabile». In particolare, secondo la medesima Commissione, la disposizione censurata si pone in contrasto con: a) il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché, nel caso in cui la pronuncia di appello abbia riformato la sentenza di primo grado favorevole al contribuente, irragionevolmente esclude la tutela cautelare «a fronte di atti impositivi esecutivi per la prima volta emessi in esecuzione di una sentenza di secondo grado» sfavorevole all’appellato e, pertanto, consente il «sacrificio inevitabile ed irreparabile» dei diritti del contribuente; b) gli artt. 23 e 24 Cost., perché prevede l’assoggettamento ad esecuzione forzata […] senza che in base alla legge il debitore possa adire un giudice in sede cautelare», pur essendo la disponibilità di misure cautelari componente essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 Cost.; c) gli artt. 111 Cost. e 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848), «in relazione all’art. 10 Cost.», perché «il ritardo di giustizia non può tradursi, nelle more della sentenza della Corte di cassazione» avente ad oggetto la sentenza di appello impugnata, «in perdita irreversibile del patrimonio del contribuente che, in ipotesi, risulterà avere ragione»; d) l’art. 113 Cost., perché «apriori sticamente impedisce un rimedio cautelare avverso l’attuazione d i una pretesa tributaria, fondata su una sentenza di secondo grado, che abbia “ribaltato” in appello, una sentenza di primo grado pienamente favorevole al contribuente» e, pertanto, si pone in contrasto con il precetto costituzionale secondo cui la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi è «sempre» ammessa.

2. – La questione è inammissibile per tre distinti motivi.

2.1. – Il primo motivo di inammissibilità discende dal fatto che il rimettente, nonostante la mancanza di un diritto vivente sul punto, non ha esperito alcun tentativo di interpretare la disposizione censurata nel senso che essa consenta l’applicazione al processo tributario della sospensione cautelare prevista dall’art. 373 cod. proc. civ., con conseguente insussistenza del prospettato contrasto con gli evocati parametri costituzionali.

Il giudice a quo muove da due premesse interpretative: una, esplicita, per la quale la denunciata disposizione vieta espressamente l’applicazione, nel processo tributario, della sospensione cautelare di cui al citato art. 373 cod. proc. civ.; l’altra, implicita, per la quale, ove si potesse prescindere dal denunciato comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, la menzionata sospensione cautelare sarebbe pienamente compatibile con la complessiva disciplina del processo tributario.

La prima di tale premesse, tuttavia, non è argomentata in alcun modo dal giudice rimettente, il quale, al riguardo, si limita a richiamare genericamente la «giurisprudenza assolutamente prevalente» e ad affermare, altrettanto genericamente, che tale interpretazione della disposizione censurata deriverebbe, secondo una «fedele applicazione delle regole ermeneutiche», dal divieto di estendere al processo tributario l’art. 337 cod. proc. civ., il quale richiama, appunto, l’art. 373 dello stesso codice. Il rimettente, pertanto, omette di valutare se la disposizione denunciata sia interpretabile diversamente. Non tiene conto, infatti, che: a) non v’è, in proposito, alcuna pronuncia della Corte di cassazione, ma solo contrastanti orientamenti della giurisprudenza di merito, che non assurgono a diritto vivente; b) il contenuto normativo dell’art. 337 cod. proc. civ. (inapplicabile al processo tributario, per l’espresso dispost o della norma censurata) è costituito da una regola («L’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa») e da una eccezione alla stessa regola («salve le disposizioni degli artt. […] 373 […]»); c) l’art. 373 consta anch’esso, al primo comma, di una regola (primo periodo: «Il ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza») e di una eccezione (secondo periodo: «Tuttavia il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione»); d) l’inapplicabilità al processo tributario – in forza della disposizione censurata – della regola, sostanzialmente identica, contenuta nell’art. 337 cod. proc. civ. e nel primo periodo del primo comma dell’art . 373 dello stesso codice, non comporta necessariamente l’inappl icabilità al processo tributario anche delle sopraindicate “eccezioni” alla regola e, quindi, non esclude di per sé la sospendibilità ope iudicis dell’esecuzione della sentenza di appello impugnata per cassazione.

Da tale possibile interpretazione, alternativa a quella immotivatamente adottata dal rimettente, conseguirebbe che il comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 non costituisce ostacolo normativo ad applicare al processo tributario l’inibitoria cautelare di cui all’art. 373 cod. proc. civ. e che, pertanto – nella stessa prospettiva del giudice a quo, il quale ritiene l’art. 373 cod. proc. civ. astrattamente compatibile con il processo tributario –, la sollevata questione sarebbe irrilevante. Il mancato tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione denunciata si risolve, dunque, nella carenza di motivazione sulla rilevanza della questione e nella conseguente inammissibilità della questione medesima.

2.2. – Il secondo motivo di inammissibilità discende dal fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, nella specie non sussiste il requisito del fumus boni iuris dell’istanza cautelare.

In proposito, il giudice a quo osserva che il ricorso per cassazione proposto dal contribuente avverso la sentenza tributaria di secondo grado sarebbe fondato (sia pure in base ad una sommaria delibazione), perché il contraddittorio nel giudizio di appello sarebbe stato violato per effetto dell’illegittimità della notificazione dell’atto di appello, effettuata «tramite agente postale con consegna […] al portiere» e non seguita dall’«invio della raccomandata di conferma» della notificazione stessa, previsto dalla legge.

Tuttavia il giudice rimettente non considera che la notificazione di atti a mezzo del servizio postale, ivi compresi gli atti di appello nel processo tributario, è regolata dall’art. 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari). In relazione alle diverse formulazioni di tale articolo, derivanti dalle sue modificazioni legislative, occorre distinguere, per il caso di consegna del piego postale al portiere dello stabile del destinatario, tra le notificazioni effettuate anteriormente al 1° marzo 2008 e quelle effettuate a partire da tale data, cioè dalla data di entrata in vigore del comma 2-quater dell’art. 36 del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha introdotto il comma 8 del citato art. 7 della legge n. 890 del 1982). Nella prima ipotesi (cioè p er il periodo anteriore al 1° marzo 2008), la notificazione si perfeziona con la consegna del piego al portiere; nell’altra ipotesi, invece, la legge prevede, dopo la consegna del piego al portiere, anche l’invio al destinatario, da parte dell’agente postale, di una lettera raccomandata contenente la «notizia […] dell’avvenuta notificazione». In relazione al caso in esame, che concerne – come sopra visto – la consegna al portiere del piego contenente l’atto di appello, la suddetta modificazione dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982 non ha effetti retroattivi, come espressamente stabilito dal primo periodo del comma 2-quinquies dell’art. 36 del citato decreto-legge n. 248 del 2007 e come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione civile, sentenza n. 23589 del 2008). Nella specie, l’atto di appello è stato notificato sicuramente prima del 1° marzo 2008, perché l a correlativa sentenza di appello risulta pronunciata nel 2004 e depos itata nel 2005. Ne deriva che alla notificazione a mezzo posta di tale atto di appello era applicabile ratione temporis la formulazione originaria dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982, secondo la quale l’agente postale, dopo la consegna del piego al portiere, non doveva inviare al destinatario alcuna lettera raccomandata. Di qui l’infondatezza dell’istanza cautelare e, per l’effetto, l’inammissibilità, per irrilevanza, della sollevata questione.

2.3 – Il terzo motivo di inammissibilità discende dal fatto che, diversamente da quanto ulteriormente affermato dal rimettente, nella specie non v’è neppure la prova del requisito del periculum in mora.

Al riguardo, il rimettente afferma che tale istanza soddisfa il suddetto requisito, perché: a) è stata notificata al contribuente una cartella di pagamento comprensiva del debito tributario risultante dalla sentenza di appello impugnata per cassazione; b) è stata comunicata allo stesso contribuente l’avvenuta iscrizione ipotecaria effettuata a garanzia del soddisfacimento, ad un tempo, sia del debito tributario risultante dalla medesima sentenza di appello, sia di un ulteriore debito, per altro titolo, di importo di poco superiore; c) la cartella e l’iscrizione ipotecaria possono essere impugnate (ed eventualmente sospese in via cautelare) solo in relazione a vizi propri di tali atti e non in relazione all’invalidità dell’avviso di accertamento da essi presupposto ed oggetto della statuizione contenuta nella sentenza di appello impugnata per cassazione.

Va tuttavia rilevato che tali affermazioni del rimettente non investono la caratteristica propria ed essenziale del periculum in mora di cui all’art. 373 cod. proc. civ., cioè la sussistenza di un «danno grave ed irreparabile» derivante dall’esecuzione della sentenza impugnata per cassazione. Il rimettente, infatti, non fornisce alcuna motivazione in ordine né alla situazione economica del debitore, né alla possibilità per quest’ultimo di evitare, nelle more, l’esecuzione forzata immobiliare, né agli effetti lesivi irreversibili ed inadeguatamente ristorabili di tale esecuzione. Siffatta motivazione sarebbe stata necessaria anche in considerazione del consolidato orientamento giurisprudenziale (tale da costituire “diritto vivente”), secondo il quale, l’«irreparabilità del danno» di cui all’art. 373 cod. proc. civ. va intesa, quantomeno, nel senso di un intollerabile scarto tra il pr egiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza nelle more del giudizio di cassazione e le concrete possibilità di risarcimento in caso di accoglimento del ricorso per cassazione. Ne consegue l’omessa motivazione circa la sussistenza del periculum in mora e l’ulteriore profilo di inammissibilità della sollevata questione, per difetto di motivazione sulla rilevanza.

3. – La riscontrata inammissibilità della questione impedisce, ovviamente, l’esame del merito e, in particolare, non consente di valutare la richiesta del rimettente di procedere ad un riesame della giurisprudenza di questa Corte relativa all’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, in tema di tutela cautelare nel processo tributario.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413), sollevata dalla Commissione tributaria regionale della Campania con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione, nonché, quale norma interposta all’art. 10 Cost., in riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 218

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 33, commi 1, lettere b) e c), e 2, 36, 37, 38, comma 5, lettera e), 39, comma 2, e 40 della legge della Regione Liguria 11 maggio 2009, n. 18 (Sistema educativo regionale di istruzione, formazione e orientamento), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 21 luglio 2009, depositato in cancelleria il 22 luglio 2009 e iscritto al n. 50 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Liguria;

udito nella udienza pubblica del 25 maggio 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese;

udito l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso in via principale ritualmente notificato e depositato (reg. ric. n. 50 del 2009), ha proposto questione di legittimità costituzionale degli articoli 33, commi 1, lettere b) e c), e 2, 36, 37, 38, comma 5, lettera e), 39, comma 2, e 40 della legge della Regione Liguria 11 maggio 2009, n. 18 (Sistema educativo regionale di istruzione, formazione e orientamento), per contrasto con gli articoli 33, sesto comma, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost.;

che, in materia di formazione superiore, gli artt. 33, commi 1, lettere b) e c), e 2, 36 e 37 della legge della Regione Liguria n. 18 del 2009 hanno previsto che la Regione possa intervenire sui percorsi di specializzazione post-qualifica e post-diploma e sui percorsi di alta formazione al fine di ampliare e riqualificare l’offerta della formazione professionale;

che, in materia di apprendistato, gli artt. 38, comma 5, lettera e), 39, comma 2, e 40 della suddetta legge regionale hanno attribuito alla Giunta regionale la disciplina dei profili formativi del contratto di apprendistato professionalizzante e le modalità di riconoscimento e certificazione delle competenze;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, lamenta, in primo luogo, che gli artt. 33, comma 1, lettera b), e 36, comma 1, della legge della Regione Liguria n. 18 del 2009, dando la possibilità alla Regione di predisporre corsi formativi, successivi al conseguimento del diploma, volti ad abilitare all’esercizio di professioni, violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento alla materia «professioni»;

che, in secondo luogo, ad avviso della difesa dello Stato, gli artt. 33, commi 1, lettera c), e 2, e 37 della citata legge regionale, stabilendo che la Regione possa ampliare e riqualificare l’offerta formativa attraverso la previsione di percorsi di alta formazione che comprendono master, dottorati di ricerca e scuole di specializzazione e che conferiscono crediti formativi, violerebbero l’art. 33, sesto comma, Cost.;

che, in terzo luogo, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, gli artt. 38, comma 5, lettera e), 39, comma 2, e 40 della legge della Regione Liguria n. 18 del 2009, nel disciplinare l’apprendistato professionalizzante, attribuendo alla Regione la definizione dei profili formativi e delle modalità di riconoscimento e certificazione nell’ambito della formazione in apprendistato all’interno delle aziende, violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.;

che la Regione Liguria, costituitasi in giudizio, ha dedotto l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del ricorso;

che, con la legge della Regione Liguria 6 agosto 2009, n. 33 (Adeguamenti della legislazione regionale), sono state modificate le disposizioni oggetto delle prime due censure;

che il Presidente del Consiglio dei ministri ha deliberato di rinunciare al ricorso in data 9 ottobre 2009;

che l’Avvocatura generale dello Stato, predisposta la dichiarazione di rinuncia il 12 ottobre 2009 e notificata la medesima alla Regione Liguria il 26 ottobre 2009, ha provveduto a depositarla presso la cancelleria di questa Corte in data 21 maggio 2010;

che la rinuncia è stata formalmente accettata dalla Regione Liguria con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte lo stesso 21 maggio 2010.

Considerato che, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dall’accettazione delle parti costituite, comporta l’estinzione del processo.

per questi motivi

La Corte costituzionale

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 219

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi dal Magistrato di sorveglianza di Modena con ordinanze del 22 luglio (n. 3 ordinanze), del 19 e del 22 agosto 2009, rispettivamente iscritte ai nn. da 316 a 320 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto che, con ordinanza del 22 luglio 2009 (r.o. n. 316 del 2009), il Magistrato di sorveglianza di Modena ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, secondo l’interpretazione adottata dalla Procura generale della Corte di cassazione, non consente che siano concesse all’internato, sottoposto alla misura di sicurezza della casa di lavoro, più licenze quindicinali in via continuativa, finalizzate alla fruizione di un programma extramurario di risocializzazione;

che il giudice a quo riferisce di dover decidere sulle istanze, presentate da un soggetto internato a far tempo dal 18 aprile 2008, presso la Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano (Modena), in esecuzione della misura di sicurezza della casa di lavoro per la durata di due anni;

che le istanze hanno ad oggetto la concessione di più periodi di licenza continuativi, finalizzati alla prosecuzione del rapporto di collaborazione con la facoltà di Scienza della formazione presso l’Università degli studi dell’Aquila;

che la Direzione dell’istituto penitenziario ha espresso parere favorevole, rappresentando che l’internato si trovava in licenza da lungo tempo, che «durante questo periodo all’esterno […] si è laureato a pieni voti ed ha iniziato una collaborazione di lavoro con l’Università», e che l’Ufficio esecuzione penale di Pescara, con precedenti note, ha valutato positivamente il percorso esterno dell’interessato;

che il giudice a quo evidenzia come, in casi simili a quello odierno, fosse solito concedere più licenze di quindici giorni ciascuna, posto che, per un verso, gli internati non possono accedere alla misura alternativa dell’affidamento in prova, anche di carattere terapeutico, prevista dall’art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), e che, per altro verso, non potrebbe essere concessa la licenza di riadattamento sociale, prevista dall’art. 53, secondo comma, secondo periodo, ord. pen., della durata massima di trenta giorni all’anno, perché non finalizzata a scopi riabilitativi e incompatibile temporalmente con l’attuazione di un programma terapeutico;

che, nel caso di specie, non sarebbe concedibile neppure la licenza finale di esperimento, prevista dal citato art. 53, primo comma, in riferimento agli ultimi sei mesi del periodo di internamento che precede il riesame di pericolosità, in quanto tale termine non è ancora maturato;

che inoltre, prosegue il rimettente, a differenza di quanto accade per i detenuti semiliberi – per i quali, tra l’altro, la licenza si configura come istituto premiale ed incontra il limite di quarantacinque giorni all’anno –, nessuna disposizione di legge stabilisce un tetto massimo di licenze concedibili agli internati;

che comunque, per questi ultimi, non rivestirebbe alcun significato la regola del rientro in istituto tra una licenza e l’altra, essendo gli stessi sottoposti ex lege alla libertà vigilata durante il periodo di licenza;

che la concedibilità di licenze quindicinali continuative agli internati sarebbe confermata, a contrario, dalla disposizione contenuta nell’art. 30-ter, primo comma, ord. pen., in tema di permessi premio, nella quale, oltre al già ricordato tetto massimo di fruibilità annua di quarantacinque giorni, è previsto il limite di durata di quindici giorni «ogni volta», con una precisazione che varrebbe proprio ad impedire la concessione dei permessi in via continuativa;

che dunque, a parere del giudice a quo, una maggiore flessibilità nell’applicazione dello strumento della licenza, all’interno del sistema delle misure di sicurezza, andrebbe a compensare la mancata previsione di istituti corrispondenti a talune misure alternative alla detenzione, posto che «lo stesso risultato pratico non segregante può essere conseguito attraverso la strutturazione di licenze»;

che, diversamente, si realizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il detenuto – il quale può accedere a misure finalizzate a programmi terapeutici e di risocializzazione, lasciando l’istituto di detenzione anche molti anni prima del momento di fine-pena – e l’internato, il quale «dovrebbe rimanere necessariamente segregato (se gli è stata applicata la casa di lavoro per due anni) almeno un anno e sei mesi prima di poter accedere ad esperienze extramurarie continuative»;

che, inoltre, nei casi in cui allo stesso soggetto debba essere applicata la misura di sicurezza della casa di lavoro dopo l’esecuzione di condanna a pena detentiva, e quest’ultima sia stata espiata in regime di affidamento in prova, si determinerebbe una ingiustificata interruzione del percorso di risocializzazione iniziato durante la fase di espiazione della pena, a fronte del carattere non retributivo della misura di sicurezza;

che il rimettente procede ad elencare le molteplici situazioni che, secondo «una diffusa e ventennale interpretazione degli Uffici di sorveglianza», sarebbero ricomprese nel concetto di gravi esigenze, e dunque consentirebbero la concessione di licenze in via continuativa: il soggiorno e la frequentazione di parenti, il soggiorno in appartamento protetto, la sottoposizione a programma terapeutico presso il Sert ovvero presso comunità terapeutica, anche psichiatrica, l’assistenza a parenti handicappati ovvero affetti da gravi malattie, lo svolgimento di attività lavorativa;

che, a parere del giudice a quo, tale applicazione dell’istituto della licenza sarebbe l’esito dell’«unica esegesi costituzionalmente orientata» della norma censurata, come confermato anche dalla sentenza n. 107 del 2009 [recte: n. 208 del 2009] della Corte costituzionale, in cui si trova affermato che «risulta ormai presente nella disciplina sulle misure di sicurezza il principio secondo il quale si deve escludere l’automatismo che impone al giudice di disporre comunque la misura detentiva, anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, accompagnata da prescrizioni stabilite dal giudice medesimo, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale»;

che, peraltro, in senso opposto alla interpretazione prescelta, il rimettente segnala che, secondo la Procura generale della Corte cassazione, le licenze continuative in questione, in quanto non intervallate da un rientro in istituto, sarebbero state emesse dallo stesso rimettente «con grave violazione di legge, e segnatamente dell’art. 53 O.P., in quanto le dette licenze sono suddivise “solo formalmente e apparentemente in più distinte licenze della durata di 15 giorni ciascuna […] in aperto contrasto con la succitata disposizione di legge che prevede la possibilità di concedere licenze di tal fatta solo per gravi esigenze personali o familiari e per un periodo non superiore a quindici giorni”»;

che l’opzione interpretativa fatta propria dalla Procura generale della Corte di cassazione, secondo il rimettente, non potrebbe essere considerata «come un semplice parere od opinione di parte dato che nella materia penitenziaria può prevalere – sulle decisioni del giudice – una semplice volontà, anche del tutto sfornita di motivazione, espressa dall’organo dell’accusa», come confermato dalla previsione contenuta nell’art. 4-bis, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975, che vieta la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti ed internati per delitti dolosi, qualora il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunichi l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata;

che, pur precisando di non ignorare che la questione di costituzionalità è inammissibile se l’autorità rimettente non «motiva circa l’assenza di opzioni interpretative costituzionalmente orientate», il giudice a quo evidenzia come, nel caso di specie, tale opzione sia «accusata di grave violazione di legge»;

che, di conseguenza, l’art. 53, secondo comma, primo periodo, ord. pen., «così come interpretato dalla Procura generale della Cassazione», risulterebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto determina una ingiustificata disparità di trattamento tra detenuti ed internati, avuto riguardo alla fruibilità di un preciso programma extramurario di risocializzazione;

che il Magistrato di sorveglianza di Modena, con quattro ordinanze di analogo tenore (r. o. nn. 317, 318, 319, 320 del 2009, deliberate il 22 luglio, il 19 agosto e il 22 agosto 2009), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, primo periodo, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui, secondo l’interpretazione adottata dalla Procura generale della Corte di cassazione, non consente che siano concesse all’internato, sottoposto alla misura di sicurezza della casa di lavoro, più licenze quindicinali in via continuativa, finalizzate alla fruizione di un programma terapeutico contro la tossicodipendenza ovvero l’alcooldipendenza;

che nel procedimento da cui promana l’ordinanza r.o. n. 317 del 2009 il giudice a quo è chiamato a valutare le istanze presentate da un soggetto «già internato» presso la Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano (Modena), il quale chiede la concessione di più periodi di licenza continuativi, finalizzati alla fruizione di un programma terapeutico contro la tossicodipendenza presso una comunità di recupero ove era stato collocato, in regime di arresti domiciliari, dal Tribunale di Genova;

che la relazione della citata comunità, allegata alle istanze, dà atto che l’internato sta seguendo proficuamente il programma terapeutico;

che l’istante, secondo quanto precisato dal rimettente, «al termine della pena detentiva, deve essere internato presso il menzionato Istituto penitenziario in esecuzione della misura di sicurezza della casa di lavoro per anni tre»;

che il giudice a quo, richiamate le argomentazioni già esposte in riferimento all’ordinanza r.o. n. 316 del 2009, osserva come, nel caso di specie, l’unico modo per assicurare la prosecuzione del programma terapeutico risieda nella concessione delle licenze quindicinali in via continuativa;

che il rimettente evidenzia come l’interpretazione restrittiva, fatta propria dalla Procura generale della Corte di cassazione, sarebbe produttiva di una ingiustificata disparità di trattamento tra gli internati e i detenuti, con evidenti ricadute sul diritto alla salute;

che infatti, mentre l’internato sottoposto a misura di sicurezza detentiva potrebbe fruire di un programma terapeutico soltanto negli ultimi sei mesi di applicazione della misura, attraverso la concessione della licenza finale di esperimento, prevista dall’art. 53, secondo comma, seconda parte, ord. pen., il detenuto in esecuzione di pena, nelle analoghe condizioni di tossicodipendenza, può fruirne negli ultimi sei anni di pena, e con vincoli meno intensi di quelli ai quali è sottoposto ex lege l’internato in licenza;

che, pertanto, se non si accede alla lettura della norma che consente la concessione di più licenze continuative, si nega all’internato il diritto di curarsi, tenuto conto che non esistono programmi terapeutici della durata di quindici giorni;

che, per il resto, sono svolti gli stessi argomenti esposti nell’ordinanza r.o. n. 316 del 2009;

che nel procedimento da cui promana l’ordinanza n. 318 del 2009 il giudice a quo riferisce di dover decidere sulle istanze presentate da un soggetto internato presso la Casa di reclusione di Castelfranco Emilia (Modena), il quale chiede la concessione di più periodi di licenza continuativi per fruire di un programma terapeutico contro la tossicodipendenza e, contestualmente, per esercitare attività lavorativa;

che la Direzione dell’istituto penitenziario ha espresso parere favorevole alla concessione delle licenze, in quanto necessarie alla prosecuzione del programma sopra indicato;

che il rimettente precisa che l’istante è internato in esecuzione della misura di sicurezza della casa di lavoro per la durata di due anni, la cui applicazione è iniziata il 25 ottobre 2008, «sicché il periodo minimo verrà a scadere il 24 ottobre 2010»;

che, nel prosieguo dell’ordinanza, sono riportati gli stessi argomenti esposti nelle ordinanze r.o. n. 316 e n. 317 del 2009;

che, nel procedimento da cui promana l’ordinanza r.o. n. 319 del 2009, il giudice a quo è chiamato a valutare le istanze presentate da un soggetto internato presso la Casa di reclusione di Castelfranco Emilia (Modena), il quale chiede la concessione di più periodi di licenza continuativi finalizzati alla fruizione, per tutta la durata della misura di sicurezza, di un programma terapeutico contro la tossicodipendenza presso il Sert di Vicenza, resosi disponibile come da nota del 7 luglio 2009;

che, nel prosieguo dell’ordinanza, sono riportati gli stessi argomenti esposti nelle ordinanze r.o. n. 316 e n. 317 del 2009;

che, nel procedimento da cui promana l’ordinanza r.o. n. 320 del 2009, il giudice a quo è chiamato a valutare le istanze presentate da un soggetto internato presso la Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano (Modena), il quale chiede la concessione di più periodi di licenza continuativi per «strutturare un programma terapeutico contro la tossicodipendenza presso il Sert di Genova che, a tal fine, gli ha fissato diversi appuntamenti», come da nota dello stesso Sert;

che il rimettente precisa che l’istante è internato in esecuzione della misura di sicurezza della casa di lavoro per la durata di due anni;

che, nel prosieguo dell’ordinanza, sono riportati gli stessi argomenti esposti nelle ordinanze r.o. n. 316 e n. 317 del 2009;

che, con atti di identico tenore, è intervenuto in ciascuno dei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile;

che la difesa dello Stato evidenzia come la norma che detta la disciplina delle licenze quindicinali agli internati non sia censurata secondo interpretazione fatta propria dal rimettente, bensì nella lettura offertane dalla Procura generale della Corte di cassazione;

che dunque, se anche l’opzione interpretativa adottata dal rimettente sia qualificata dalla citata Procura generale come violazione di legge, ciò non varrebbe ad esonerare il rimettente dall’applicazione della norma nel rispetto dei principi costituzionali;

che inoltre sarebbe privo di pertinenza il richiamo, operato dal giudice a quo, alla disposizione contenuta nell’art. 4-bis, comma 3-bis, ord. pen. che attribuisce efficacia preclusiva, ai fini della concessione dei benefici penitenziari ai detenuti ed agli internati per reati dolosi, alla comunicazione del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale dell’attualità di collegamenti tra il detenuto o l’internato e la criminalità organizzata;

che, infatti, la particolare competenza attribuita agli indicati organi inquirenti è circoscritta a ben definite situazioni e non può incidere sulla potestà interpretativa delle previsioni in materia di licenze agli internati, che spetta in via esclusiva ai competenti organi giurisdizionali;

che, pertanto, la questione risulterebbe manifestamente inammissibile in quanto fondata su un’interpretazione della legge difforme da quella che il giudice a quo reputa costituzionalmente imposta.

Considerato che il Magistrato di sorveglianza di Modena dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione (r.o. n. 316 del 2009), della legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, secondo l’interpretazione adottata dalla Procura generale della Corte di cassazione, non consente che siano concesse all’internato, sottoposto alla misura di sicurezza della casa di lavoro, più licenze quindicinali in via continuativa, finalizzate alla fruizione di un programma extramurario di risocializzazione;

che lo stesso rimettente, con quattro ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 317, 318, 319, 320 del 2009), dubita, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., della legittimità costituzionale della medesima disposizione, nella parte in cui, secondo l’interpretazione adottata dalla Procura generale della Corte di cassazione, non consente che siano concesse all’internato, sottoposto alla misura di sicurezza della casa di lavoro, più licenze quindicinali in via continuativa, finalizzate alla fruizione di un programma terapeutico per superare la tossicodipendenza o l’alcooldipendenza;

che, preliminarmente, rilevata la parziale identità dei parametri evocati e la coincidenza delle argomentazioni poste a fondamento delle censure, le questioni vanno riunite per essere decise con un’unica pronuncia;

che il giudice a quo, il quale deve provvedere in merito ad istanze di concessione di licenze quindicinali continuative avanzate da soggetti sottoposti alla misura di sicurezza della casa di lavoro, ritiene che l’opzione interpretativa restrittiva, che vieta la concessione delle licenze come richieste, sia produttiva di ingiustificata disparità di trattamento tra internati sottoposti a misure di sicurezza detentive e detenuti in esecuzione di pena, con incidenza anche sul diritto alla salute, nei casi in cui le licenze siano finalizzate alla fruizione di un programma terapeutico contro la tossicodipendenza;

che il rimettente evidenzia come, a differenza dei detenuti, gli internati non possano accedere alle misure alternative che consentono periodi anche prolungati di permanenza all’esterno, funzionali a percorsi di risocializzazione ovvero di carattere terapeutico, e come, pertanto, l’unica esegesi costituzionalmente orientata della norma censurata sarebbe quella che ammette la concessione delle licenze in via continuativa;

che lo stesso rimettente riconduce il divieto di concessione di licenze quindicinali in via continuativa al censurato art. 53, secondo comma, primo periodo, ord. pen. «così come interpretato dalla Procura generale della Corte di cassazione», sul rilievo che tale interpretazione non potrebbe essere considerata alla stregua di un «semplice parere od opinione di parte», poiché nel sistema penitenziario le posizioni assunte dall’organo inquirente possono risultare vincolanti, come accade per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti ed internati per delitti dolosi, che risulta vietata nei casi in cui il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunichi l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata;

che il giudice a quo, peraltro, non fornisce indicazioni sulla rilevanza dell’opzione interpretativa attribuita alla Procura generale della Corte di cassazione in riferimento ai procedimenti a quibus, né attribuisce alla predetta opzione le connotazioni del diritto vivente;

che dunque nella specie, ed a parte ogni altra considerazione, il dubbio di legittimità costituzionale così prospettato si risolve in un improprio tentativo di ottenere da questa Corte l’avallo della (diversa) interpretazione della norma propugnata dal rimettente, con uso evidentemente distorto dell’incidente di costituzionalità (ex plurimis, ordinanze n. 150 del 2009, n. 161 del 2007, n. 114 del 2006);

che, di conseguenza, le questioni debbono essere dichiarate manifestamente inammissibili.

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Modena, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 220

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Cuneo con ordinanza del 18 dicembre 2009, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto che il Magistrato di sorveglianza di Cuneo, con ordinanza del 18 dicembre 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, terzo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede che i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione possano avere colloqui con i propri difensori solo per un massimo di tre volte alla settimana, di persona o a mezzo del telefono, per la stessa durata stabilita quanto ai colloqui con i familiari;

che il giudice a quo è investito del reclamo proposto da un detenuto per il quale è stata disposta, a norma dell’art. 41-bis ord. pen., la sospensione delle regole trattamentali;

che detto reclamo, avanzato ai sensi dell’art. 35 ord. pen., avrebbe ad oggetto «la nuova disciplina» prevista dalla norma censurata, introdotta nel testo dell’art. 41-bis mediante l’art. 2, comma 25, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica);

che il rimettente rileva, in via preliminare, come la giurisprudenza costituzionale abbia stabilito che la condizione detentiva non implica il difetto di tutela delle posizioni giuridiche soggettive degli interessati, anche nei loro rapporti con l’Amministrazione penitenziaria, e che tale tutela deve assumere carattere giurisdizionale (è citata la sentenza n. 26 del 1999);

che lo stesso rimettente prosegue osservando come, nella perdurante assenza di una organica disciplina degli strumenti di tutela, la giurisprudenza ordinaria abbia provveduto ad individuare una sede processuale immediatamente utile all’esercizio della giurisdizione, e cioè il procedimento di reclamo disciplinato dall’art. 14-ter dello stesso ordinamento penitenziario (è citata la sentenza delle Sezioni unite penali della Cassazione n. 5 del 2003);

che nella specie, dunque, il giudice a quo ha disposto procedersi nell’indicata sede giurisdizionale, con conseguente sua legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale;

che nei confronti del reclamante il Ministro della giustizia, con provvedimento del 19 novembre 2009, ha decretato la sospensione delle regole ordinarie, tra l’altro, quanto ai «colloqui con i familiari e conviventi con frequenza superiore complessivamente ad uno al mese e di durata superiore ad un’ora (art. 18 legge 354/75) a prescindere dal numero di persone ammesse a colloquio», prescrivendo inoltre che «detti colloqui» avvengano «con le modalità di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b)» della stessa legge n. 354 del 1975;

che, in base citato provvedimento ex art. 41-bis ord. pen., la Direzione della Casa circondariale di Cuneo avrebbe «applicato direttamente, dando avviso ai detenuti ristretti in tale regime, la normativa dettata dalla legge n. 94 del 15 luglio 2009», limitando i colloqui con i difensori «ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari»;

che la parte reclamante, con l’atto introduttivo del giudizio principale, ha eccepito in ordine alla legittimità costituzionale della disciplina introdotta nel 2009, per l’ingiustificata disparità di trattamento istituita tra i detenuti soggetti al regime speciale (si tratti di imputati o condannati) e tutti gli altri detenuti i quali, «pur trovandosi in identiche situazioni giuridiche, non sono soggetti a tale restrizione»;

che il rimettente, facendo propri i rilievi difensivi, aggiunge che una discriminazione non giustificata sarebbe introdotta anche rispetto ai detenuti in espiazione di pena per i delitti elencati all’art. 4-bis ord. pen., per i quali le norme regolamentari prevedono restrizioni nei colloqui solo con riguardo ai familiari;

che la sperequazione varrebbe a colpire – con violazione concomitante dell’art. 24, secondo comma, Cost. – detenuti generalmente protagonisti di plurime e complesse vicende giudiziarie, spesso ristretti lontano dai luoghi di origine e dalla residenza dei loro difensori, e cioè proprio persone che avrebbero il maggior bisogno di flessibilità e di libera durata nei colloqui con i difensori medesimi;

che il diritto delle persone ristrette nella libertà a conferire con un difensore non potrebbe essere compresso, se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti, così come riconosciuto dalla Corte costituzionale anche con riguardo alla fase esecutiva del procedimento (è citata la sentenza n. 212 del 1997);

che il giudice a quo, a tale proposito, rammenta come, prima della novella attuata con la legge n. 94 del 2009, soltanto i colloqui con persone appena private della libertà a fini cautelari, nei casi eccezionali indicati all’art. 104 del codice di procedura penale, potessero subire limitazioni;

che, per altro, tali limitazioni consistono in una preclusione dalla durata assai breve, attuata mediante un provvedimento giudiziale a carattere individuale e non imposta, come nella specie, da una regola generale ed inderogabile;

che, a parere del rimettente, contrasta con il principio di uguaglianza e con il diritto di difesa una disciplina che limita i contatti tra detenuto e difensore a tre colloqui settimanali della durata di un’ora, in alternativa ad altrettanti colloqui telefonici della durata di dieci minuti, salva la possibilità di corrispondenza epistolare;

che l’illegittimità della norma censurata deriverebbe anche dalla violazione del terzo comma dell’art. 111 Cost., non assicurando la legge che la persona accusata disponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la propria difesa;

che le descritte limitazioni all’esercizio della difesa non potrebbero giustificarsi alla luce di un bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti, perché nella specie tali interessi non sarebbero «individuati»;

che non potrebbe affermarsi, in particolare, l’esigenza di prevenire contatti tra i reclusi particolarmente pericolosi e le organizzazioni criminali di riferimento, perché in tal senso, valendo comunque il divieto assoluto di ascolto e di documentazione del tenore dei colloqui con i difensori, le limitazioni di carattere temporale non presenterebbero alcuna utilità;

che sarebbe irragionevole, d’altra parte, il necessario frazionamento delle comunicazioni, che a parere del rimettente impedirebbe finanche il «cumulo» dei tempi a disposizione degli interessati;

che neppure ragioni di economia della spesa pubblica potrebbero sottendere ai limiti concernenti i colloqui telefonici, visto che l’onere relativo è posto a carico del detenuto;

che nessuna delle indicate lesioni di principi costituzionali, secondo il giudice a quo, potrebbe essere evitata mediante una interpretazione «adeguatrice»;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio mediante atto depositato in data 2 marzo 2010, chiedendo che sia dichiarata la inammissibilità ovvero la infondatezza della questione sollevata;

che il rimettente, infatti, non avrebbe dato alcuna concreta indicazione sull’oggetto del reclamo presentato dal detenuto, «riconducendo le censure di illegittimità costituzionale alla norma “in sé” e non in quanto applicabile al caso concreto pendente davanti al giudice»;

che la questione, in ogni caso, sarebbe infondata, posto che le restrizioni connesse al regime speciale, comprese quelle concernenti i colloqui, sarebbero giustificate dall’esigenza di contenere la pericolosità di determinati soggetti, individuati non secondo una logica presuntiva, ma in esito ad una valutazione specifica ed individuale;

che detta giustificazione varrebbe anche riguardo al nuovo regime dei colloqui difensivi, le cui restrizioni sarebbero compatibili con l’esercizio effettivo del diritto di difesa, e tuttavia concorrerebbero a garantire la necessaria riduzione dei rapporti tra detenuti di accertata pericolosità e «mondo esterno»;

che si tratterebbe, in altre parole, di un bilanciamento la cui legittimità sarebbe già stata riconosciuta dalla Corte costituzionale, di fronte all’esigenza di difendere «i cittadini e l’ordine giuridico», e a condizione che il diritto di difesa del singolo non sia sostanzialmente soppresso, con conseguente violazione dell’art. 24 Cost.;

che andrebbe parimenti esclusa, secondo la difesa dello Stato, la pretesa violazione dell’art. 3 Cost., perché la situazione dei detenuti soggetti al regime speciale non potrebbe essere comparata a quella dei detenuti per i quali non sussistono, in astratto od in concreto, i presupposti per la sospensione delle regole trattamentali;

che neppure sussisterebbe, infine, un contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 111 Cost., poiché, secondo l’Avvocatura generale, tale norma non attiene alla tutela dei rapporti tra la persona accusata ed il proprio difensore (tutela rimessa all’art. 24 Cost.), ma alla sola organizzazione del processo ed ai rapporti tra la persona inquisita ed il giudice;

che la disposizione costituzionale citata garantirebbe, in ogni caso, le sole condizioni «necessarie» alla preparazione della difesa, cioè le condizioni indispensabili in vista d’una efficace azione difensiva, le quali sarebbero assicurate, in astratto come nel caso concreto, da una disciplina che pur sempre consente ripetuti colloqui settimanali tra i detenuti ed i rispettivi difensori.

Considerato che il Magistrato di sorveglianza di Cuneo ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, terzo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede che i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione possano avere colloqui con i propri difensori solo per un massimo di tre volte alla settimana, di persona o a mezzo del telefono, per la stessa durata stabilita quanto ai colloqui con i familiari;

che il procedimento principale, condotto in applicazione dell’art. 14-ter ord. pen., sembra introdotto da un reclamo direttamente rivolto «avverso la nuova disciplina prevista dall’art. 41-bis […] in materia di colloqui visivi e telefonici con i difensori», e dunque al solo scopo di sindacare la legittimità costituzionale di una norma di legge;

che la coincidenza di oggetto tra giudizio principale e procedimento incidentale di incostituzionalità, per costante giurisprudenza di questa Corte, è causa di inammissibilità della questione (da ultimo, sentenza n. 38 del 2009);

che il rimettente, in ogni caso, ha precluso ogni possibile controllo sulla rilevanza della questione sollevata, omettendo di indicare se il reclamante avesse richiesto colloqui in eccesso rispetto al limite attualmente consentito, se detti colloqui fossero pertinenti a specifici procedimenti o adempimenti per i quali si ponessero esigenze difensive altrimenti non assicurabili, se fossero intervenuti provvedimenti di rigetto dell’Amministrazione penitenziaria;

che l’assoluta carenza di motivazione in punto di rilevanza è causa di manifesta inammissibilità della questione (da ultimo, ex multis, ordinanza n. 311 del 2009).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, terzo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Cuneo con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 221

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 5, lettere a), b), c) e k), e 7, comma 9, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 4 giugno 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sviluppo economico regionale, sostegno al reddito dei lavoratori e delle famiglie, accelerazione di lavori pubblici), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 5-10 agosto 2009, depositato in cancelleria il 7 agosto 2009 ed iscritto al n. 53 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia;

udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

udito l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia.

Ritenuto in fatto

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 5 agosto 2009 e depositato il successivo giorno 7, ha impugnato l’art. 1, comma 5, lettere a), b), c) e k), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 4 giugno 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sviluppo economico regionale, sostegno al reddito dei lavoratori e delle famiglie, accelerazione di lavori pubblici), per asserita violazione dell’art. 4, primo comma, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) «in relazione all’art. 117, secondo comma, lettere e) e l)» della Costituzione.

Con il ricorso è stato, inoltre, impugnato l’art. 7, comma 9, della predetta legge regionale n. 11 del 2009 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

1.2.— Il ricorrente sottolinea come la Regione, pur avendo una potestà legislativa primaria in materia di lavori pubblici di interesse regionale ai sensi dell’art. 4, primo comma, n. 9), della legge costituzionale n. 1 del 1963, deve tuttavia rispettare i vincoli posti dalla stesso art. 4, primo comma, tra i quali quelli risultanti dalle norme fondamentali di riforma economico-sociale. Si rileva, inoltre, come la Corte costituzionale abbia già avuto modo di stabilire che lo Stato conserva, nelle materie di sua competenza ex art. 117 Cost., il potere di introdurre norme volte a garantire standard minimi ed uniformi ed introdurre limiti unificanti, con prevalenza sulla competenza primaria regionale. Ciò varrebbe, in particolare, per la materia della tutela della concorrenza nel settore dei contratti pubblici (si citano le sentenze n. 160 del 2009, n. 411 del 2008 e n. 401 del 2007), come risulterebbe dalle regole poste dall’art. 4 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).

Avuto riguardo a questi principi, sarebbero contrarie agli indicati parametri costituzionali le suddette norme come di seguito riportate.

1.3.— L’art. 1, comma 5, lettera a), ha modificato l’art. 8, comma 8, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 31 maggio 2002, n. 14 (Disciplina organica dei lavori pubblici), stabilendo che «per i lavori di minore complessità, la cui progettazione non richieda fasi autonome di approfondimento, il progetto definitivo e quello esecutivo sono sviluppati in un unico elaborato tecnico, salvo diversa indicazione del responsabile unico del procedimento. Per i suddetti lavori, di importo inferiore a 200.000 euro e per i quali sia allegata una relazione descrittiva dell’intervento, l’approvazione dell’elenco annuale dei lavori di cui all’articolo 7 sostituisce l’approvazione del progetto preliminare». Il richiamato art. 7 prevede che l’attività di realizzazione dei lavori pubblici di interesse regionale si svolga sulla base di un programma triennale e dei suoi aggiornamenti annuali. Il programma & #232; predisposto, in particolare, dalle amministrazioni aggiudicatrici nel rispetto dei documenti programmatori, previsti dalla normativa vigente, ivi compresa la normativa urbanistica, unitamente all’elenco dei lavori da realizzare nell’anno di riferimento. Il programma e l’elenco dei lavori, continua sempre il ricorrente, sono poi approvati unitamente al bilancio preventivo, di cui costituiscono parte integrante; l’individuazione nel programma dell’intervento costituisce presupposto per l’avvio delle fasi di progettazione definitiva ed esecutiva.

Con la disposizione censurata si «rende superflua (…) la fase della progettazione preliminare e della sua approvazione».

Tale norma contrasterebbe con gli artt. 93 e 128 del d.lgs. n. 163 del 2006. Dalla lettura, in combinato disposto, delle predette disposizioni, risulterebbe che il progetto preliminare e l’elenco annuale sono strumenti eterogenei «volti l’uno alla programmazione della singola opera e l’altro alla programmazione generale annuale», contenendo elementi non sovrapponibili. A conferma di tale assunto il ricorrente richiama il contenuto del comma 7, primo periodo, del citato art. 128, il quale prevede che «un lavoro può essere inserito nell’elenco annuale, limitatamente ad uno o più lotti, purché con riferimento all’intero lavoro sia stata elaborata la progettazione almeno preliminare e siano state quantificate le complessive risorse finanziare necessarie per la realizzazione dell’intero lavoro».

Il ricorrente sottolinea che «il progetto preliminare definisce, in particolare, le caratteristiche qualitative e funzionali dei lavori, il quadro delle esigenze da soddisfare e delle specifiche prestazioni da fornire e consiste in una relazione illustrativa delle ragioni della scelta della soluzione prospettata in base alla valutazione delle eventuali soluzioni possibili, anche con riferimento ai profili ambientali e all’utilizzo dei materiali provenienti dalle attività di riuso e riciclaggio, della sua fattibilità amministrativa e tecnica, accertata attraverso le indispensabili indagini di prima approssimazione, dei costi, da determinare in relazione ai benefici previsti, nonché in schemi grafici per l’individuazione delle caratteristiche dimensionali, volumetriche, tipologiche, funzionali e tecnologiche dei lavori da realizzare».

Si tratta, si puntualizza nel ricorso, di una scelta già effettuata dalla legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), la quale prevedeva che l’attività di progettazione fosse articolata in tre fasi, rappresentate dall’approvazione del progetto preliminare, di quello definitivo e infine di quello esecutivo. La ricorrente rileva come ai principi della predetta legge n. 109 del 1994, l’art. 1, comma 2, della legge stessa attribuiva natura di «norme fondamentali di riforma economico-sociale» e di «principi della legislazione dello Stato ai sensi degli statuti delle Regioni a statuto speciale, anche per il rispetto degli obblighi internazionali».

Il ricorrente conclude affermando come sia «da escludere che le informazioni contenute nell’elenco annuale, ancorché integrate dalla “relazione descrittiva” che la disposizione censurata prescrive, possano efficacemente surrogare quelle richieste ai fini del progetto preliminare o, comunque, soddisfare le esigenze ad esso sottese». Deve, inoltre, escludersi che «la normativa statale consenta di prescindere dalla fase della progettazione preliminare».

Sotto altro aspetto, si assume che la norma in esame invade anche la competenza statale in materia di tutela della concorrenza.

1.3.1.— L’art. 1, comma 5, lettere b) e c), modificando gli artt. 9 e 17 della legge regionale n. 14 del 2002, introduce una preferenza per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa nel caso di aggiudicazione degli incarichi di progettazione. Tale criterio preferenziale si risolve in un obbligo di specifica e adeguata motivazione nel caso in cui la stazione appaltante decida di ricorrere al criterio del prezzo più basso.

Tale disposizione contrasterebbe con gli artt. 91, comma 2, e 57, comma 6, del Codice dei contratti pubblici, i quali stabiliscono che «la stazione appaltante sceglie l’operatore economico che ha offerto le condizioni più vantaggiose, secondo il criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa». Da qui la violazione della competenza statale in materia di tutela della concorrenza.

1.3.2.— L’art. 1, comma 5, lettera k), prevede che gli oneri per spese tecniche generali e di collaudo sono commisurati alle aliquote determinate dal Presidente della Regione.

Tale disposizione, sottolinea il ricorrente, «non è in linea con l’art. 92, comma 2, del Codice dei contratti pubblici», il quale attribuisce ad un decreto del Ministro della giustizia, di concerto con quello delle infrastrutture e dei trasporti, la determinazione di dette aliquote. Si assume, pertanto, la violazione della competenza statale in materia di ordinamento civile.

1.4.— Infine, si censura l’art. 7, comma 9, della medesima legge regionale, il quale prevede una riduzione alla metà dei termini stabiliti per l’approvazione dei progetti (preliminari e definitivi) di opere nel settore delle infrastrutture di trasporto, della mobilità e della logistica. Tale riduzione contrasterebbe con quanto disposto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), il quale sancisce, per le opere soggette a valutazione di impatto ambientale (v.i.a.), «una precisa scansione temporale per l’espletamento del procedimento di compatibilità ambientale, fissando all’art. 26, comma 1, il termine di conclusione del procedimento (150 giorni elevati a 210 nel caso di progetti di particolare complessità)».

La disposizione censurata ostacolerebbe, poi, il rispetto dei tempi stabiliti dalla norma nazionale per la consultazione del pubblico (art. 20, comma 3, in tema di “verifica di assoggettabilità”: 45 giorni; art. 24, comma 4, in tema di “consultazione”: 60 giorni), ponendosi così in contrasto con i principi di partecipazione sanciti dalla normativa comunitaria (direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, art. 6).

Inoltre, la impugnata normativa regionale interferirebbe con i termini sostanziali e di consultazione del pubblico previsti (si citano gli art. 12 e 14) con riferimento al procedimento di rilascio della valutazione ambientale strategica (v.a.s.).

Per le ragioni sin qui esposte la norma violerebbe la competenza statale in materia di tutela dell’ambiente ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

2.— Si è costituita in giudizio la Regione Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o infondato.

2.1.— Con riferimento all’impugnazione dell’art. 1, comma 5, lettera a), si sottolinea, in via preliminare, come, avendo lo Stato fatto riferimento sia a parametri costituzionali contenuti nella parte seconda del titolo V della Costituzione sia a parametri statutari, occorre avere riguardo soltanto a questi ultimi. Infatti, la Regione ha una competenza primaria in materia di lavori pubblici di interesse regionale, con la conseguenza che non sarebbe ipotizzabile, perché non maggiormente ampliativa dei margini di autonomia ex art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, un’applicazione delle norme contenute nel suddetto titolo V.

Chiarito ciò, si chiede che la questione venga dichiarata inammissibile per genericità, atteso che non si argomenta perché la previsione del progetto preliminare costituisca uno di quei principi della disciplina statale che costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale. Inoltre, sempre sul piano dell’ammissibilità, si sottolinea come il ricorrente evochi, quale parametro interposto, una norma, l’art. 1, comma 2, della legge n. 109 del 1994, non più in vigore a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 163 del 2006.

Nel merito, la questione, sempre nella prospettiva della difesa regionale, non sarebbe fondata.

In primo luogo, perché la presenza del progetto preliminare non sarebbe un requisito inderogabile nell’ambito della disciplina statale, non integrando gli estremi di un “nucleo essenziale” della disciplina stessa. A tale proposito, si richiama quanto affermato nella sentenza di questa Corte n. 482 del 1995, che avrebbe attribuito la predetta valenza soltanto alla progettazione esecutiva.

In secondo luogo, si deduce come, in ogni caso, l’art. 7 della legge regionale n. 14 del 2002 stabilisca che l’approvazione del programma triennale e dell’elenco annuale presuppone l’esistenza «di una relazione illustrativa, dell’inquadramento territoriale di massima, di uno studio di fattibilità tecnico-amministrativa e di identificazione e quantificazione dei bisogni con particolare riferimento al bacino di utenza, di un preventivo di spesa e della individuazione dei presumibili tempi di attuazione» (comma 4). Inoltre, l’elenco annuale dei lavori «deve contenere l’indicazione dei mezzi finanziari stanziati sullo stato di previsione o sul proprio bilancio, ovvero disponibili in base a contribuiti o risorse comunitarie, statali, regionali o di altri enti pubblici, nonché quelli comunque acquisibili» (comma 6). Si aggiunge che il comma impugnato puntualizza che «l’approvazione dell’elenco annuale dei lavori» sostituisce «l’approvazione del progetto preliminare» soltanto quando «sia allegata una relazione descrittiva dell’intervento».

Da quanto esposto conseguirebbe che tutti i contenuti della progettazione preliminare, contemplati dal comma 3 dell’art. 93 del Codice degli appalti pubblici, sarebbero rinvenibili anche nella legislazione regionale.

In terzo luogo, si rileva come il campo di applicazione della norma impugnata sarebbe alquanto limitato, riguardando soltanto i lavori di importo inferiore a 200.000 euro. Inoltre, lo stesso Codice prevede diversi casi in cui l’inclusione di un lavoro nell’elenco annuale non è subordinata alla previa approvazione della progettazione preliminare. Né a sostegno della censura si potrebbe invocare l’art. 128, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, «sia perché esso riguarda il caso specifico dell’inserimento di un lavoro nell’elenco annuale limitatamente ad uno o più lotti, sia perché l’art. 128 regola i procedimenti che attengono alle materia di competenza concorrente (…) mentre i lavori pubblici di interesse locale e regionale rientrano nella potestà primaria della Regione Friuli-Venezia Giulia».

Infine, non sarebbe conferente neanche il richiamo all’art. 4 del Codice dei contratti pubblici, in quanto tale norma si rivolge alle Regioni a statuto ordinario.

2.2.— Con riferimento alle censure che hanno investito l’art. 1, comma 5, lettere b) e c) della legge n. 11 del 2009, che hanno modificato l’art. 9, commi 9-ter e 9-quater, e l’art. 17, comma 1, lettera b), della precedente legge regionale n. 14 del 2002, si deduce la inammissibilità, da un lato, della censura formulata con riferimento all’art. 117, secondo comma, Cost., perchè tale norma non si applicherebbe, per le ragioni esposte, alla Regione resistente, dall’altro, della doglianza prospettata in relazione alle norme statutarie, in quanto non si indicano le ragioni per le quali le disposizioni impugnate dovrebbero essere considerate norme fondamentali di grande riforma economico-sociale.

Sotto un diverso profilo, si deduce la inammissibilità della censura per incertezza in ordine all’oggetto della questione per le seguenti ragioni: le norme censurate riguardano l’affidamento degli incarichi di progettazione (art. 9, commi 9-ter e 9-quater) e l’aggiudicazione degli appalti (art. 17, comma 1), ma l’Avvocatura generale dello Stato «lamenta solo l’introduzione di preferenza per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa nel caso dell’aggiudicazione degli incarichi di progettazione».

Le norme interposte evocate nel ricorso riguardano, inoltre, sia l’affidamento degli incarichi di progettazione (art. 91, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006), sia l’aggiudicazione del lavoro mediante «procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando» (art. 57, comma 6).

Nel merito, la censura non sarebbe fondata, in quanto la norma impugnata si spiegherebbe in ragione della «essenziale rilevanza dell’elemento qualitativo negli affidamenti in questione»; elemento che «è meglio tutelato dal criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa rispetto a quello del prezzo più basso, che si mostra invece maggiormente idoneo quando i profili qualitativi possono essere esauriti in modo oggettivo dal bando di gara». Ciò spiegherebbe il motivo per il quale la preferenza espressa dalla legge è solo tendenziale ed è superabile in casi specifici, sulla base di elementi concreti. Sul punto, si conclude affermando che «non si vorrà certo sostenere che un’autonomia assoluta della stazione appaltante è un principio di grande riforma della legislazione statale».

2.3.— Con riferimento alle censure relative all’art. 1, comma 5, lettera k), della legge n. 11 del 2001, che ha apportato modifiche all’art. 56, comma 2, della precedente legge n. 14 del 2002, si deduce anche in questo caso la inammissibilità della doglianza, in quanto non si motiverebbe «né per quale ragione la norma statale invocata sarebbe di grande riforma né per quale ragione la norma impugnata invaderebbe la materia dell’ordinamento civile».

Inoltre, si afferma come la censura sia il «frutto di un equivoco». La norma impugnata «regola la concessione del finanziamento a enti pubblici per la realizzazione di lavori pubblici e il comma 2 definisce il modo in cui si deve quantificare il contributo regionale relativo agli oneri per spese tecniche gestionali e di collaudo». Il decreto ministeriale di cui all’art. 92, commi 2 e 3, non disciplinerebbe questo aspetto, occupandosi soltanto del modo in cui si determinano i «corrispettivi delle attività di progettazione». In altri termini, «mentre l’art. 56 regola il rapporto fra Regione ed ente pubblico beneficiario del contributo, l’art. 92 del Codice regola il rapporto fra amministrazione aggiudicatrice e professionista progettista». In questa prospettiva, la norma impugnata non escluderebbe affatto l’applicazione del decreto ministeriale di cui all’art. 92, «che dovrà esser rispettato dall’amministrazione agg iudicatrice», ma definirebbe la misura del contributo regionale per le spese tecniche generali e di collaudo.

Infine, si sottolinea come la norma censurata fosse già presente nel testo originario della legge regionale n. 14 del 2002 e che l’unica novità sarebbe consistita nella previsione del decreto del Presidente della Regione, mentre la disposizione precedente rinviava ad un generico «decreto del Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale».

2.4.— Con riferimento all’impugnazione dell’art. 7, comma 9, della legge regionale n. 11 del 2009, si deduce, in via preliminare, la inammissibilità della relativa censura in ragione del fatto che il ricorrente ha fatto esclusivo riferimento al secondo comma dell’art. 117 Cost., senza argomentare in ordine alla violazione dei parametri statutari.

Nel merito, si sottolinea come la norma impugnata riguardi procedimenti di competenza regionale e degli enti locali, per i quali lo stesso Codice dell’ambiente ammetterebbe una competenza regionale (si cita l’art. 7, commi 2, 4, 6 e 7 del d.lgs. n. 152 del 2006).

In relazione all’art. 26, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, si osserva che «la lesione della competenza statale in materia di tutela dell’ambiente ci sarebbe se il decorso del termine abbreviato dalla norma regionale implicasse v.i.a favorevole, ma l’art. 26, comma 2, del Codice dell’ambiente non prevede affatto che l’inutile decorso del termine produca questo esito».

In relazione all’art. 12 dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006, si sottolinea che anch’esso «non prevede che l’inutile decorso del termine implichi l’esclusione del piano dalla v.a.s.».

Per le ragioni sin qui esposte, si conclude affermando che «la legge regionale non compromette in alcuna misura la tutela ambientale e corrisponde invece ad una ragionevole esigenza di accelerazione delle opere individuate come strategiche».

3.— Nell’imminenza dell’udienza pubblica la Regione Friuli-Venezia Giulia ha depositato una memoria, con la quale ha richiamato il contenuto della sentenza di questa Corte n. 45 del 2010, che ha ricostruito il riparto di competenze tra Stato ed enti ad autonomia speciale, riconoscendo a questi ultimi uno spazio di intervento, nel settore dei contratti pubblici, più ampio rispetto a quello che il titolo V della parte seconda della Costituzione riconosce alle Regioni a statuto ordinario.

La difesa della Regione richiama anche quanto affermato, alla luce della citata sentenza n. 45 del 2010, dal Consiglio di Stato con il parere della Sezione consultiva per gli atti normativi del 24 febbraio 2010.

Alla luce delle suindicate indicazioni giurisprudenziali, risulterebbero ulteriormente confermate le argomentazioni già contenute nell’atto di costituzione e volte a dimostrare la infondatezza delle censure formulate con il ricorso.

Considerato in diritto

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, lettere a), b), c) e k), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 4 giugno 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sviluppo economico regionale, sostegno al reddito dei lavoratori e delle famiglie, accelerazione di lavori pubblici), per asserita violazione dell’art. 4, primo comma, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), in relazione all’art. 117, secondo comma, lettere e) e l). È stato, inoltre, impugnato l’art. 7, comma 9, della predetta legge regionale per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

2.— Prima di esaminare le singole censure proposte è opportuno delineare – alla luce di quanto già affermato da questa Corte con la sentenza n. 45 del 2010 – le linee fondamentali del riparto delle competenze legislative nel settore degli appalti pubblici tra Stato ed enti ad autonomia differenziata.

L’art. 4 della citata legge costituzionale n. 1 del 1963 attribuisce alla Regione Friuli-Venezia Giulia competenza legislativa primaria in materie specificamente enumerate, tra le quali rientra anche quella dei «lavori pubblici di interesse regionale» (n. 9).

In presenza di tale specifica attribuzione, deve ritenersi che, non contemplando il novellato titolo V della parte seconda della Costituzione la materia “lavori pubblici”, trova applicazione – secondo quanto previsto dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» – la previsione statutaria sopra indicata.

Quanto esposto non significa che – in relazione alla disciplina dei contratti di appalto che incidono nel territorio della Regione – la legislazione regionale sia libera di esplicarsi senza alcun vincolo e che non possano trovare applicazione le disposizioni di principio contenute nel decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). Il medesimo art. 4 sopra citato prevede, infatti, che la potestà legislativa primaria regionale deve essere esercitata «in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell’ordinamento giuridico della Repubblica, con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali dello Stato (...)».

In questa prospettiva vengono in rilievo, in primo luogo, i limiti derivanti dal rispetto dei principi della tutela della concorrenza, strumentali ad assicurare le libertà comunitarie, e dunque le disposizioni contenute nel Codice degli appalti pubblici, che costituiscono diretta attuazione delle prescrizioni poste a livello europeo. In tale ambito, la disciplina regionale non può avere un contenuto difforme da quella prevista, in attuazione delle norme comunitarie, dal legislatore nazionale e, quindi, non può alterare negativamente il livello di tutela assicurato dalla normativa statale.

In secondo luogo, il legislatore regionale deve osservare i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, tra i quali sono ricompresi anche quelli afferenti la disciplina di istituti e rapporti privatistici relativi, soprattutto, alla fase di conclusione ed esecuzione del contratto di appalto, che deve essere uniforme sull’intero territorio nazionale, in ragione della esigenza di assicurare il rispetto del principio di uguaglianza. A ciò è da aggiungere che nella suindicata fase di conclusione ed esecuzione del rapporto contrattuale si collocano anche istituti che rispondono ad interessi unitari e che − implicando valutazioni e riflessi finanziari, che non tollerano discipline differenziate nel territorio dello Stato − possono ritenersi espressione del limite rappresentato dalle norme fondamentali delle riforme economico-sociali.

Alla luce di quanto sopra, prima di esaminare le singole censure proposte, occorre chiarire – avendo riguardo alle eccezioni sollevate dalla difesa regionale e al fine dell’esatta individuazione del thema decidendum – che la risoluzione delle questioni di costituzionalità deve essere svolta alla luce delle disposizioni statutarie evocate dal ricorrente.

3.— Si può passare, dunque, all’esame delle singole censure proposte.

Lo Stato ha, innanzitutto, impugnato l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge regionale n. 11 del 2009 – che ha modificato l’art. 8, comma 8, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 31 maggio 2002, n. 14 (Disciplina organica dei lavori pubblici) – nella parte in cui stabilisce che «per i lavori di minore complessità, la cui progettazione non richieda fasi autonome di approfondimento, il progetto definitivo e quello esecutivo sono sviluppati in un unico elaborato tecnico, salvo diversa indicazione del responsabile unico del procedimento. Per i suddetti lavori, di importo inferiore a 200.000 euro e per i quali sia allegata una relazione descrittiva dell’intervento, l’approvazione dell’elenco annuale dei lavori di cui all’articolo 7 sostituisce l’approvazione del progetto preliminare».

Tale norma violerebbe l’art. 4, primo comma, della legge costituzionale n. 1 del 1963, in relazione all’art. 117, secondo comma, lettere e) e l), Cost. che attribuiscono alla competenza esclusiva statale la materia della tutela della concorrenza e dell’ordinamento civile. In particolare, sarebbero violati gli artt. 93 e 128 del d.lgs. n. 163 del 2006, i quali configurano il progetto preliminare e l’elenco annuale come strumenti eterogenei «volti l’uno alla programmazione della singola opera e l’altro alla programmazione generale annuale», contenendo, quindi, elementi non sovrapponibili.

3.1.— Al riguardo, deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità della questione, per genericità della relativa censura, sollevata dalla difesa regionale. Dall’esame del ricorso dello Stato, infatti, emerge, con sufficiente specificità, il contenuto della doglianza proposta, la quale si basa sulla deduzione del contrasto tra la norma regionale e un principio fondamentale di riforma economico-sociale desumibile dalla legislazione dello Stato in materia.

3.2.— Nel merito, la questione è fondata.

L’art. 93 del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che «la progettazione in materia di lavori pubblici si articola, nel rispetto dei vincoli esistenti, preventivamente accertati, laddove possibile fin dal documento preliminare, e dei limiti di spesa prestabiliti, secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva». Tale articolazione persegue il fine di assicurare la qualità dell’opera e la rispondenza alle finalità relative alla conformità alle norme ambientali e urbanistiche, nonché il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.

Questa Corte, con la sentenza n. 401 del 2007 (punto 6.9 del Considerato in diritto), ha già avuto modo di chiarire che la progettazione non costituisce una materia, ma un momento del complesso iter procedimentale preordinato alla realizzazione dell’opera pubblica. Ed ha anche precisato che, ai fini del rispetto del principio di libera concorrenza, vengono in rilievo esclusivamente i criteri che presiedono allo svolgimento dell’attività di progettazione.

Inoltre, la Corte, con la sentenza n. 482 del 1995, richiamata dalla predetta sentenza n. 401, ha affermato – in relazione all’art. 16, comma 1, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), il cui contenuto è stato sostanzialmente recepito dal riportato art. 93, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 – che l’aspetto qualificante dell’attività di progettazione è dato dal fatto che essa deve svolgersi secondo la suindicata articolazione, essendo questa essenziale «per assicurare, con il progetto esecutivo, l’eseguibilità dell’opera» e «indispensabile per rendere certi i tempi e i costi di realizzazione» dell’opera stessa. Sulla base di tale premessa, la Corte ha ritenuto che la norma statale costituisca «elemento coessenziale alla riforma economico-sociale», con la conseguenza che essa opera come limite all’attività legislativa regionale.

Nel caso in esame, tale limite non è stato osservato, atteso che la disposizione impugnata prevede la non essenzialità della progettazione preliminare, considerandola assorbita nell’approvazione dell’elenco annuale dei lavori. Né può ritenersi, come sostenuto dalla difesa della Regione, che tale approvazione consenta di assicurare le medesime finalità che connotano l’attività di progettazione. Ciò in quanto, a prescindere da ogni altra valutazione, la programmazione dei lavori ha una valenza, appunto, programmatoria di carattere generale, rispondente a scopi diversi e più ampi. Tale diversità è confermata dallo stesso art. 128 del d.lgs. n. 163 del 2006 il quale, al comma 7, stabilisce che «un lavoro può essere inserito nell’elenco annuale, limitatamente ad uno o più lotti, purché con riferimento all’intero lavoro sia stata elaborata la progettazione almeno prelimin are (…)».

Sulla base delle suindicate considerazioni, deve essere, dunque, dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, lettera a), della legge regionale n. 11 del 2009, che ha modificato l’art. 8, comma 8, della legge regionale n. 14 del 2002.

4.— Lo Stato, inoltre, ha impugnato l’art. 1, comma 5, lettere b) e c), della predetta legge regionale n. 11 del 2009 che, modificando gli artt. 9 e 17 della legge regionale n. 14 del 2002, ha stabilito una preferenza per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa nel caso di aggiudicazione degli incarichi di progettazione.

Tale norma sarebbe in contrasto con l’art. 4, primo comma, della legge costituzionale n. 1 del 1963, in relazione all’art. 117, secondo comma, lettere e) e l), che attribuiscono alla competenza esclusiva statale le materie della tutela della concorrenza e dell’ordinamento civile; e in particolare, con gli artt. 91, comma 2, e 57, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, i quali stabiliscono che «la stazione appaltante sceglie l’operatore economico, che ha offerto le condizioni più vantaggiose, secondo il criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa».

4.1.— La questione non è fondata.

Innanzi tutto, in via preliminare, la censura proposta dallo Stato deve ritenersi ammissibile, in quanto il ricorso specifica, nella parte introduttiva, le ragioni per le quali le disposizioni del Codice degli appalti pubblici, prese in considerazione, possono essere qualificate come espressione di principi fondamentali di riforma economico-sociale, nonché le ragioni per cui è ammissibile il riferimento anche alle disposizioni del novellato titolo V della parte seconda della Costituzione.

Quanto al merito, deve osservarsi che il Codice degli appalti pubblici prevede che gli incarichi di progettazione devono essere affidati utilizzando, ai fini dell’aggiudicazione, «il criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa». Il legislatore regionale ha, invece, previsto che le stazioni appaltanti debbano optare “preferibilmente” per quest’ultimo criterio.

Tale rilevata diversità di regolamentazione non è suscettibile di alterare le regole di funzionamento del mercato e, pertanto, non è idonea ad alterare i livelli di tutela della concorrenza fissati dalla legislazione nazionale.

Il legislatore regionale, con la impugnata disposizione, non ha escluso, in via aprioristica e astratta, uno dei due possibili criteri di aggiudicazione, ma ha soltanto indicato un ordine di priorità nella scelta, che non elimina il potere discrezionale della stazione appaltante di ricorrere all’altro criterio, cioè a quello del prezzo più basso. Al fine di evitare possibili dubbi interpretativi, l’art. 1, comma 5, lettera b), della legge impugnata ha introdotto il comma 9-quater all’art. 9 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 14 del 2002, il quale chiarisce espressamente che gli incarichi in esame «possono essere affidati con il criterio del prezzo più basso ove ritenuto motivatamente più adeguato dalla stazione appaltante» rispetto all’altro criterio previsto dalla disposizione censurata.

Ne consegue che la normativa regionale, rispetto a quella statale, si limita ad imporre un obbligo di motivazione – in linea, tra l’altro, con il principio generale consacrato dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) – qualora l’amministrazione decida di ricorrere al criterio del prezzo più basso. Tale diversità, come già sottolineato, non è suscettibile di ridurre la partecipazione degli operatori economici alle procedure di gara, non avendo alcuna capacità di recare un vulnus, in particolare, ai principi della libera circolazione delle persone e delle merci.

5.— Lo Stato ha anche impugnato l’art. 1, comma 5, lettera k), della predetta legge regionale n. 11 del 2009, nella parte in cui, modificando l’art. 56, comma 2, della precedente legge n. 14 del 2002, prevede che gli oneri per spese tecniche generali e di collaudo sono commisurati alle aliquote determinate dal Presidente della Regione. In particolare, si assume che tale disposizione violerebbe la competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza e di ordinamento civile, ponendosi in contrasto con l’art. 92, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale attribuisce ad un decreto del Ministro della giustizia, di concerto con quello delle infrastrutture, la determinazione di dette aliquote.

5.1.— La questione è inammissibile.

La norma impugnata ha modificato il comma 2 dell’art. 56 della citata legge regionale, n. 14 del 2002.

Tale articolo, nell’insieme, disciplina le modalità di concessione dei finanziamenti regionali alle amministrazioni aggiudicatrici, in relazione a specifici lavori individuati dalla Giunta regionale. Nel contesto dell’intero articolo, il comma 2 attribuisce al Presidente della Regione il compito di fissare le aliquote per la determinazione degli oneri per spese tecniche generali e di collaudo.

La norma statale, evocata dal ricorrente come parametro interposto, riguarda invece le modalità di determinazione delle tabelle dei corrispettivi delle attività relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici espletate dai soggetti specificamente indicati al comma 1 dell’art. 90 del d.lgs. n. 163 del 2006. In particolare, si prevede che detta determinazione debba essere effettuata con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro delle infrastrutture.

Dal contenuto delle richiamate norme risulta che la disposizione regionale impugnata – riguardando le modalità di determinazione dell’importo dei finanziamenti che possono essere concessi dalla Regione alle amministrazioni aggiudicatrici – attiene ai rapporti “esterni” tra queste ultime e la Regione stessa. La norma statale, invece, è relativa ai criteri di fissazione dei compensi spettanti ai soggetti che prestino la loro attività nel corso della realizzazione dell’opera a partire dalla procedura di gara, sicché essa incide sui rapporti “interni” tra tali soggetti e la stazione appaltante. In definitiva, la disposizione statale, avendo un differente ambito applicativo rispetto a quella regionale, non può essere utilmente evocata quale limite alla competenza statutaria della Regione in materia. Deve, pertanto, ritenersi che la erronea indicazione del parametro interposto impedisca, nella specie, la disamina nel merito della questione proposta (da ultimo, sentenza n. 45 del 2010).

6.— Lo Stato, infine, ha impugnato l’art. 7, comma 9, della predetta legge regionale n. 11 del 2009, il quale prevede che, «fermo restando le disposizioni normative a tutela della concorrenza, sono ridotti del 50 per cento i termini previsti dai singoli procedimenti di competenza della Regione e degli enti locali correlati alla realizzazione» di opere nel settore delle infrastrutture di trasporto, della mobilità e della logistica.

Secondo il ricorrente, tale norma violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela ambientale, ponendosi in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e in particolare con il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), il quale prevede, per le opere soggette a valutazione di impatto ambientale (v.i.a.), «una precisa scansione temporale per l’espletamento del procedimento di compatibilità ambientale, fissando all’art. 26, comma 1, il termine di conclusione del procedimento (150 giorni elevati a 210 nel caso di progetti di particolare complessità)». La disposizione regionale censurata ostacolerebbe, poi, il rispetto dei tempi stabiliti dalla normativa nazionale per la consultazione del pubblico (art. 20, comma 3, in tema di “verifica di assoggettabilità”: 45 giorni; art. 24, comma 4, in tema di “consultazione”: 60 giorni), violan do in tal modo i principi di partecipazione sanciti dalle disposizioni comunitarie (direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, art. 6). Inoltre, la normativa regionale interferirebbe con i termini sostanziali e di consultazione del pubblico previsti (si citano, al riguardo, gli artt. 12 e 14 della normativa nazionale) con riferimento al procedimento di valutazione ambientale strategica (v.a.s.).

6.1.— Anche tale questione va esaminata nel merito, non essendo sorretta da valide argomentazioni la preliminare eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa regionale, e non è fondata.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che la procedura di valutazione di impatto ambientale è autonoma, ancorché connessa, rispetto al procedimento amministrativo nell’ambito del quale si colloca. La sua funzione prevalente è quella di tutela dell’ambiente (sentenza n. 234 del 2009). Analogamente è a dirsi per la procedura di valutazione ambientale strategica.

La norma regionale impugnata – inserendosi in una più ampia disposizione che, con contenuto articolato e complesso, disciplina le modalità di realizzazione delle opere nel settore delle infrastrutture di trasporto, della mobilità e della logistica – non reca alcun vulnus, per il suo contenuto precettivo, alla suddetta competenza statale in materia di tutela dell’ambiente.

D’altronde, se il legislatore regionale, per fini di accelerazione e semplificazione procedurale nei particolari settori sopra indicati, ha ridotto la durata dei procedimenti amministrativi, deve ritenersi che abbia in tal modo responsabilmente valutato, nell’esercizio della sua discrezionalità, che nel suddetto arco temporale sia possibile effettuare tutti gli adempimenti, compresi quelli relativi alla consultazione del pubblico, contemplati a livello nazionale. In altri termini, non è da ravvisare alcuna interrelazione tra la riduzione della durata dei procedimenti e la violazione dei precetti contenuti nelle norme statali evocate dal ricorrente: norme che la Regione e le amministrazioni aggiudicatrici sono comunque tenute ad osservare.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, lettera a), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 4 giugno 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sviluppo economico regionale, sostegno al reddito dei lavoratori e delle famiglie, accelerazione di lavori pubblici);

b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, lettere b), c), e dell’art. 7, comma 9, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 11 del 2009, proposte in riferimento all’art. 4, primo comma, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), «in relazione all’art. 117, secondo comma, lettere e) e l)», nonché in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., con il ricorso indicato in epigrafe;

c) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, lettera k), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 11 del 2009, proposta in riferimento all’art. 4, primo comma, della legge costituzionale n. 1 del 1963 «in relazione all’art. 117, secondo comma, lettere e) e l)», con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfonso QUARANTA , Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 222

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 140 del codice di procedura civile, promosso dal Giudice di pace di Comiso nel procedimento vertente tra G. N. e S. R. con ordinanza del 25 settembre 2009, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 25 settembre 2009, il Giudice di pace di Comiso ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 140 del codice di procedura civile, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, fa decorrere gli effetti della notifica, per il destinatario della stessa, dal momento in cui l’ufficiale giudiziario, dopo aver eseguito il deposito dell’atto da notificare presso la casa comunale ed aver affisso il prescritto avviso alla porta dell’abitazione del destinatario, completa l’iter notificatorio inviando al destinatario medesimo una raccomandata con avviso di ricevimento contenente notizia dell’avvenuto deposito, anziché prevedere che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata ovvero dalla data del ritiro della copia dell’atto o della raccomand ata contenente quest’ultimo, se anteriore, in modo analogo a quanto previsto dall’art. 8, quarto comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80;

che il Giudice di pace motiva la sussistenza del requisito della rilevanza osservando che nel giudizio si discute di quale sia la data di notifica del decreto ingiuntivo – effettuata ex art. 140 cod. proc. civ. – da considerare efficace per il destinatario: seguendosi la tesi della Corte di cassazione, secondo cui tale data coinciderebbe con il giorno in cui l’ufficiale giudiziario spedisce al destinatario la raccomandata (nella specie il 15 febbraio 2006), l’opposizione dovrebbe considerarsi tardiva e quindi improcedibile, perché proposta oltre il termine decadenziale di quaranta giorni di cui all’art. 641, primo comma, cod. proc. civ. (l’atto di opposizione essendo stato notificato in data 30 marzo 2006); mentre, reputandosi che la data coincida con il giorno di effettivo ritiro del piego (20 febbraio 2006) o con il decorso dei dieci giorni successivi alla spedizione (25 febbraio 2006), l’opposizione monitoria dovrebbe considerarsi tempestiva e quindi procedibile;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che l’art. 140 cod. proc. civ. e l’art. 8 della legge n. 890 del 1982 prevedono modalità notificatorie alquanto simili in presenza di analoghi presupposti di fatto;

che, tuttavia, mentre nella notifica postale il destinatario ha dieci giorni di tempo dalla spedizione della raccomandata per ritirare l’atto presso l’ufficio postale, senza che tale periodo decorra a suo svantaggio, l’art. 140 cod. proc. civ. – secondo la tradizionale interpretazione di legittimità – fa coincidere la data della notifica con la stessa data di spedizione della raccomandata;

che, così interpretata, la disposizione denunciata violerebbe l’art. 3 Cost., perché casi identici verrebbero trattati in modo ingiustificatamente diverso: difatti, l’art. 8, quarto comma, della legge n. 890 del 1982, dando un termine (massimo) di dieci giorni per il ritiro del piego, elimina in radice l’ingiusta erosione del termine per svolgere le successive attività difensive (come nel caso di specie per proporre opposizione a decreto ingiuntivo), riportando la situazione di garanzia delle parti in equilibrio: per un verso, lascia un tempo congruo al destinatario per ritirare l’atto; mentre, per l’altro, non rende troppo onerosa la notifica per il mittente, che, comunque, potrà dare per notificato l’atto decorso il termine di dieci giorni;

che un simile effetto non è garantito dall’art. 140 cod. proc. civ., esponendo il destinatario di una notifica effettuata ai sensi di tale norma ad un trattamento meno garantista, pur in presenza di presupposti di fatto analoghi, e per di più sulla base di una scelta della tipologia di notifica che viene effettuata, di norma, da soggetti, l’ufficiale giudiziario e il notificante, privi di qualsivoglia interesse alla conoscibilità dell’atto da parte del notificatario;

che vi sarebbe anche un contrasto con l’art. 24 Cost., per la minor tutela offerta al destinatario di una notifica ex art. 140 cod. proc. civ., essendo questi costretto a presidiare con tendenziale continuità la sua cassetta postale anche in periodo di vacanza o ferie, per evitare il rischio di perdere tempo utile al compimento di attività difensive che prendano data a partire dall’avvenuta notifica, mentre molto meno rischiosa e onerosa è la situazione del destinatario di una notifica postale ex art. 8 della legge n. 890 del 1982;

che, ad avviso del Giudice di pace rimettente, identificare, qualora il processo sia avviato con notifica ex art. 140 cod. proc. civ., l’instaurazione del contraddittorio con il momento perfezionativo della notifica dal punto di vista solo del notificante, senza tenere conto del momento in cui l’atto informativo entra (che è cosa diversa dall’esservi spedito) nella sfera di conoscibilità del notificato, significherebbe da un lato configurare il contraddittorio come mero simulacro e non in modo effettivo (il che contrasterebbe con l’art. 111, secondo comma, Cost. nella parte in cui impone l’effettività del contraddittorio in ogni processo), dall’altro far prevalere la posizione del notificante su quella del notificato senza che ciò sia supportato da una ragionevole esigenza di tutela del notificante (il che contrasterebbe sia con il principio della parità delle parti sempre dettato dalla stessa norma costituzionale, sia con l’ancor più generale principio della “giustizia del processo”, rinvenibile nell’art. 111, primo comma, Cost.);

che nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza della questione;

che successivamente, con atto depositato dall’Avvocatura generale in data 26 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio ha rinunciato all’atto di intervento.

Considerato che, successivamente all’ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 3 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione;

che, per effetto di tale sentenza, la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione è divenuta manifestamente inammissibile in quanto priva di oggetto;

che, invero, l’efficacia ex tunc della citata dichiarazione di illegittimità costituzionale preclude al giudice a quo una nuova valutazione della perdurante rilevanza della sollevata questione, valutazione che sola potrebbe giustificare la restituzione degli atti al giudice rimettente (da ultimo, ordinanze n. 325, n. 326 e n. 327 del 2009).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 140 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Comiso con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA