Ultime pronunce pubblicate deposito del 15/10/2010
 
Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
296/2010 pres. AMIRANTE, red. QUARANTA Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
  Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
visualizza pronuncia 296/2010
Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
297/2010 pres. AMIRANTE, red. MAZZELLA Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
  Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
visualizza pronuncia 297/2010
Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
298/2010 pres. AMIRANTE, red. NAPOLITANO Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
  Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
visualizza pronuncia 298/2010

 
 

Deposito del 15/10/2010 (dalla 296 alla 298)

 
S.296/2010 del 06/10/2010
Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA


Norme impugnate: Art. 2, c. 1°, lett. f), del decreto legislativo 05/04/2006, n. 160, come sostituito dall'art. 1 della legge 30/07/2007, n. 111.

Oggetto: Magistratura - Concorso per uditore giudiziario - Ammissione al concorso per gli abilitati all'esercizio della professione di avvocato iscritti al relativo albo professionale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 20/2009
O.297/2010 del 06/10/2010
Camera di Consiglio del 22/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 4 bis del decreto legislativo 06/09/2001, n. 368, introdotto dall'art. 21, c. 1° bis, del decreto legge 25/06/2008, n. 112, convertito con modificazioni in legge 06/08/2008, n. 133.

Oggetto: Lavoro e occupazione - Apposizione di termini alla durata del contratto di lavoro subordinato - Previsione, per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della norma censurata, di un indennizzo a carico del datore di lavoro e in favore del lavoratore di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 117/2010
O.298/2010 del 06/10/2010
Camera di Consiglio del 22/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Art. 2, c. 4°, della legge 24/12/2007, n. 244.

Oggetto: Imposte e tasse - Imposta comunale sugli immobili (ICI) - Ripetibilità delle somme versate per i periodi d'imposta anteriori al 2008 relativamente ai fabbricati strumentali posseduti dalle cooperative agricole - Esclusione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 120/2010

Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
pronuncia successiva

SENTENZA N. 296

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, nel procedimento vertente tra T. E. ed altri e il Ministero della Giustizia con ordinanza dell’11 novembre 2008, iscritta al n. 20 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di costituzione di M. M.;

udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

udito l’avvocato Carmelo Giurdanella per M. M.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 51 e 104, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’articolo 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario).

1.1.— Il remittente premette, in punto di fatto, di essere investito della domanda di annullamento, previa sospensione, del bando di concorso per esami a 500 posti di magistrato ordinario, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23, del 21 marzo 2008. Deduce, inoltre, che l’articolo 2, lettera g), punto 6, del bando individua, quale requisito di ammissione al concorso, l’iscrizione del candidato all’albo degli avvocati.

Il giudice a quo ritiene che tale prescrizione realizzi una «ingiusta discriminazione» nei confronti di quei candidati che – come le ricorrenti nel giudizio principale – risultino aver conseguito l’abilitazione allo svolgimento della professione forense, ma che non vogliono o non possono iscriversi nel suddetto albo.

Ritenuta la citata previsione del bando una «pedissequa riproduzione» dell’art. 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 160 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge n. 111 del 2007, il TAR del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale di tale norma, disponendo nel contempo l’ammissione delle ricorrenti, con riserva, al concorso, in attesa di «pronunzia definitiva sull’istanza cautelare», oltre che «della decisione di merito».

1.2.— Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il sistema configurato dal d.lgs. n. 160 del 2006, pur a seguito delle modifiche operate dalla legge n. 111 del 2007, ha mantenuto il suo impianto di fondo, «ed in particolare l’opzione in favore del concorso di secondo grado, riservato quindi a soggetti aventi requisiti culturali e/o professionali specifici».

Rileva, inoltre, che tale opzione «non costituisce un’assoluta novità, bensì l’approdo di un travagliato progetto di riforma», alle cui origini si pone l’articolo 17, comma 113, della legge 5 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo). Tale norma delegava il Governo ad emanare una nuova disciplina del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria, sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi: «semplificazione delle modalità di svolgimento del concorso e introduzione graduale, come condizione per l’ammissione al concorso, dell’obbligo di conseguire un diploma biennale esclusivamente presso scuole di specializzazione istituite nelle università, sedi delle facoltà di giurisprudenza».

In attuazione della delega – prosegue il remittente, nel ricostruire analiticamente l’evoluzione normativa intervenuta in materia – venne emanato il decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, recante «Modifica alla disciplina del concorso per uditore giudiziario e norme sulle scuole di specializzazione per le professioni legali, a norma dell’articolo 17, commi 113 e 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo)». In particolare, ai sensi dell’art. 6 di tale decreto legislativo (che ebbe a sostituire il testo dell’art. 124 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, recante «Ordinamento giudiziario»), si scelse di condizionare l’ammissione al concorso – relativamente agli iscritti al corso di laurea in giurisprudenza, a decorrere dall’anno accademico 1998/1999 – al possesso del diploma di specializzazione per le professioni legali, stabilendosi soltanto in via residuale la possibilità di ammissione dei candidati muniti della sola laurea in giurisprudenza. Infatti, unicamente nell’ipotesi in cui le domande di partecipazione al concorso presentate dai candidati fossero risultate «inferiori a cinque volte il numero dei posti per i quali il concorso è bandito», era previsto che fossero ammessi – previo, peraltro, superamento della prova preliminare ed in misura pari al numero necessario per raggiungere il rapporto anzidetto – «anche i candidati in possesso della sola laurea in giurisprudenza».

Successivamente, tuttavia, la citata disposizione – rammenta il TAR remittente – venne modificata, optando il legislatore per la eliminazione della prova preliminare, in forza di quanto previsto dall’articolo 9, comma 9, della legge 13 febbraio 2001, n. 48 (Aumento del ruolo organico e disciplina dell’accesso in magistratura).

Su questo sistema si è innestato, innovandolo profondamente, il già citato d.lgs. n. 160 del 2006, come modificato dalla successiva legge n. 111 del 2007, la cui disciplina si caratterizza sia per il venir meno della «preferenza accordata, quale canale privilegiato di accesso alla selezione, alla frequenza delle scuole di specializzazione nelle professioni legali» (concepite, in origine, quale «quale strumento di formazione» comune «a tutti gli operatori del diritto»), sia per la riconosciuta «eterogeneità dei titoli di ammissione al concorso rispetto alla qualificazione tecnico-professionale propria del magistrato».

In particolare, come detto, il legislatore ha individuato nell’iscrizione all’albo forense una delle condizioni per l’ammissione al concorso, disattendendo «l’originario progetto governativo» che, invece, «richiedeva l’esercizio della professione per almeno tre anni», in conformità alle indicazioni fornite dal Consiglio superiore della magistratura nel parere reso il 31 maggio 2007.

1.3.— Orbene, della scelta compiuta dal legislatore con la norma censurata risulterebbe, secondo il remittente, «arduo comprendere la finalità», avendo l’iscrizione all’albo «valenza puramente formale». Essa nulla aggiungerebbe «alla particolare qualificazione e/o esperienza richiesta agli aspiranti magistrati ordinari che hanno conseguito l’abilitazione, atteso che l’iscrizione medesima non è subordinata all’effettivo esercizio della professione di avvocato e non postula, quindi, nemmeno l’attualità dell’esperienza dalla stessa derivante».

L’irragionevolezza della previsione, inoltre, risulterebbe confermata dal fatto che «la peculiare formazione degli abilitati all’esercizio della professione forense è omogenea o comunque affine a quella richiesta al magistrato, laddove, viceversa, l’accesso al concorso è consentito anche ai possessori di titoli che non necessariamente denotano il possesso di peculiari competenze tecniche (come i funzionari e dirigenti amministrativi aventi l’anzianità prescritta) ovvero ancora hanno natura prettamente scientifica (come i dottori di ricerca)».

Inoltre, essendo «il criterio ispiratore della riforma» di «stampo pluralistico», giacché il legislatore ha scelto di valorizzare pregresse esperienze «eterogenee rispetto alla professione di magistrato», l’esclusione degli abilitati alla professione forense non iscritti all’albo degli avvocati appare al remittente «irrazionale ed arbitraria».

Significativo, al riguardo, risulterebbe – secondo il TAR del Lazio – «il raffronto con l’accesso consentito ai diplomati presso le scuole di specializzazione delle professioni legali», giacché il diploma da essi conseguito è valutato ai fini del compimento della pratica per l’accesso alla professione forense (e notarile) per il periodo di un anno (secondo quanto previsto del Decreto del Ministro della giustizia 11 dicembre 2001, n. 475, recante «Regolamento concernente la valutazione del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali ai fini della pratica forense e notarile, ai sensi dell'articolo 17, comma 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127»).

Orbene, la circostanza che i diplomati presso le suddette scuole di specializzazione, mentre accedono, per ciò solo, al concorso per magistrato ordinario «sono comunque tenuti a compiere un anno di tirocinio per l’ammissione all’esame di avvocato» dovrebbe essere intesa, secondo il giudice a quo, nel senso che «il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato costituisca un quid pluris rispetto al diploma», conseguentemente, sarebbe del tutto irrazionale ammettere costoro al concorso «e che lo stesso non sia previsto per coloro che abbiano conseguito l’abilitazione alla professione di avvocato».

Infine, osserva il TAR del Lazio, non deve essere dimenticato che «la disciplina dell’accesso in magistratura ordinaria ha incidenza diretta sui valori costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza», sanciti per l’ordine giudiziario dall’art. 104, primo comma, Cost.

Se, dunque, il legislatore può legittimamente porsi alla ricerca di un «punto di equilibrio tra il perseguimento di una composizione pluralistica e paritaria del potere giudiziario e la creazione di un corpo magistratuale altamente qualificato e professionale», a tale obiettivo non sembra, tuttavia, rispondere la norma censurata. Essa subordina la partecipazione al concorso ad «un requisito di ordine meramente formale il quale viene in definitiva a costituire soltanto una incomprensibile, e ingiusta, barriera frapposta a soggetti i quali posseggono una formazione tecnica omogenea a quella richiesta per l’esercizio della funzione cui aspirano». A costoro, infatti, viene preclusa «la chance di pianificare un nuovo percorso di vita e professionale sol perché, allo stato, si trovano ad esercitare attività per le quali è stabilita l’incompatibilità con l’esercizio della professione di avvocato», secondo quanto previsto da ll’articolo 3 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).

1.4.— Non conferente, invece, appare – secondo il TAR rimettente – la comparazione stabilita dalle ricorrenti, sempre in ordine alla ragionevolezza della norma censurata, con la disposizione transitoria di cui all’art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 160 del 2006, che contempla l’accesso diretto al concorso dei laureati iscrittisi all’università prima dell’anno accademico 1998-1999.

Nel premettere che «il legislatore gode di ampia discrezionalità nel collocare nel tempo le innovazioni normative», il TAR del Lazio osserva che la disposizione suddetta non appare «manifestamente discriminatoria o irragionevole», giacché essa tende ad un obbiettivo «di tutela delle aspettative di quanti abbiano iniziato il proprio percorso formativo, e correlativamente pianificato la propria esistenza, in epoca anteriore all’avvio del travagliato iter di riforma» della disciplina dell’accesso in magistratura.

1.5.— In forza delle considerazioni sopra illustrate il TAR del Lazio ha, dunque, sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 51 e 104, primo comma, Cost., dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2006, come sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge n. 111 del 2007, «nella parte in cui richiede, ai fini dell’ammissione al concorso per magistrato ordinario, che gli abilitati all’esercizio della professione forense siano anche iscritti al relativo albo professionale».

2.— Con atto depositato in cancelleria il 18 febbraio 2009 è intervenuta in giudizio M. M., parte ricorrente nel giudizio a quo, insistendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale – per violazione degli artt. 3 e 51 Cost. – della norma censurata e dell’art. 2, lettera g), del bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23 del 21 marzo 2008.

2.1.— Ribadisce la parte privata che «la previsione del requisito meramente formale dell’iscrizione all’albo degli avvocati», quale condizione per l’ammissione al concorso in magistratura, «costituisce soltanto una incomprensibile e ingiusta barriera frapposta a soggetti che, pur possedendo una formazione tecnica omogenea a quella richiesta per l’esercizio delle funzioni di magistrato, esercitano attività ritenute incompatibili con la professione di avvocato».

Ricorrerebbe, dunque, un primo vizio di costituzionalità per «palese violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento», atteso che l’esclusione di soggetti comunque abilitati all’esercizio della professione forense integrerebbe una limitazione non fondata «su finalità o interessi coerenti e conformi alla Costituzione».

Difatti, i titoli di ammissione al concorso dovrebbero essere individuati dal legislatore «nel rispetto dei canoni di ragionevolezza e coerenza», in modo da garantire l’osservanza «dei principi costituzionali di non discriminazione e di accesso ai pubblici uffici in condizioni di eguaglianza».

Nel caso di specie, per contro, tali condizioni non risultano soddisfatte, sicché la Corte costituzionale – nel vagliare la ragionevolezza della censurata disposizione legislativa (scrutinio che implica «un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la causa normativa che la deve assistere»; sentenza n. 89 del 1996) – non potrà che pervenire alla declaratoria di illegittimità della stessa.

2.2.— Ripropone, per il resto, la parte privata le ragioni – già fatte valere nel giudizio principale – volte a contestare la legittimità dell’impugnato bando di concorso nella parte in cui detta una previsione analoga a quella di cui all’articolo 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 160 del 2006.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 51 e 104, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’articolo 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario).

1.1.— Il remittente premette, in punto di fatto, di essere investito della domanda di annullamento, previa sospensione, del bando di concorso per esami a 500 posti di magistrato ordinario, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23, del 21 marzo 2008. Deduce, inoltre, che l’articolo 2, lettera g), punto 6, del suddetto bando individua, quale requisito di ammissione al concorso, l’iscrizione del candidato all’albo degli avvocati.

Ad avviso del giudice a quo tale prescrizione realizzerebbe una «ingiusta discriminazione» nei confronti di quei candidati che – come le ricorrenti nel giudizio principale – risultano aver conseguito l’abilitazione allo svolgimento della professione forense, ma che non vogliono o non possono iscriversi nel suddetto albo.

Orbene, poiché la citata previsione del bando costituisce una «pedissequa riproduzione» dell’art. 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 160 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge n. 111 del 2007, il TAR del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale di tale norma, disponendo nel contempo l’ammissione delle ricorrenti, con riserva, al concorso, in attesa di «pronunzia definitiva sull’istanza cautelare», oltre che «della decisione di merito».

1.2.— Secondo il TAR remittente, la censurata disposizione legislativa violerebbe gli artt. 3, 51 e 104, primo comma, Cost., giacché subordinerebbe – in modo irragionevole – la partecipazione al concorso per magistrato ordinario ad «un requisito di ordine meramente formale», introducendo «una incomprensibile, e ingiusta, barriera frapposta a soggetti» (coloro i quali abbiano conseguito l’abilitazione allo svolgimento della professione forense, senza essere però iscritti nell’albo degli avvocati) che pure «posseggono una formazione tecnica omogenea a quella richiesta per l’esercizio della funzione cui aspirano».

L’irragionevolezza della norma sarebbe resa evidente, innanzitutto, dal fatto che la «valenza puramente formale» dell’iscrizione all’albo nulla aggiungerebbe «alla particolare qualificazione e/o esperienza richiesta agli aspiranti magistrati ordinari che hanno conseguito l’abilitazione, atteso che l’iscrizione medesima non è subordinata all’effettivo esercizio della professione di avvocato e non postula, quindi, nemmeno l’attualità dell’esperienza dalla stessa derivante».

Il carattere irragionevole della disposizione censurata sarebbe reso evidente, altresì, dalla circostanza che «la peculiare formazione degli abilitati all’esercizio della professione forense è omogenea o comunque affine a quella richiesta al magistrato, laddove, viceversa, l’accesso al concorso è consentito anche ai possessori di titoli che non necessariamente denotano il possesso di peculiari competenze tecniche (come i funzionari e dirigenti amministrativi aventi l’anzianità prescritta) ovvero ancora hanno natura prettamente scientifica (come i dottori di ricerca)».

Infine, l’irragionevolezza della disciplina in esame emergerebbe dal confronto con quanto previsto per i diplomati presso le Scuole di specializzazione per le professioni legali, i quali – mentre accedono al concorso per magistrato ordinario per il solo fatto di aver conseguito tale diploma – «sono comunque tenuti a compiere un anno di tirocinio per l’ammissione all’esame di avvocato». Tale circostanza, difatti, denoterebbe come «il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato costituisca un quid pluris rispetto al diploma» di specializzazione, di talché sarebbe del tutto irrazionale ammettere al concorso per magistrato ordinario coloro che abbiano conseguito detto diploma, mentre analoga possibilità non è prevista, invece, «per coloro che abbiano conseguito l’abilitazione alla professione di avvocato».

2.― È intervenuta una delle ricorrenti nel giudizio a quo, insistendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale – per violazione degli artt. 3 e 51 Cost. – della norma censurata, oltre che dell’art. 2, lettera g), del bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23 del 21 marzo 2008.

3.― Preliminarmente, deve chiarirsi come oggetto del presente scrutinio sia la sola disposizione di legge censurata dal TAR del Lazio, non potendo il sindacato di questa Corte estendersi ad atti diversi da quelli indicati dall’art. 134 Cost., né – in ogni caso, su sollecitazione di parte – oltre i limiti del thema decidendum individuato nell’ordinanza di rimessione.

4.— La questione è fondata.

4.1.— In limine, deve osservarsi, quanto alle procedure di reclutamento degli appartenenti alla magistratura ordinaria, come le scelte compiute, negli ultimi anni, dal legislatore – sulla scorta di quanto previsto dall’articolo 17, comma 113, della legge 5 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), che delegava il Governo ad emanare una nuova disciplina del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria – abbiano subìto una progressiva evoluzione. In effetti, come ha esattamente precisato l’ordinanza di rimessione, ad una iniziale tendenza ad attribuire rilievo preminente ai diplomi rilasciati dalle scuole di specializzazione per le professioni legali, ha fatto seguito un’opzione del tutto diversa, incentrata sulla eterogeneità dei titoli di ammissione al concorso rispetto alla qualificazione tecnico-prof essionale propria del magistrato.

Ne è scaturito un percorso non sempre lineare, come conferma proprio il contenuto della disposizione ora oggetto di scrutinio, la quale si presenta viziata da palese irragionevolezza, anche in relazione a quanto emerge dai lavori preparatori che hanno condotto alla sua approvazione.

4.2.— Sul punto occorre rammentare che il testo del disegno di legge governativo, dal quale è scaturita la legge n. 111 del 2007, individuava, tra i titoli di ammissione al concorso, non la mera iscrizione del candidato all’albo degli avvocati, ma l’effettivo esercizio della professione forense protratto da almeno tre anni.

Come si legge, infatti, nella relazione introduttiva al disegno di legge de quo, l’esistenza di un «comune humus culturale» con gli appartenenti all’ordine giudiziario era stata «ritenuta condizione necessaria e sufficiente» per l’inclusione – tra i soggetti legittimati a partecipare alle procedure di selezione per l’ingresso nella magistratura ordinaria – anche «degli avvocati con almeno tre anni di iscrizione all’albo professionale» (A.S. 1447, in particolare, il punto 5). L’obiettivo governativo era, dunque, di dare vita ad «una tipologia di accesso strutturata in gran parte sulla falsariga di un concorso di secondo grado tendenzialmente omogenea a quella stabilita per le altre magistrature», avendo il legislatore già individuato tra i soggetti legittimati a partecipare al concorso – per l’accesso alla magistratura sia amministrativa (articolo 14, primo comma, numero 6, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, recante «Istituzione dei tribunali amministrativi regionali») che contabile (articolo 12, primo comma, lettera d, della legge 20 dicembre 1961, n. 1345, recante «Istituzione di una quarta e una quinta Sezione speciale per i giudizi su ricorsi in materia di pensioni di guerra ed altre disposizioni relative alla Corte dei conti») – anche coloro che svolgono la professione forense da un congruo lasso di tempo, stimato, in entrambi questi casi, in non meno di cinque anni.

4.3.— Orbene, se l’intenzione di valorizzare una pregressa esperienza professionale sarebbe stata ragionevole (nonché coerente con la configurazione, quale concorso di secondo grado, di quello previsto per l’accesso alla magistratura ordinaria), non può dirsi altrettanto della scelta, in concreto compiuta dal legislatore, di limitare la partecipazione al concorso per magistrato ordinario esclusivamente agli iscritti all’albo che non abbiano riportato sanzioni disciplinari, senza, però, alcuna individuazione di un periodo minimo di iscrizione o di esercizio professionale.

Come, infatti, osserva correttamente il remittente, la disposizione censurata attribuisce rilievo decisivo ad «un requisito di ordine meramente formale», l’iscrizione all’albo forense, del quale non si comprende l’idoneità a rivelare il possesso, in capo all’aspirante magistrato, di una maggiore attitudine all’esercizio della funzione giudiziaria rispetto a quanti risultino “solo” abilitati a svolgere la professione di avvocato.

Devono, inoltre, essere poste in rilievo – in aggiunta al descritto profilo di intrinseca irragionevolezza – le conseguenze paradossali che scaturiscono dalla norma censurata e che costituiscono non già evenienze puramente contingenti ed accidentali, da ricollegare ad un suo funzionamento patologico, bensì effetti diretti del suo contenuto precettivo.

La disposizione de qua, infatti, se consente la partecipazione al concorso a chi risulti appena iscritto, al limite persino da un solo giorno, nell’albo forense, la preclude, invece, a quanti abbiano conseguito l’abilitazione, si siano iscritti all’albo ed abbiano svolto la professione addirittura per alcuni anni, per poi doversi cancellare in ragione della sopravvenienza di taluna delle cause di incompatibilità di cui all’articolo 3, secondo comma, del regio decreto-legge n. 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).

4.4.— La manifesta irragionevolezza della norma censurata e la conseguente violazione dell’art. 3 Cost. ne comportano, dunque, l’illegittimità costituzionale, dovendo ritenersi assorbite le ulteriori censure formulate dal remittente.

Pertanto, la norma censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede, tra i soggetti ammessi a partecipare al concorso, anche coloro che abbiano soltanto conseguito l’abilitazione all’esercizio professionale. Resta peraltro, fermo che continua ad essere preclusa l’ammissione al concorso medesimo di coloro che, iscritti all’albo forense, risultino aver riportato sanzioni disciplinari nel corso del loro esercizio professionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’articolo 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario), nella parte in cui non prevede tra i soggetti ammessi al concorso per magistrato ordinario anche coloro che abbiano conseguito soltanto l’abilitazione all’esercizio della professione forense, anche se non siano iscritti al relativo albo degli avvocati.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 ottobre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfonso QUARANTA , Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 ottobre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
pronuncia precedenteFare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
Pronuncia successiva

ORDINANZA N. 297

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008 n. 133, promosso dal Tribunale di Tempio Pausania nel procedimento vertente tra P.P.P. e la Meridiana s.p.a. con ordinanza del 19 dicembre 2008, iscritta al n. 117 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 22 settembre 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che, con ordinanza del 19 dicembre 2008, il Tribunale di Tempio Pausania ha sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008 n. 133;

che, riferisce il rimettente, con ricorso depositato il 10 giugno 2008, P.P.P. aveva convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Tempio Pausania, in funzione di giudice del lavoro, la società datrice di lavoro, ed aveva esposto di aver lavorato con la qualifica di assistente di volo, alle dipendenze della società convenuta, a tempo determinato, in assenza di specificazione delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine e, dunque, in contrasto con l’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, il quale consente la stipulazione di contratti a termine solo «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» e dispone che l’apposizione stessa è «priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1»;

che, alla luce di tale disposizione, il ricorrente aveva affermato che la motivazione addotta era generica, dal momento che non indicava le ragioni che avevano determinato l’apposizione del termine, così da non consentire al lavoratore ed al giudice di valutare l’effettività della motivazione e la sussistenza del necessario nesso eziologico tra il motivo addotto e l’assunzione a tempo determinato, chiedendo, pertanto, che, previa declaratoria della nullità del termine apposto ai contratti stipulati tra le parti, fosse dichiarato che fra le parti si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 1° luglio 2004 o che, in subordine, dalla successiva data di decorrenza del primo contratto riconosciuto nullo, la convenuta S.p.A. Meridiana fosse condannata a riammettere il ricorrente in servizio con le stesse mansioni indicate nei contratti a termine ed a risarcirlo dei danni subiti;

che la società Meridiana aveva resistito alla domanda, assumendone l’infondatezza nel merito, stante la legittimità del termine apposto ai contratti a norma dell’art 2 del d.lgs. n. 368 del 2001 ed aveva eccepito, in ogni caso, la prescrizione ex art. 2948 cod. civ. delle pretese di carattere economico nascenti dal rapporto di lavoro dedotto in giudizio;

che, secondo il rimettente, il quadro normativo di riferimento è costituito, per tutti i contratti a termine stipulati tra le parti, dal d.lgs. n. 368 del 2001, il quale regola ex novo la materia del contratto di lavoro a termine, prima regolata dalla legge 18 aprile 1962 n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato);

che, in base a tale disposizione, il contratto a tempo indeterminato costituiva la regola e l’assunzione a termine l’eccezione, come confermato anche dall’art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro), che rimetteva alla contrattazione collettiva il compito di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto individuale di lavoro, ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 1 della legge n. 230 del 1962 e dall’art. 8-bis del d.l. 29 gennaio 1983 n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79;

che, osserva il rimettente, il contratto a tempo indeterminato continua ad essere la forma ordinaria dei rapporti di lavoro anche nel vigente sistema normativo, poiché il d.lgs. n. 368 del 2001, per nulla modificando il rapporto di regola-eccezione sopra detto, sarebbe stato emanato dal Governo per dare attuazione alla direttiva del Consiglio dell’unione europea n. 70 del 28 giugno 1999, che a sua volta richiama integralmente l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999;

che, espone il rimettente, il d.lgs. n. 368 del 2001, mediante l’abrogazione, tra le altre, della disciplina di cui all’art. 23 della legge n. 56 del 1987, avrebbe comportato che le ipotesi di contratto a tempo determinato sono ora esclusivamente previste dal legislatore, seppure la nuova formulazione dell’art. 1 attui una semplificazione delle causali rispetto alle rigide previsioni del sistema previgente, ancorché caratterizzate da definitività;

che, tuttavia, su tale situazione inciderebbe in maniera determinante l’art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n. 133 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria);

che tale ultima norma, dopo l’articolo 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, ha inserito l’art. 4-bis (Disposizione transitoria concernente l’indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine), in base al quale «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni»;

che, secondo il rimettente, sulla base di tale norma, poiché il giudizio a quo era in corso alla data di entrata in vigore della medesima ed era ancora pendente, la ritenuta illegittimità dei contratti a tempo determinato stipulati tra le parti per violazione della disciplina di cui al d.lgs n. 368 del 2001 dovrebbe comportare che l’apposizione del termine debba essere considerata pienamente efficace, con il conseguente diritto del lavoratore di percepire una mera indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in luogo del diritto ad essere riammesso in servizio ed alla corresponsione delle retribuzioni dall’epoca in cui ha posto le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro (eventualmente detratto l’aliunde perceptum);

che, in punto di non manifesta infondatezza, ad avviso del Tribunale, tale nuova normativa violerebbe il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, dato che, ove mai altro lavoratore nelle stesse identiche condizioni dell’odierno ricorrente (assunto cioè con contratto a tempo determinato di identico tenore) facesse valere le stesse ragioni di illegittimità con un giudizio introdotto ex novo in data odierna, e comunque dopo la data di entrata in vigore dell’art. 4-bis, quel lavoratore avrebbe diritto alla riassunzione e non già all’indennità sopra richiamata non essendo a lui applicabile la norma transitoria;

che, evidenzia il rimettente, se lo stesso ricorrente del giudizio a quo, invece di adire immediatamente il giudice del lavoro, avesse proposto la causa dopo l’entrata in vigore della norma transitoria di cui qui si discute, paradossalmente avrebbe avuto pieno titolo per chiedere la riassunzione in servizio;

che, in tal modo, soggetti nella medesima situazione giuridica si troverebbero a godere di una tutela dei propri diritti sensibilmente diversa (sicuramente meno intensa nel caso di coloro ai quali viene riconosciuto soltanto l’indennizzo) senza alcuna giustificazione se non quella di aver proposto la domanda giudiziale in tempi diversi, con evidente violazione del principio di ragionevolezza, anche considerato che, per effetto della nuova norma, paradossalmente, verrebbe penalizzato proprio colui che per primo ha fatto ricorso al giudice;

che, sotto altro profilo, la norma denunciata sembra al rimettente in contrasto anche con il generale principio dell’affidamento del cittadino sulla certezza e sicurezza dell’ordinamento giuridico quale elemento essenziale dello Stato di diritto, principio più volte valorizzato dalla giurisprudenza costituzionale;

che, infine, la norma denunciata contrasterebbe altresì con l’art. 117, comma 1, Cost., secondo cui la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 84, la quale, nell’affermare che ogni persona ha diritto ad un giusto processo dinanzi ad un Tribunale indipendente ed imparziale, impone al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia o di una determinata categoria di controversie;

che è intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, sottolineando che l’art. 4-bis, oggetto di censura, è stato già giudicato costituzionalmente illegittimo dalla Corte, con sentenza n. 214 del 2009, e chiedendo, conseguentemente, che sia dichiarata la manifesta inammissibilità della questione sopra indicata.

Considerato che il Tribunale di Tempio Pausania dubita, con riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008 n. 133;

che la disposizione censurata è già stata dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte con sentenza n. 214 del 2009;

che, pertanto, analogamente a quanto già disposto in precedenza da questa Corte, anche con riferimento alla medesima norma impugnata (ordinanza n. 65 del 2010) va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione, divenuta priva di oggetto.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

la corte costituzionale

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, sollevata dal Tribunale di Tempio Pausania con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 ottobre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 ottobre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
pronuncia precedente

ORDINANZA N. 298

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2008), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Cremona nel procedimento vertente tra la Latteria Sociale Ca’ de’ Stefani s.c.a. e il Comune di Vescovato con ordinanza del 12 giugno 2009, iscritta al n. 120 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 22 settembre 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che, con ordinanza depositata il 12 giugno 2009, la Commissione tributaria provinciale di Cremona ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2008), nella parte in cui prevede la irripetibilità delle somme versate a titolo di imposta comunale sugli immobili (ICI) per i periodi precedenti all’anno 2008 dai soggetti destinatari delle disposizioni di cui alla lettera i) del comma 3-bis dell’art. 9 del decreto-legge 30 dicembre 1993, n. 557 (Ulteriori interventi correttivi di finanza pubblica per l’anno 1994), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, nel testo introdotto dall’art. 42-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia econom ico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222;

che il rimettente riferisce di essere chiamato a giudicare in ordine alla impugnazione del silenzio formatosi sulla istanza volta ad ottenere il rimborso dell’ICI versata, riguardo agli anni di imposta 2004 e 2005, dalla Latteria sociale Ca’ de’ Stefani s.c.a. al Comune di Vescovato in relazione ad un fabbricato di proprietà della cooperativa istante, da questa utilizzato per la attività di conservazione, manipolazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli conferiti dai soci;

che, affermata, pertanto, la strumentalità dell’immobile in discorso rispetto alla attività da essa svolta – che ne comporterebbe la “ruralità” e, di conseguenza, secondo quanto disposto dall’art. 2 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 431), la esclusione dall’ICI – la Latteria Ca’ de’ Stefani ha presentato l’istanza di rimborso rimasta, però, senza esito;

che il rimettente, riferiti gli argomenti addotti dalla parte ricorrente onde dimostrare la sua natura di imprenditore agricolo e, pertanto, la non soggezione all’ICI degli immobili in suo possesso che siano strumentali all’esercizio dell’impresa, aggiunge che il Comune di Vescovato, nel costituirsi, aveva sostenuto che la forma societaria attraverso la quale opera la ricorrente faceva venir meno quelle esigenze di tutela che giustificano la esclusione dall’ICI per i fabbricati rurali;

che, osserva il rimettente, il legislatore, con l’art. 2, comma 4, della legge n. 244 del 2007, ha previsto la irripetibilità di quanto versato prima del 2008 a titolo di ICI dai soggetti destinatari delle disposizioni di cui alla lettera i) del comma 3-bis dell’art. 9 del decreto-legge n. 557 del 1993 in relazione alle costruzioni di cui alla medesima lettera i);

che tale disposizione è, secondo il rimettente, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione in quanto discrimina fra chi, avendo pagato l’imposta, non è ammesso al rimborso e chi, invece, non avendo corrisposto nulla, non è tenuto a versarla;

che, dato atto che analoga questione di legittimità costituzionale già è stata sollevata da altra Commissione tributaria, il rimettente rileva che, sulla base delle legislazione vigente, il ricorso dovrebbe essere rigettato;

che, dato che ritiene indubbia la strumentalità del fabbricato di proprietà della Latteria Ca’ de’ Stefani rispetto alla attività agricola dalla medesima svolta, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 4, della legge n. 244 del 2007, poiché siffatta disposizione, che spiega i suoi effetti anche riguardo agli anni di imposta oggetto della istanza di rimborso, violerebbe, ad avviso del rimettente, il principio di ragionevolezza in quanto, impedendo il riconoscimento in favore della ricorrente del diritto al rimborso dell’imposta non dovuta, crea un’ingiustificata disparità di trattamento fra chi avendo versato l’imposta non ha diritto alla ripetizione e chi, non avendola versata, non è più tenuto al pagamento.

Considerato che, la Commissione tributaria provinciale di Cremona ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2008), nella parte in cui prevede la irripetibilità delle somme versate a titolo di imposta comunale sugli immobili (di seguito ICI) per i periodi precedenti all’anno 2008 dai soggetti destinatari delle disposizioni di cui alla lettera i) del comma 3-bis dell’art. 9 del decreto-legge 30 dicembre 1993, n. 557 (Ulteriori interventi correttivi di finanza pubblica per l’anno 1994), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, nel testo introdotto dall’art. 42-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito con mod ificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, deducendone il contrasto con l’art. 3 della Costituzione in quanto, premessa la esclusione dall’ambito applicativo dell’ICI del possesso da parte delle Società cooperative agricole delle costruzioni strumentali allo svolgimento delle attività di cui all’art. 2135 del codice civile, non consente la ripetizione di quanto da esse già pagato a titolo di ICI, così creando un’ingiustificata disparità di trattamento fra chi, avendo pagato, non ha diritto al rimborso, e chi, non avendo pagato, non è tenuto ad alcun versamento;

che questa Corte, con sentenza n. 227 del 2009, successiva alla ordinanza di rimessione, già ha dichiarato la illegittimità costituzionale della disposizione censurata dalla Commissione tributaria provinciale di Cremona;

che, per effetto di tale sentenza, la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione è divenuta priva di oggetto;

che deve, pertanto, essere dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale relativa alla detta disposizione.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2008), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Cremona, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 ottobre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 ottobre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA