Ultime pronunce pubblicate deposito del 15/04/2010
 
131/2010 pres. AMIRANTE, red. MADDALENA   visualizza pronuncia 131/2010
132/2010 pres. AMIRANTE, red. SAULLE   visualizza pronuncia 132/2010
133/2010 pres. AMIRANTE, red. SILVESTRI   visualizza pronuncia 133/2010
134/2010 pres. AMIRANTE, red. SAULLE   visualizza pronuncia 134/2010
135/2010 pres. AMIRANTE, red. GROSSI   visualizza pronuncia 135/2010
136/2010 pres. AMIRANTE, red. GROSSI   visualizza pronuncia 136/2010
137/2010 pres. DE SIERVO, red. TESAURO   visualizza pronuncia 137/2010

 
 

Deposito del 15/04/2010 (dalla 131 alla 137)

 
S.131/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 09/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Norme impugnate: Artt. 1, c. 2°, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24/12/2008, n. 26; art. 1 della legge della Regione Lazio 24/12/2008, n. 27.

Oggetto: Professioni - Norme della Regione Lazio - Istituzione e disciplina delle nuove figure professionali, non ancora disciplinate da specifica legge statale, del mediatore familiare e del coordinatore per la mediazione familiare - Istituzione di un elenco regionale e indicazione dei titoli per l'iscrizione all'elenco e l'esercizio della professione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - altro
Atti decisi: ric. 18/2009
S.132/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 09/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Artt. 2, c. 1° e 2°, 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19/12/2008, n. 37.

Oggetto: Professioni - Norme della Regione Puglia - Istituzione di nuove professioni turistiche - Definizione dei profili e declaratoria delle funzioni, requisiti minimi per l'accreditamento, modalità e requisiti per l'iscrizione negli elenchi provinciali.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - altro
Atti decisi: ric . 12/2009
< /tr>
S.133/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 10/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Artt. 9 bis, c. 5°, e 22, c. 2° e 3°, del decreto legge 01/07/2009, n. 78, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1°, della legge 03/08/2009, n. 102.

Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Finanza regionale - Regioni a statuto speciale - Patto di stabilità interno per gli enti locali - Istituzione di un fondo presso il Ministero dell'economia per attività di carattere sociale di pertinenza regionale - Prevista adozione di un d.P.C.m., sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni e acquisito il parere espresso in sede di tavolo di confronto di cui all'ar t. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2009, che fissi i criteri per la determinazione dell'ammontare dei proventi spettanti alle Regioni, in misura tale da garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica - Lamentata modifica unilaterale all'ordinamento finanziario della Regione Valle d'Aosta, già definito da legge modificabile solo con il particolare procedimento statutario, nonché squilibrio del bilancio regionale;
Istituzione di un fondo con dotazione pari a 800 milioni di euro, a decorrere dal 2010, per interventi nel settore sanitario, da definirsi con decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell'economia, sentita la Conferenza Stato-Regioni - Previsione che il fondo sia alimentato con le economie di spesa derivanti dall'applicazione del d.l. n. 39 del 2009 e che in sede di r iparto del finanziamento del servizio sanitario nazionale sia determin ata la quota che le Regioni a statuto speciale e le Province autonome riversano in entrata al bilancio dello Stato - Lamentata modifica unilaterale all'ordinamento finanziario della Regione Valle d'Aosta, che non tiene conto che la Regione Valle d'Aosta provvede al finanziamento del Servizio sanitario regionale con risorse a carico del proprio bilancio e non partecipa al c.d. Patto della Salute.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 68, 80/2009
S.134/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 23/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Legge della Regione Liguria 06/03/2009, n. 4.

O ggetto: Straniero - Norme della Regione Liguria - Modifica all'art. 1 della legge regionale n. 7 del 2007 - Centri di identificazione e di espulsione degli stranieri - Indisponibilità della Regione ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 32/2009
O.135/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 12/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Artt. 74 e 75 della legge 25/06/1865, n. 2359.

Oggetto:< /strong> Usi civici - Procedimento amministrativo per l'espropriazione , per opere militari, di terreni gravati da usi civici e ubicati nel territorio della Regione Sardegna - Acquisizione del parere non vincolante della Regione - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 147/2009
O.136/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 10/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Art. 3, c. 1° e 6°, della legge della Provincia autonoma di Trento 03/04/2009, n. 4.

Oggetto: Concorrenza - Commercio - Norme della Provincia di Trento - Vendite promozionali - Obbligo di comunicazione alla camera di commercio e per conoscenza al comune competente - Previsione di sanzione amministrativa per l'inadempienza - Contrasto con la normativa statale che vieta ogni forma di restrizione a qualunque tipologia di vendita promozionale.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 37/2009
O.137/2010 del 12/04/2010
Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Artt. 5, 25, 27, c. 7°, 28, c. 1°, 31, c. 2° e 3° e 52, della legge della Provincia di Bolzano 09/04/2009, n. 1.

Oggetto: Appalti pubblici - Norme della Provincia di Bolzano - Modifica dell'art. 15 della legge provinciale n. 2/1987 - Acquisto a titolo oneroso di edifici, da destinare a sedi di uffici e servizi dell'amministrazio ne, tramite procedimento a evidenza pubblica - Contrasto con la disciplina del codice dei contratti pubblici che riserva allo Stato la disciplina delle procedure di affidamento; Introduzione dell'art. 6-sexies alla legge provinciale n. 17/1993 - Attribuzione al regolamento di esecuzione della disciplina delle modalità di istituzione e di funzionamento delle procedure informatizzate, con particolare riguardo all'abilitazione dei fornitori - Contrasto con la disciplina del codice dei contratti pubblici che riserva allo Stato la disciplina delle procedure di affidamento; Introduzione dell'art. 41-bis alla legge provinciale n. 6/1998 - Previsione dell'istituto c.d. dell'avvalimento - Contrasto con la disciplina del codice dei contratti pubblici che riserva allo Stato la disciplina delle procedure di affidamento, dei rapporti connessi all'esecuzione del contratto e del contenzioso.

Ambiente - Norme della Provincia di Bolzano - Modifiche alla legge provinciale n. 4/2006 - Gestione dei rifiuti e tutela del suolo - Esclusione dell'obbligo di adozione del formulario di identificazione del trasporto di rifiuti nel caso di trasporti di rifiuti speciali non pericolosi che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri effettuati dal produttore di rifiuti stessi - Omessa previsione del carattere occasionale e saltuario previsto dal codice dell'ambiente - Previsione di sanzioni meno restrittive rispetto a quelle previste dal codice dell'ambiente - Lamentata riduzione degli standard di tutela ambientale stabiliti dal legislatore statale.

Impiego pubblico - Amministrazione pubblica - Norme della Provincia di Bolzano - Sostituzione dell'art. 14, comma 2, della legge provinciale n. 10/1992 - Nomina del direttore generale e dei direttori di dipartimento - Possibilità di conferimento a persone estranee all'amministrazione provinciale, "di riconosciuta esperienza e competenza, in possesso di diploma di laurea e de i requisiti prescritti per l'accesso all'impiego presso l'amministrazi one provinciale, escluso il limite di età".

Istruzione - Minoranze linguistiche - Norme della Provincia di Bolzano - Scuole ladine dell'infanzia - Accesso all'impiego quale insegnante e collaboratore pedagogico - Necessità di attestare l'appartenenza al gruppo linguistico ladino - Contrasto con le norme statutarie e di attuazione

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 41/2009

pronuncia successiva

SENTENZA N. 131

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare) e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27 febbraio 2009, depositato in cancelleria il 5 marzo 2009 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;

udito nell’udienza pubblica del 9 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Paolo Papanti-Pelletier per la Regione Lazio.

Ritenuto in fatto

1.- Con ricorso notificato il 27 febbraio 2009 e depositato il 5 marzo 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato in via principale, a seguito di delibera governativa in data 20 febbraio 2009, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare), nonché delle disposizioni con essi inscindibilmente connesse o dipendenti, e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”), affermandone il contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui esso attribuisce allo Stato la competenza legislativa riguardo ai principi fondamentali in materia di professioni.

Riferisce il ricorrente che la legge regionale n. 26 del 2008 si propone di disciplinare, nell’ambito della Regione, le figure del mediatore familiare e del coordinatore per la mediazione familiare, introducendo una nuova figura professionale non altrimenti prevista da legge dello Stato. L’unico articolo della coeva legge regionale n. 27 del 2008 ha modificato l’art. 6 della legge n. 26 del 2008, integrandone i commi 1 e 2 ed eliminando il comma 3.

Specificamente, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26 del 2008 reca la definizione generale del ruolo e della figura professionale del mediatore familiare; gli artt. 3 e 4, a loro volta, prevedono e disciplinano la particolare figura di mediatore familiare costituita dal coordinatore per la mediazione familiare (istituito presso ogni ASL), del quale stabiliscono i compiti e le finalità; l’art. 6, infine, istituisce, presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori familiari e reca l’analitica disciplina dei requisiti per l’accesso all’elenco stesso.

L’art. 1 della legge regionale n. 27 del 2008, nel modificare l’art. 6 della legge regionale n. 26 del 2008, ha esteso anche ai laureati in pedagogia la possibilità di iscriversi al suddetto elenco, mentre ha abrogato l’incompatibilità tra mediazione familiare ed esercizio di altre professioni o attività di impresa.

Ad avviso della difesa erariale, le disposizioni impugnate si propongono di individuare la funzione e i compiti, anche di supporto ai tribunali, del mediatore familiare e del coordinatore per la mediazione familiare, nonché, previa istituzione di un apposito elenco regionale, gli specifici titoli di cui il mediatore familiare deve essere in possesso per l’iscrizione all’elenco e, di seguito, per l’esercizio della professione.

Secondo l’Avvocatura, le norme denunciate sarebbero riconducibili alla materia delle “professioni”, appartenente alla competenza legislativa concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.

Il ricorrente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale, spetta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente previste dall’art. 117, terzo comma, Cost., mentre la legislazione regionale deve svolgersi nel rispetto di quelli risultanti dalla normativa statale già in vigore; ed osserva che, in base all’art. 1, comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131), la potestà legislativa regionale si esercita relativamente alle professioni individuate e definite dalla normativa statale.

Secondo la difesa erariale, l’art. 155-sexies cod. civ., introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), ha soltanto previsto, ma non istituito, la figura professionale del mediatore familiare, che difatti non é definita né disciplinata in alcuna legge statale.

La Regione – osserva l’Avvocatura – avrebbe riservato a sé la determinazione dei titoli professionali e dei correlativi contenuti della professione di mediatore familiare e di coordinatore. Ciò emergerebbe in particolare dall’art. 6 della legge n. 26 del 2008, che tra l’altro equipara, ai fini della idoneità all’iscrizione nell’elenco di mediatore familiare, titoli di natura profondamente diversa perché conseguibili all’esito di percorsi formativi differenti e non assimilabili tra loro. Secondo la difesa erariale, non potrebbero infatti porsi sullo stesso piano titoli conseguiti a seguito di percorso formativo di livello universitario specialistico e titoli ottenuti mediante percorso formativo di livello inferiore, qual è il titolo di formazione regionale conseguito all’esito della frequenza di un corso della durata di cinquecento ore. Tale situazione potrebbe peraltro ingannare l& #8217;utenza, inducendola a ritenere di livello universitario un mediatore familiare munito invece del solo diploma regionale, con conseguente violazione del principio di tutela dell’utenza, che costituisce uno dei principi fondamentali tutelati dalle leggi statali in materia di attività professionali.

2.- Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la Regione Lazio, che ha concluso per l’infondatezza della questione.

Secondo la difesa della Regione, il ricorso muoverebbe dal falso presupposto che la legge regionale impugnata abbia introdotto e disciplinato una nuova professione: quella del “mediatore familiare” e del “coordinatore per la mediazione familiare”. In realtà, la legge regionale impugnata non avrebbe affatto né introdotto né disciplinato una “professione”, ma avrebbe individuato una “figura professionale”, cioè dotata di particolari competenze, destinata ad essere impiegata nell’ambito di strutture pubbliche ed esercitante funzioni pubblicistiche.

Secondo la difesa della Regione, la ratio che ispira l’intero provvedimento normativo è quella di delineare una “figura professionale”, non un “professionista” lavoratore autonomo, operante nell’ambito della mediazione familiare. Tale diversa prospettiva emergerebbe dall’analisi delle singole disposizioni e, in particolare, di quelle che stabiliscono i compiti e le finalità del coordinatore per la mediazione familiare: compiti e finalità di natura essenzialmente pubblicistica, che, come tali, non sono e non possono essere attuati o perseguiti da un professionista lavoratore autonomo.

In particolare, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26 del 2008 evidenzierebbe l’aspetto pubblicistico già nella parte in cui prevede le modalità di accesso all’opera di tale soggetto. Si prescrive infatti che il mediatore familiare possa essere “sollecitato” dalle parti a svolgere la sua opera. Tale locuzione verbale – afferma la Regione – sarebbe indice del fatto che la legge prevede, non già il conferimento di un mandato professionale nell’ambito di un contratto di opera professionale, bensì che tale soggetto, il quale opera all’interno di una struttura sanitaria (come chiarito dal successivo art. 3), possa essere richiesto dalle parti di intervenire per “adoperarsi” nel senso indicato dalla norma. La stessa disposizione prevede che l’intervento del mediatore professionale, oltre che sollecitato dalle parti, possa avvenire su invito del giudice o dei servizi sociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia e dell’adolescenza.

Anche l’art. 3 della stessa legge regionale, nel disciplinare la figura del coordinatore per la mediazione familiare, prevederebbe in realtà l’attribuzione a tale figura professionale di un vero e proprio ufficio pubblico.

Le finalità che il mediatore familiare è chiamato a svolgere in base all’art. 4 della legge regionale sarebbero ben lontane dall’esercizio di una professione, ai sensi dell’art. 117 Cost.

Quanto all’art. 6 della legge regionale, è bensì vero – osserva la Regione – che esso ha previsto un elenco regionale dei mediatori familiari, ma tale elenco non può considerarsi istitutivo di una professione operante a livello regionale, perché mancherebbero le caratteristiche proprie di un’attività professionale di lavoro autonomo. Secondo la difesa della Regione Lazio, la legge impugnata, pur avendo assegnato al mediatore familiare funzioni (compiti e finalità) esclusivamente pubblicistiche, e pur avendo previsto la sua collocazione presso ogni azienda unità sanitaria locale, non ha tuttavia definito il tipo di rapporto che lega tale soggetto all’ente. La legge non chiarisce infatti se il mediatore sia legato alle ASL da un rapporto di pubblico impiego ovvero se egli abbia un rapporto basato, ad esempio, su un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Queste modalità attuati ve – precisa la Regione – saranno chiarite da regolamenti attuativi. Intanto, l’elenco di cui all’art. 6 assolve essenzialmente la funzione di individuare una lista di soggetti, dotati di particolari professionalità, dalla quale poter attingere per il loro inserimento nell’ambito delle ASL o eventualmente di altri enti regionali. Un chiaro sintomo di ciò sarebbe dato dal fatto che l’opera di tale figura professionale è a carico delle finanze della Regione, come si desume dall’art. 8, che prescrive che le risorse necessarie all’applicazione della presente legge sono individuate nei limiti delle disponibilità finanziarie di cui al fondo per l’attuazione del piano socio-assistenziale regionale.

Dopo aver ricordato i caratteri essenziali delle professioni propriamente dette, alle quali si riferisce l’art. 117, terzo comma, Cost. ed alla cui base vi è un contratto fra il professionista ed il cliente, la difesa della Regione ribadisce che l’attività del mediatore familiare non trova la sua fonte in un contratto di opera intellettuale, bensì in un sollecito da parte degli interessati (cioè in una richiesta di intervento, quale può rivolgersi solo ad una pubblica autorità) ovvero in un invito del giudice o di enti pubblici. Si è, in ogni caso, ben lontani dal conferimento di un mandato professionale di tipo privatistico. Inoltre, dal complesso delle norme regionali emergerebbe che il mediatore familiare o il coordinatore per la mediazione familiare è, in realtà, un ufficio, nel quale i singoli addetti svolgono la loro opera non in quanto scelti dalle parti o dal giudice o dalle altre autorità, ma in quanto inseriti in un’organizzazione gerarchicamente ordinata, nella quale non assume rilievo esterno l’intuitus personae del singolo operatore. Nel caso della legge in esame, si riscontrerebbe, non l’autonomia del professionista, ma, all’opposto, un vincolo ad agire secondo i compiti e le finalità, di cui agli artt. 3 e 4. Il mediatore familiare avrà, al più, un ambito di discrezionalità, propria dell’agire amministrativo, nell’ambito di obiettivi rigidamente predeterminati. Tutta l’attività che deve svolgere il mediatore familiare è, infine, a beneficio della collettività e, solo indirettamente, si riverbera sugli utenti del servizio.

Da ultimo, la Regione sottolinea che anche altre Regioni hanno emanato regolamenti per disciplinare la professione di mediatore familiare.

3.-In prossimità dell’udienza l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria illustrativa.

Considerato in diritto

1.-Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare), nonché delle disposizioni con essi inscindibilmente connesse o dipendenti, e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”), denunciandone il contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Ad avviso del ricorrente, le citate disposizioni – le quali: recano la definizione generale del ruolo e della figura professionale del mediatore familiare, quale professionista deputato a svolgere, anche su invito del giudice, un ruolo di compiuta mediazione nei procedimenti di separazione della famiglia e della coppia nell’interesse dei figli; prevedono e disciplinano la particolare figura di mediatore familiare costituita dal coordinatore per la mediazione familiare (istituito presso ogni ASL), del quale stabiliscono i compiti e le finalità, diretti da un lato a realizzare progetti di politiche efficaci a tutela della famiglia e dall’altro a costituire un punto di riferimento per i tribunali e i magistrati che si occupano di separazioni che coinvolgono figli minori; istituiscono, presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori familiari e recano la analitica disci plina dei requisiti per l’accesso all’elenco stesso – si porrebbero in contrasto con il principio fondamentale in materia di regolamento delle professioni, in base al quale spetta esclusivamente allo Stato l’individuazione delle figure professionali con i relativi profili e i titoli abilitanti.

2.-La questione è fondata.

2.1.- Con la legge n. 26 del 2008 la Regione Lazio pone una regolamentazione complessiva della mediazione familiare, individuata – secondo la definizione che ne dà l’art. 1 – come il «percorso che sostiene e facilita la riorganizzazione della relazione genitoriale nell’ambito di un procedimento di separazione della famiglia e della coppia alla quale può conseguire una modifica delle relazioni personali tra le parti», e si propone come obiettivi (art. 2) la tutela della «famiglia e della coppia con prole come principale nucleo di socializzazione», il sostegno alla genitorialità, il mantenimento, in caso di separazione, dell’affidamento dei figli «ad entrambi i genitori, mediante l’assunzione di accordi liberamente sottoscritti dalle parti che tengano conto della necessità di tutelare l’interesse morale e materiale dei figli».

In questo quadro, con le norme impugnate (della stessa legge n. 26 del 2008 e della coeva legge n. 27 del 2008, recante un articolo unico a modifica dell’art. 6 della legge n. 26 del 2008) la Regione: (a) individua nel mediatore familiare colui che, «sollecitato dalle parti o su invito del giudice o dei servizi sociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, si adopera, nella garanzia della riservatezza e in autonomia dall’ambito giudiziario, affinché i genitori elaborino personalmente un programma di separazione soddisfacente per loro e per i figli, nel quale siano specificati i termini della cura, dell’educazione e della responsabilità verso i figli minori»; (b) istituisce, presso ogni azienda sanitaria locale, «la figura del coordinatore per la mediazione familiare avente la qualifica di mediatore familiare», con il compito di «acquisire dati relativi alla condizione familiare attrav erso indagini, studi e ricerche presso gli enti locali, i tribunali, i servizi sociali, le associazioni di volontariato, le forze dell’ordine, le scuole e i consultori», di coadiuvare la Regione «nella progettazione di politiche efficaci di tutela della vita della famiglia e della coppia e di sostegno alla genitorialità responsabile», di «costituire un punto di riferimento prioritario per i tribunali», di avviare un dialogo con tutti coloro, compresi i magistrati, che «si occupano di situazioni di separazione “disfunzionali” che vedano il coinvolgimento di figli minori»; (c) stabilisce le finalità del coordinatore per la mediazione familiare («rispondere alle esigenze di ascolto e di aiuto che provengono dalle famiglie e dalle coppie»; offrire un punto di riferimento «per la risoluzione dei conflitti relazionali, con particolare riferimento alle fasi della separazione, del divorzio e della cessazione della convivenza»; «raccordarsi con le istituz ioni presenti sul territorio»; «garantire un supporto alla progettazio ne di interventi e servizi sul territorio»; «identificare le aree a rischio»; «attuare azioni positive per la promozione della pariteticità»); (d) istituisce, «presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori professionali», stabilendo che ad esso «possono iscriversi coloro che sono in possesso di laurea specialistica in discipline pedagogiche psicologiche, sociali o giuridiche nonché di idoneo titolo universitario, quale master, specializzazione o perfezionamento, di durata biennale, di mediatore familiare oppure di specializzazione professionale conseguita a seguito della partecipazione ad un corso, riconosciuto dalla Regione Lazio, della durata minima di cinquecento ore»; «coloro che, in possesso della laurea specialistica in discipline pedagogiche psicologiche, sociali o giuridiche alla data di entrata in vigore della […] legge, abbiano svolto per almeno due anni, nel quinquennio antec edente l’entrata in vigore della legge, attività di mediazione familiare da comprovare sulla base di idonea documentazione».

2.2.- L’impianto complessivo, lo scopo ed il contenuto precipuo delle disposizioni impugnate rendono palese che l’oggetto di esse deve essere ricondotto propriamente alla materia concorrente delle “professioni” (art. 117, terzo comma, Cost.).

Nello scrutinio di disposizioni legislative regionali aventi ad oggetto la regolamentazione di attività di tipo professionale, questa Corte ha ripetutamente affermato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle “professioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera di singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale» (sentenze n. 153 e n. 424 del 2006, n. 57 del 2007, n. 138 e n. 328 del 2009). Ha, altresì, precisato che la «istituzione di un registro profession ale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno già, di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale» (sentenze n. 93 del 2008, n. 138 e n. 328 del 2009).

Ora, la legislazione statale, con l’art. 155-sexies del codice civile, aggiunto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, ha soltanto accennato alla attività di mediazione familiare, senza prevedere alcuna specifica professione, stabilendo che «qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli», ma, a tutt’oggi, non ha introdotto la figura professionale del mediatore familiare, né stabilito i requisiti per l’esercizio dell’attività.

Le disposizioni denunciate danno una definizione della mediazione familiare, disciplinano le caratteristiche del mediatore familiare e stabiliscono gli specifici requisiti per l’esercizio dell’attività, con la previsione di un apposito elenco e delle condizioni per la iscrizione in esso. Ma, così facendo, invadono una competenza sicuramente statale.

Non pare dubbio, infatti, che, attraverso la predetta disciplina, siano stati individuati i titoli abilitanti per lo svolgimento in ambito regionale della professione di mediatore familiare, in tal modo travalicando, secondo quanto dianzi precisato, gli ambiti di competenza legislativa regionale in materia di professioni.

Non rileva la circostanza – sottolineata dalla difesa della resistente – che il mediatore familiare non sarebbe un professionista autonomo, ma una figura professionale, legata alla Regione, alla quale sarebbero affidati compiti e funzioni di rilievo pubblicistico.

Per un verso, infatti, la competenza dello Stato ad individuare i profili professionali ed i requisiti necessari per il relativo esercizio spetta anche quando l’attività professionale sia destinata a svolgersi in forma di lavoro dipendente (artt. 1, comma 3, e 2, comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, recante “Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131”); per l’altro, «l’individuazione di una specifica area caratterizzante la “professione” è ininfluente ai fini della regolamentazione delle competenze derivante dall’applicazione nella materia in esame del terzo comma dell’art. 117 Cost.» (sentenza n. 40 del 2006, nonché, tra le altre, sentenze n. 355 e n. 424 del 2005). Su tali premesse,

questa Corte (sentenza n. 153 del 2006) ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale di una normativa regionale che disciplinava figure professionali alle quali la Regione faceva ricorso per il funzionamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

3.- L’intera legge regionale n. 26 del 2008 è inscindibilmente connessa, per il suo contenuto, con le disposizioni specificamente censurate dal ricorrente e pertanto la declaratoria di illegittimità costituzionale deve essere estesa, in via consequenziale, anche agli artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8, non oggetto di impugnazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”);

3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale in via consequenziale degli artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 132

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, e degli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19-24 febbraio 2009, depositato in cancelleria il 24 febbraio 2009 ed iscritto al n. 12 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione, fuori termine, della Regione Puglia;

udito nell’udienza pubblica del 9 marzo 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

udito l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 19-24 febbraio 2009 e depositato il 24 febbraio 2009, ha impugnato l’art. 2, commi 1 e 2, e gli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), e terzo comma, della Costituzione.

Il ricorrente, pur riconoscendo la competenza legislativa residuale delle Regioni in relazione al turismo, osserva che le professioni turistiche ricadono nella materia delle «professioni», attribuita alla competenza legislativa concorrente Stato-Regione.

In particolare, la difesa erariale ritiene che l’art. 2, commi 1 e 2, nello stabilire la creazione di nuove professioni turistiche (interprete turistico, operatore congressuale e guida turistica sportiva), sia in contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione e specificamente con il principio fondamentale secondo cui l’individuazione di figure professionali e dei relativi profili spetta allo Stato.

Per gli stessi motivi, anche il successivo art. 4 della legge regionale n. 37 del 2008, nella parte in cui individua «i requisiti minimi per l’accreditamento degli esercenti le professioni turistiche, come definite dall’art. 2», violerebbe l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

L’Avvocatura censura poi gli artt. 7 e 8 della citata legge regionale i quali prevedono l’istituzione «e la tenuta di albi e di elenchi professionali», nonché l’individuazione delle condizioni necessarie per iscriversi negli stessi.

Entrambe le disposizioni risulterebbero in contrasto con il citato art. 117, terzo comma, della Costituzione, poiché rientra nella competenza dello Stato «l’individuazione dei requisiti per l’esercizio delle professioni ed il conseguente rilascio delle relative autorizzazioni che devono valere per l’intero territorio nazionale e non solo per quello regionale».

Infine, secondo il ricorrente, tutte le norme impugnate violerebbero il principio della libera prestazione dei servizi, nonché quello della tutela della concorrenza, entrambi rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

2. – Con atto depositato in data 10 aprile 2009, dunque tardivamente, si è costituita in giudizio la Regione Puglia.

3. – Con successiva memoria, depositata in data 16 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito le argomentazioni già sviluppate nel ricorso ed ha insistito per il suo accoglimento.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 2, commi 1 e 2, e gli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto il legislatore regionale avrebbe introdotto nuove figure professionali nel settore turistico, istituito elenchi ed individuato le condizioni necessarie per l’iscrizione negli stessi, in contrasto i principi fondamentali previsti dalla legislazione statale in materia di professioni.

Le disposizioni censurate, a parere del ricorrente, contrasterebbero anche con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, poiché «le limitazioni» da esse introdotte violano il principio della libera prestazione dei servizi, nonché quello della concorrenza.

2. – In via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la censura relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione in quanto il ricorrente non ha sufficientemente motivato in punto di non manifesta infondatezza, con il risultato che essa è formulata in modo generico ed apodittico (ex plurimis, sentenza n. 80 del 2010, ordinanza n. 344 del 2008).

3. – Nel merito il ricorso è fondato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

3.1 – Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di professioni il principio secondo il quale «compete allo Stato l’individuazione dei profili professionali e dei requisiti necessari per il relativo esercizio» si applica anche nei confronti delle professioni turistiche (sentenza n. 271 del 2009).

3.1 – Nel caso di specie, l’art. 2, commi 1 e 2, della legge regionale censurata prevede la creazione di tre nuove figure professionali (interprete turistico, operatore congressuale e guida turistica sportiva), che non risultano regolate dalla legislazione statale vigente in materia di professioni turistiche. Il successivo art. 4 stabilisce i requisiti minimi, nonché la tipologia dei titoli specifici necessari per l’accreditamento di coloro che svolgono professioni turistiche. Infine, gli artt. 7 e 8 della legge regionale n. 37 del 2008 disciplinano sia le condizioni per l’iscrizione negli elenchi provinciali degli esercenti le professioni turistiche, la cui istituzione è espressamente prevista dall’art. 5 della cennata legge regionale, sia l’esercizio delle medesime professioni, nonché contemplano gli effetti dell’iscrizione nei suddetti elenchi provinciali.

Così sinteticamente riportato il contenuto delle disposizioni censurate, i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal ricorrente vanno risolti alla luce del richiamato principio fondamentale in materia di professioni che riserva allo Stato l’individuazione di nuove figure professionali e la disciplina dei relativi profili e titoli abilitanti (ex plurimis, sentenze n. 138 del 2009, n. 179 del 2008 e n. 300 del 2007), nonché della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui «la istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per l’iscrizione ad esso, prescindendosi dalla circostanza […] che tale iscrizione si caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini dello svolgimento delle attività cui l’elenco fa riferimento, hanno già di per sé una “funzione individuatrice della professione”, come tale preclusa alla competenza regionale» (ex plurimis, sentenze n . 300 e n. 57 del 2007).

Vanno pertanto dichiarate incostituzionali le disposizioni regionali impugnate, in quanto non rispettano i limiti imposti dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione in materia di professioni.

4. – Poiché le altre norme della legge regionale n. 37 del 2008 hanno una inscindibile connessione con le disposizioni specificamente oggetto di censura, così che, senza queste ultime, dette norme risultano prive di autonoma portata normativa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la declaratoria di incostituzionalità deve estendersi all’intera legge.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, nonché degli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), e, per conseguenza, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, della restante parte della legge.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 133

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 9-bis, comma 5, e 22, commi 2 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, promossi dalla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e dalla Provincia autonoma di Trento, con ricorsi notificati il 30 settembre-2 ottobre 2009 ed il 3 ottobre 2009, depositati in cancelleria il 1° ed il 7 ottobre 2009 ed iscritti ai nn. 68 e 80 del registro ricorsi 2009.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi gli avvocati Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d’Aosta, Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Provincia autonoma di Trento e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste ha promosso, con ricorso notificato il 30 settembre-2 ottobre 2009 e depositato il 1° ottobre 2009 (reg. ric. n. 68 del 2009), questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9-bis, comma 5, e 22, commi 2 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, per violazione degli artt. 48-bis e 50, quinto comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione.

1.1. – Il comma 5 dell’art. 9-bis è impugnato nella parte in cui prevede che «In funzione di anticipazione dell’attuazione delle misure connesse alla realizzazione di un sistema di federalismo fiscale, secondo quanto previsto dalla legge 5 maggio 2009, n. 42, e allo scopo di assicurare la tutela dei diritti e delle prestazioni sociali fondamentali su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere espresso in sede di tavolo di confronto di cui all’articolo 27, comma 7, della citata legge n. 42 del 2009, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono fissati i criteri per la rideterminazione, a decorrere dall’anno 2009, dell’ammontare dei proventi spettanti a regioni e province autonome, compatibilmente con gli statuti di autonomia delle regioni ad autonomia speciale e delle citate province autonome, ivi compresi quelli afferenti alla compartecipazione ai tributi erariali statali, in misura tale da garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Tali risorse sono assegnate ad un fondo da istituire nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale. In sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sono stabiliti, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al secondo periodo del presente comma, criteri e modalità per la distribuzione delle risor se di cui al presente comma tra le singole regioni e province autonome , che il Ministro dell’economia e delle finanze provvede ad attuare con proprio decreto».

1.1.1. – La Regione Valle d’Aosta assume che l’art. 9-bis, comma 5, violi innanzitutto gli artt. 48-bis e 50, quinto comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta).

Al riguardo, la ricorrente osserva come il suo ordinamento finanziario sia disciplinato dalla legge 26 novembre 1981, n. 690 (Revisione dell’ordinamento finanziario della regione Valle d’Aosta), che fissa le quote di tributi erariali da attribuire alla medesima Regione. Pur trattandosi di una legge dello Stato, tale normativa è modificabile non nelle forme ordinarie, ma secondo il particolare procedimento previsto dall’art. 48-bis dello statuto speciale. In tal senso si esprime l’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 aprile 1994, n. 320 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Valle d’Aosta).

La peculiarità del procedimento di modificazione della legge n. 690 del 1981 si giustifica, secondo la ricorrente, anche alla luce della previsione dell’art. 50, quinto comma, dello statuto speciale, in base al quale la disciplina dell’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta è introdotta con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale.

Sulla base di queste considerazioni, la difesa regionale ritiene che la norma impugnata, modificando con procedura ordinaria la legge n. 690 del 1981, violi sia l’art. 50, quinto comma, sia l’art. 48-bis dello statuto speciale.

Il primo parametro sarebbe violato a causa del mancato coinvolgimento della Giunta regionale nel procedimento di approvazione della norma oggetto dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale.

L’art. 48-bis, invece, sarebbe violato in quanto il regime giuridico della legge n. 690 del 1981 è assimilato, dal citato art. 1 del d.lgs. n. 320 del 1994, a quello dei decreti legislativi di attuazione statutaria.

La ricorrente individua poi un secondo profilo di lesione delle attribuzioni regionali previste nell’art. 48-bis, avuto riguardo al fatto che il censurato art. 9-bis, comma 5, si porrebbe in aperto contrasto con quanto stabilito dal richiamato art. 1 del d.lgs. n. 320 del 1994; la violazione di quest’ultima norma, contenuta in un decreto legislativo di attuazione dello Statuto speciale, non modificabile né derogabile dal legislatore ordinario, comporterebbe, anche sotto tale profilo, la violazione dell’art. 48-bis.

1.1.2. – L’art. 9-bis, comma 5, violerebbe, inoltre, i principi di ragionevolezza, di cui all’art. 3 della Costituzione, e di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

Quanto all’asserito contrasto con quest’ultimo principio, la ricorrente muove dalla considerazione che l’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta è disciplinato «con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale» (art. 50, quinto comma, dello statuto speciale), per concludere che una modifica di tale disciplina avrebbe richiesto l’acquisizione di una vera e propria intesa con la Regione medesima, oltre che per l’espressa previsione degli artt. 48-bis e 50 dello statuto, anche in virtù del principio di leale collaborazione.

La difesa regionale deduce, inoltre, il contrasto della norma impugnata con il principio di ragionevolezza: la modifica unilateralmente introdotta dallo Stato non terrebbe conto delle misure e degli atti già adottati dalla Regione, sulla base di quanto previsto dalla legge n. 690 del 1981, in merito alle quote di partecipazione ai tributi erariali riservate alla Valle d’Aosta, con la conseguente lesione del legittimo affidamento della Regione e, quindi, del principio di ragionevolezza.

1.2. – La ricorrente impugna anche l’art. 22, commi 2 e 3, del d.l. n. 78 del 2009 per violazione dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione.

La predetta norma, nel prevedere l’istituzione di un fondo con dotazione di 800 milioni di euro – «destinato ad interventi relativi al settore sanitario» ed alimentato con le economie di spese derivanti, tra l’altro, dall’applicazione del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 giugno 2009, n. 77 – dispone che «in sede di stipula del Patto per la salute è determinata la quota che le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano riversano all’entrata del bilancio dello Stato per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale».

Secondo la ricorrente, il legislatore statale non avrebbe considerato che la Regione Valle d’Aosta provvede al «finanziamento del Servizio sanitario nazionale nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato» (art. 34, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 – Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e che, pertanto, le eventuali economie di spesa dovrebbero essere destinate ad interventi relativi al settore sanitario regionale.

La difesa regionale aggiunge che i principi di leale collaborazione e di ragionevolezza impongono allo Stato di non introdurre unilateralmente variazioni, anche di carattere normativo, in grado di determinare un vulnus al legittimo affidamento, sulla base del quale siano stati assunti, dagli altri enti, atti e comportamenti specifici che, in seguito a dette variazioni, si rivelino irrimediabilmente pregiudizievoli a causa della sopravvenuta mancanza della copertura finanziaria.

Nel caso di specie, lo Stato avrebbe imposto alla Regione di partecipare al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, senza tenere conto né del finanziamento esclusivamente regionale del SSN, né della mancata partecipazione della Valle d’Aosta al cosiddetto Patto per la salute.

La difesa regionale sottolinea come la normativa impugnata risulti del tutto irragionevole, atteso che, a partire dal 1994, è venuta meno qualsiasi forma di partecipazione reciproca, tra Stato e Regione Valle d’Aosta, al finanziamento dei rispettivi servizi sanitari. Per questa ragione, le norme censurate avrebbero pregiudicato, «irragionevolmente, oltre che inaspettatamente», il legittimo affidamento dell’odierna ricorrente sulla destinazione delle proprie risorse in ambito sanitario.

La lesione dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione sarebbe dunque rinvenibile nell’imposizione, del tutto irragionevole, di un finanziamento da parte della Valle d’Aosta al Servizio sanitario nazionale (ma non viceversa) e nell’individuazione della «sede per la quantificazione di tale finanziamento nella stipula di un Patto cui la Regione non partecipa».

2. – Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’infondatezza delle censure.

Quanto alla prospettata illegittimità dell’art. 9-bis, comma 5, la difesa erariale ritiene del tutto infondate le doglianze della ricorrente, in quanto la «rideterminazione» dell’ammontare dei proventi non costituirebbe una modifica normativa a regime, «ma un ricalcolo delle entrate che complessivamente affluiscono nei bilanci delle singole Regioni al netto della partecipazione al fondo per le attività di carattere sociale, tra cui la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni e la solidarietà e perequazione tra territori».

La norma impugnata, pertanto, sarebbe riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed e), Cost.

Il resistente sottolinea, inoltre, come il meccanismo previsto dall’art. 9-bis, comma 5, punti a realizzare l’obiettivo del contenimento della finanza pubblica, anche al fine di rispettare i vincoli posti dal Patto di stabilità e di crescita. Le norme in oggetto conterrebbero dunque principi di coordinamento della finanza pubblica, i quali, secondo la giurisprudenza costituzionale richiamata dalla difesa erariale, possono comprendere anche statuizioni puntuali adottate dal legislatore statale per realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario.

In merito alle censure formulate nei confronti dell’art. 22, commi 2 e 3, la difesa erariale ritiene che le norme impugnate introducano una manovra di contenimento della spesa farmaceutica che comporta un risparmio anche per la Regione Valle d’Aosta; pertanto, la ricorrente non sarebbe gravata da alcun onere supplementare.

Infine, quanto all’asserita violazione del principio di leale collaborazione e del necessario rispetto delle prerogative regionali, questi sarebbero garantiti dalla previsione dell’approvazione del Piano per la salute.

3. – In prossimità dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale si riporta integralmente a quanto già dedotto nell’atto di costituzione nel presente giudizio e nella memoria depositata nel giudizio promosso dalla Provincia autonoma di Trento, avente ad oggetto le medesime norme (reg. ric. n. 80 del 2009).

4. – La Provincia autonoma di Trento ha promosso, con ricorso notificato il 3 ottobre 2009 e depositato il successivo 7 ottobre (reg. ric. n. 80 del 2009), questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 78 del 2009, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 102 del 2009, e, tra queste, degli artt. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, e 22, commi 2 e 3, per violazione degli artt. 69-86 (Titolo VI), 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e dei principi di ragionevolezza, di leale collaborazione e di legalità sostanziale.

4.1. – La difesa provinciale rileva, preliminarmente, come l’art. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, del d.l. n. 78 del 2009, attribuisca al Presidente del Consiglio dei ministri un potere di natura regolamentare, affinché siano fissati «i criteri per la rideterminazione, a decorrere dall’anno 2009, dell’ammontare dei proventi spettanti a regioni e province autonome, compatibilmente con gli statuti di autonomia delle regioni ad autonomia speciale e delle citate province autonome, ivi compresi quelli afferenti alla compartecipazione ai tributi erariali statali». Lo scopo di siffatta previsione è quello di «garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui», destinate «ad un fondo da istituire nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale». Si prevede poi che il Ministro dell’economia e delle finanze provveda ad attuare con proprio decreto i criteri e le modalità per la distribuzione delle risorse, stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.

Per giustificare la previsione di un potere regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri, l’art. 9-bis, comma 5, invoca lo «scopo di assicurare la tutela dei diritti e delle prestazioni sociali fondamentali su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione».

Secondo la ricorrente, la norma impugnata non definisce alcun livello essenziale delle prestazioni sociali ma si limita a prevedere un fondo «per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale», e dunque incide sulle materie della finanza regionale e dei servizi sociali.

La Provincia autonoma di Trento sottolinea, al riguardo, come la clausola di salvaguardia delle autonomie speciali, prevista dall’art. 9-bis, comma 5, sia di «difficile applicazione», poiché il tenore complessivo della disposizione impugnata presuppone che anche le Province autonome debbano essere coinvolte dalla «rideterminazione, a decorrere dall’anno 2009, dell’ammontare dei proventi spettanti a regioni e province autonome». Un’ulteriore conferma in tal senso sarebbe desumibile dall’ultimo periodo del comma 5, il quale prevede «la distribuzione delle risorse di cui al presente comma tra le singole regioni e province autonome».

4.1.1. – Alla luce delle anzidette considerazioni, la ricorrente assume l’illegittimità costituzionale dell’art. 9-bis, comma 5, secondo periodo, per violazione dell’autonomia finanziaria della Provincia di Trento, risultante dagli artt. 69 e seguenti (specialmente dagli artt. 75 e 78) del d.P.R. n. 670 del 1972, integrati dalla legge 30 novembre 1989, n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della regione Trentino-Alto Adige e delle province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria) e dagli artt. 5, 6, 7, 9, 10 e 11 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale).

Sarebbero violati anche gli artt. 104 e 107 del d.P.R. n. 670 del 1972, i quali prevedono che le modifiche e le integrazioni delle norme statutarie sopra richiamate debbano avvenire con fonte primaria e con il consenso delle Province autonome.

Strettamente collegata alle predette censure è quella prospettata rispetto all’art. 117, sesto comma, Cost., il quale sarebbe violato in quanto la norma impugnata prevede l’esercizio della potestà regolamentare statale in ambiti materiali di competenza delle Province autonome.

Secondo la difesa della ricorrente, il principio consensuale, che domina la materia dei rapporti finanziari tra lo Stato e le Regioni speciali, avrebbe reso necessaria la prescrizione della stipula di un accordo con le Province autonome riguardo alla compatibilità del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previsto nel secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 5, con l’autonomia finanziaria delle Province stesse. Pertanto, la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni e di quello espresso in sede di tavolo di confronto di cui all’art. 27, comma 7, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), non sarebbe sufficiente a soddisfare il principio di leale collaborazione.

Il secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 5, violerebbe, inoltre, il principio di legalità sostanziale, in quanto l’unico criterio contenuto nella disposizione legislativa impugnata è «di tipo quantitativo»; infatti, il d.P.C.m. ivi previsto deve «garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Secondo la ricorrente, la violazione del principio di legalità sostanziale, nella previsione di un atto governativo limitativo dell’autonomia della Provincia autonoma, si tradurrebbe in lesione delle prerogative costituzionali di questa (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2004).

4.1.2. – La Provincia autonoma di Trento impugna il terzo ed il quarto periodo dell’art. 9-bis, comma 5, per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost. e dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, in quanto prevedrebbero un fondo settoriale in una materia di competenza provinciale piena (servizi sociali), istituendolo peraltro nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze e non del Ministero competente per materia.

Un fondo siffatto, secondo la difesa provinciale, non sarebbe giustificabile in virtù del principio di sussidiarietà, dato che nessuna esigenza unitaria risulta dalla disposizione impugnata, la quale, anzi, contiene un espresso riferimento alle «attività di carattere sociale di pertinenza regionale». Né la dedotta illegittimità verrebbe meno per il fatto che i criteri e le modalità per la distribuzione delle risorse in oggetto sono stabiliti in sede di Conferenza Stato-Regioni.

Pertanto, la ricorrente ritiene che i periodi terzo e quarto dell’art. 9-bis, comma 5, violino la sua autonomia finanziaria, quale risulta dalle norme sopra citate, dato che una quota dei proventi generali della Provincia viene destinata dallo Stato al settore dei servizi sociali. Sarebbe violata anche l’autonomia legislativa nella materia dei servizi sociali, in quanto le scelte della Provincia in questa materia sono destinate ad essere condizionate dalla delibera della Conferenza Stato-Regioni.

Da ultimo, la difesa provinciale ritiene paradossale che l’istituzione di un fondo statale settoriale, in materia regionale, venga giustificata con l’intento di anticipare l’«attuazione delle misure connesse alla realizzazione di un sistema di federalismo fiscale».

4.2. – È impugnato, inoltre, l’art. 22, commi 2 e 3, del d.l. n. 78 del 2009. In proposito, la ricorrente premette che, ai sensi dell’art. 34, comma 3, della legge n. 724 del 1994, «La regione Valle d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono al finanziamento del Servizio sanitario nazionale nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato utilizzando prioritariamente le entrate derivanti dai contributi sanitari ad esse attribuiti dall’articolo 11, comma 9, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, e, ad integrazione, le risorse dei propri bilanci».

Dunque, nella Provincia di Trento il servizio sanitario è finanziato, essenzialmente, con le risorse generali che alla medesima Provincia spettano in virtù delle norme che ne configurano l’autonomia finanziaria (artt. 69 e seguenti del d.P.R. n. 670 del 1972; legge n. 386 del 1989 e d.lgs. n. 268 del 1992).

La difesa provinciale sottolinea, altresì, come alle norme appena citate, contenute nel Titolo VI dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige/Südtirol, non possa derogare una legge ordinaria (se non con il consenso delle Province, ai sensi dell’art. 104 del d.P.R. n. 670 del 1972); parimenti, una legge non può derogare alle statuizioni recate dal d.lgs. n. 268 del 1992, trattandosi di norme di attuazione statutaria, le quali hanno competenza separata e riservata e sono dotate di forza prevalente rispetto alle leggi ordinarie.

Pertanto, aggiunge la ricorrente, le risorse che affluiscono al bilancio provinciale in base alle norme dello Statuto speciale ed a quelle di attuazione statutaria non possono essere «distratte» da una legge ordinaria e destinate ad uno scopo in essa definito.

La Provincia di Trento ritiene che proprio questo sia, invece, l’effetto prodotto dall’art. 22, comma 3, in quanto le economie di spesa ivi previste non attengono a risorse erogate dallo Stato alla Provincia autonoma per finanziare il servizio sanitario, ma sono economie che si producono in relazione a risorse proprie dell’ente provinciale, che quest’ultimo, «senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato» (art. 34, comma 3, della legge n. 724 del 1994), ha destinato al servizio sanitario.

La ricorrente esclude che alle predette osservazioni si possa replicare facendo leva sulla natura statale della fonte che ha prodotto tali economie, poiché l’intervento legislativo statale potrebbe, in astratto, determinare un aggravio della spesa provinciale senza che a ciò corrisponda alcuna contribuzione da parte dello Stato.

La Provincia deduce, dalle argomentazioni che precedono, l’illegittimità del comma 3 dell’art. 22, nella parte in cui prevede che «In sede di stipula del Patto per la salute è determinata la quota che le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano riversano all’entrata del bilancio dello Stato per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale». In particolare, sarebbe lesa l’autonomia finanziaria provinciale poiché la norma impugnata prevede che una quota delle risorse affluite alla Provincia in attuazione delle norme statutarie e di attuazione sia attribuita allo Stato.

Né potrebbe sostenersi che la lesione venga meno a causa della previsione secondo cui la quota da versare è determinata in sede di stipula del Patto per la salute; infatti, tale norma presuppone comunque l’obbligo di conferire allo Stato risorse appartenenti al bilancio provinciale e, in ogni caso, non è previsto un intervento codecisorio della Provincia di Trento.

La ricorrente ritiene pertanto che l’art. 22, comma 3, sia incostituzionale nella parte in cui prevede che anche la Provincia di Trento debba riversare una quota delle proprie risorse – ad essa spettanti in virtù di norme non derogabili da leggi statali – al bilancio dello Stato, per effetto delle economie nella spesa farmaceutica.

La difesa provinciale esclude, altresì, che le norme di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 23 possano giustificarsi invocando la necessità di risanare la finanza statale e quindi il potere statale di coordinamento della finanza pubblica. Le statuizioni impugnate, infatti, non realizzerebbero alcun risparmio ma si limiterebbero a «spostare» risorse delle Regioni e delle Province autonome a favore di un fondo gestito a livello ministeriale. Di conseguenza, non sarebbe pertinente il richiamo alla competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, trattandosi piuttosto di norme incidenti sulla tutela della salute e quindi lesive dell’autonomia legislativa ed amministrativa della Provincia ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e del d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità).

I commi 2 e 3 dell’art. 22 violerebbero, inoltre, l’art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), perché sarebbero direttamente applicabili in un ambito materiale di competenza provinciale (tutela della salute), imponendo alla Provincia di destinare al bilancio statale una quota delle proprie risorse destinate al servizio sanitario.

In subordine, qualora la Corte ritenesse che anche la Provincia di Trento sia soggetta al meccanismo istituito dall’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009, la ricorrente impugna il primo periodo del comma 2 dell’art. 22 nella parte in cui prescrive il parere e non l’intesa della Conferenza Stato-Regioni. La mancata previsione di un coinvolgimento «forte» della Conferenza Stato-Regioni, in merito all’istituzione di un fondo attinente a materia di competenza provinciale, comporterebbe la lesione del principio di leale collaborazione.

Infine, parimenti illegittimo sarebbe il comma 3 dell’art. 22 nella parte in cui non prevede un’intesa con la Provincia per la quantificazione concreta dell’obbligazione gravante su di essa. In questo caso sarebbero violati l’autonomia finanziaria provinciale ed il principio di leale collaborazione.

5. – Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’infondatezza delle censure.

La difesa erariale svolge argomentazioni identiche a quelle sviluppate nell’atto di costituzione nel giudizio promosso dalla Regione Valle d’Aosta (reg. ric. n. 68 del 2009).

Inoltre, con riferimento alla questione relativa all’art. 22, commi 2 e 3, l’Avvocatura generale segnala che una norma analoga, introdotta dall’art. 13 del d.l. n. 39 del 2009, non è stata impugnata dall’odierna ricorrente.

6. – In data 16 gennaio 2010, la difesa provinciale ha depositato la delibera del Consiglio della Provincia autonoma di Trento con la quale è stata ratificata, ai sensi dell’art. 54, numero 7), del d.P.R. n. 670 del 1972, la deliberazione della Giunta provinciale riguardante la presente impugnativa.

7. – In prossimità dell’udienza pubblica, la Provincia autonoma di Trento ha depositato una memoria con la quale insiste nelle conclusioni già rassegnate nel ricorso.

7.1. – Preliminarmente, la ricorrente evidenzia come l’ultimo periodo dell’art. 9-bis, comma 5, sia stato modificato dall’art. 2, comma 152, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), che ha aggiunto, dopo le parole: «Ministro dell’economia e delle finanze», le seguenti: «, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali,». Siffatta modifica non sarebbe però rilevante nel presente giudizio.

Nel merito, la difesa provinciale contesta le considerazioni svolte nell’atto di costituzione di parte avversa, là dove si afferma che la rideterminazione dell’ammontare dei proventi non costituisce una modifica normativa a regime ma un ricalcolo delle entrate. Ad avviso della Provincia di Trento, è inevitabile che la norma impugnata operi sul piano normativo, prevedendo una disciplina a regime e non meramente transitoria.

La ricorrente esclude che la norma di cui all’art. 9-bis, comma 5, possa essere ricondotta alla competenza statale prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto non definisce alcun livello essenziale delle prestazioni sociali, ma si limita a prevedere un fondo «per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale». D’altra parte, nel presente giudizio non ricorrerebbero i presupposti per una decisione analoga a quella assunta con la sentenza n. 10 del 2010.

Peraltro, se anche l’istituzione del fondo in questione fosse giustificabile ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., il fondo stesso non potrebbe essere finanziato derogando alle norme statutarie ed a quelle di attuazione che configurano l’autonomia finanziaria provinciale, tanto meno se la deroga è introdotta con un d.P.C.m.

Inconferente sarebbe poi il richiamo, operato dalla difesa erariale, all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., non solo perché non menzionato dall’art. 9-bis, comma 5, ma anche a causa della mancanza di una funzione perequativa della norma impugnata.

Infine, la ricorrente sottolinea come il quadro delle relazioni finanziarie tra lo Stato e la Regione Trentino-Alto Adige sia stato, recentemente, modificato con una espressa modifica statutaria dall’art. 2, commi 107-125, della legge n. 191 del 2009. In tale quadro, osserva la difesa provinciale, è stato definito anche il concorso «al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà e all’esercizio dei diritti e dei doveri dagli stessi derivanti nonché all’assolvimento degli obblighi di carattere finanziario posti dall’ordinamento comunitario, dal patto di stabilità interno e dalle altre misure di coordinamento della finanza pubblica stabilite dalla normativa statale» (nuovo art. 79 del d.P.R. n. 670 del 1972).

7.2. – In riferimento all’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009, la Provincia di Trento ricorda come anche questa disposizione sia stata oggetto di modifiche dopo l’impugnazione. In particolare, l’art. 8-bis del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee) ha aggiunto, dopo il secondo periodo del comma 2, le seguenti parole: «A valere sul fondo di cui al presente comma un importo, in misura non inferiore a 2 milioni di euro annui, è destinato al Centro nazionale trapianti, al fine dell’attuazione delle disposizioni in materia di cellule riproduttive, di cui al decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 191, nonché in materia di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzio ne di tessuti e cellule umani, di cui alle direttive 2006/17/CE della Commissione, dell’8 febbraio 2006, e 2006/86/CE della Commissione, del 24 ottobre 2006, in corso di recepimento». Secondo la ricorrente, anche la predetta modifica non incide sulla materia del contendere.

Nel merito, la difesa provinciale ritiene che l’Avvocatura generale abbia descritto gli effetti concreti delle norme impugnate ma non abbia replicato alle censure avanzate nel ricorso. In particolare, la fondatezza delle questioni prospettate sarebbe avvalorata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 2009, nella quale si afferma: «Dal momento che lo Stato non concorre al finanziamento del servizio sanitario provinciale, né quindi contribuisce a cofinanziare una eventuale abolizione o riduzione del ticket in favore degli utenti dello stesso, esso neppure ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario che definiscano le modalità di contenimento di una spesa sanitaria che è interamente sostenuta dalla Provincia autonoma di Trento».

Infine, quanto alla mancata impugnazione dell’art. 13 del d.l. n. 39 del 2009, rilevata dalla difesa erariale, la Provincia di Trento precisa che la decisione di non promuovere questione di legittimità costituzionale è stata assunta in ragione della particolare destinazione delle somme («copertura degli oneri derivanti dagli interventi urgenti conseguenti agli eccezionali eventi sismici che hanno interessato la regione Abruzzo»: art. 13, comma 3, lettera a). In ogni caso, la mancata impugnazione sarebbe stata irrilevante ai fini della decisione della presente questione anche se l’art. 13 avesse avuto un contenuto identico a quello dell’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009 (è richiamata la sentenza n. 9 del 2010 della Corte costituzionale).

8. – In prossimità dell’udienza pubblica, anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale ribadisce quanto già affermato nell’atto di costituzione.

La difesa erariale sottolinea come le questioni prospettate dalla Provincia autonoma di Trento si risolvano «in un’esternazione quasi profetica di quello che essa teme possa accadere e che invece non può accadere se verrà – come sicuramente verrà – rispettata la disposizione in esame con leale collaborazione nel suo momento attuativo».

Con particolare riferimento all’art. 9-bis, comma 5, il resistente precisa che la norma impugnata assicura il rispetto delle attribuzioni delle Regioni ad autonomia speciale e delle Province autonome e che, pertanto, la citata norma non può che essere intesa ed applicata in modo coerente con il riparto di competenza costituzionale.

L’Avvocatura generale ricorda, infine, come la Corte costituzionale abbia sottolineato in più occasioni che, a seguito di manovre di finanza pubblica, possono determinarsi riduzioni nella disponibilità finanziaria delle Regioni, purché non siano tali da comportare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa regionale e non rendano insufficienti i mezzi finanziari dei quali ogni Regione dispone per l’adempimento dei propri compiti.

In relazione all’art. 22, commi 2 e 3, la difesa erariale ribadisce che il fondo ivi previsto è destinato al finanziamento di interventi nel settore sanitario per la tutela della salute di tutti i cittadini, a prescindere dal luogo nel quale essi risiedono. Pertanto, la norma impugnata troverebbe fondamento nella competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

In conclusione, il resistente evidenzia che, in virtù dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 22, la Provincia ricorrente non potrà che beneficiare della riduzione delle spese per i farmaci, di cui disporrà, nel quadro della leale collaborazione, in sede di stipula del Patto per la salute, quando cioè sarà determinato il contributo dovuto dalla Provincia al Servizio sanitario nazionale.

Considerato in diritto

1. – La Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9-bis, comma 5, e 22, commi 2 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, per violazione degli artt. 48-bis e 50, quinto comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione.

La Provincia autonoma di Trento ha promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 78 del 2009, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 102 del 2009, e, tra queste, degli artt. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, e 22, commi 2 e 3, per violazione degli artt. 69-86 (Titolo VI), 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e dei principi di ragionevolezza, di leale collaborazione e di legalità sostanziale.

Riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione, promossa dalla Provincia autonoma di Trento, delle altre disposizioni contenute nel suddetto d.l. n. 78 del 2009, vengono in esame in questa sede le questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, e 22, commi 2 e 3.

I giudizi, così separati e delimitati, in considerazione della loro connessione oggettiva, devono essere riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.

2. – Le questioni di legittimità aventi ad oggetto l’art. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, del d.l. n. 78 del 2009 sono fondate.

2.1. – Per quanto riguarda la Regione Valle d’Aosta, le norme statutarie, evocate quali parametri nella presente questione, sono gli artt. 48-bis e 50, quinto comma, dello Statuto speciale. La prima norma disciplina il meccanismo di approvazione dei decreti legislativi di attuazione statutaria e stabilisce, al secondo comma, che «Gli schemi dei decreti legislativi sono elaborati da una commissione paritetica composta da sei membri nominati, rispettivamente, tre dal Governo e tre dal consiglio regionale della Valle d’Aosta e sono sottoposti al parere del consiglio stesso». La seconda statuisce che «Entro due anni dall’elezione del Consiglio della Valle, con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale, sarà stabilito, a modifica degli artt. 12 e 13, un ordinamento finanziario della Regione».

La legge 26 novembre 1981, n. 690 (Revisione dell’ordinamento finanziario della regione Valle d’Aosta) ha modificato il quadro dei rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione Valle d’Aosta ed ha dettato una nuova disciplina dell’ordinamento finanziario della Regione stessa. In particolare, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della suddetta legge hanno regolato le quote di partecipazione regionale alle imposte erariali. Quanto alla posizione nel sistema delle fonti di questa legge, il decreto legislativo 22 aprile 1994, n. 320 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Valle d’Aosta) stabilisce, all’art. 1, che «Le norme di attuazione dello statuto speciale della regione Valle d’Aosta […] nonché l’ordinamento finanziario della regione stabilito, ai sensi dell’art. 50, comma 3, dello statuto speciale, con la legge 26 novembre 1981, n. 690 e con l’art. 8, comma 4, della legge 23 dicembre 1 992, n. 498, possono essere modificati solo con il procedimento di cui all’art. 48-bis del medesimo statuto speciale».

Dalla citata norma di attuazione si deduce che le modifiche dell’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta devono avvenire con il procedimento previsto dall’art. 48-bis dello Statuto, prescritto per l’approvazione dei decreti legislativi di attuazione statutaria, e quindi a seguito dei lavori della commissione paritetica e del parere del Consiglio della Valle. La norma censurata, invece, attribuisce ad un d.P.C.m. il compito di fissare i criteri per la rideterminazione dell’ammontare dei proventi spettanti a Regioni e Province autonome, compresi quelli afferenti alla compartecipazione ai tributi erariali. La stessa disposizione assegna tali risorse ad un fondo per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale e prevede altresì che, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni, sono stabiliti criteri e modalità per la distribuzione delle stesse risorse tra le singole Regio ni e Province autonome.

Dal raffronto tra i parametri prima richiamati e la norma censurata si trae la conclusione che quest’ultima è costituzionalmente illegittima – nella parte in cui si applica alla ricorrente – in quanto modifica l’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta senza osservare il procedimento di approvazione delle norme di attuazione dello Statuto, imposto, nella materia de qua, dallo Statuto stesso.

L’illegittimità costituzionale dell’art. 9-bis, comma 5, del d.l. n. 78 del 2009 non è esclusa dalla clausola di salvaguardia prevista nella stessa norma censurata – «compatibilmente con gli statuti di autonomia delle regioni ad autonomia speciale e delle citate province autonome» – giacché tale formula entra in contraddizione con quanto affermato nel seguito della disposizione, con esplicito riferimento alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, in merito alla variazione delle quote di compartecipazione regionale ai tributi erariali.

Insufficiente è pure la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni e del «tavolo di confronto» previsto dall’art. 27, comma 7, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione). I pareri prescritti in entrambe le disposizioni citate non possono validamente sostituire l’accordo con la Regione Valle d’Aosta, posto a tutela del suo speciale ordinamento finanziario, che non può essere accomunato e omologato a quello delle altre Regioni.

2.2. – Per quanto riguarda la Provincia autonoma di Trento, bisogna osservare che l’autonomia finanziaria della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è disciplinata dal Titolo VI dello statuto speciale. Negli articoli che vanno da 69 a 86 di tale statuto sono regolati i rapporti finanziari tra lo Stato, la Regione e le Province autonome, comprese le quote di compartecipazione ai tributi erariali. Inoltre, il primo comma dell’art. 104 dello stesso statuto stabilisce che «Fermo quanto disposto dall’articolo 103 le norme del titolo VI e quelle dell’art. 13 possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato su concorde richiesta del Governo e, per quanto di rispettiva competenza, della regione o delle due province». Il richiamato art. 103 prevede, a sua volta, che le modifiche statutarie debbano avvenire con il procedimento previsto per le leggi costituzionali.

Dalle disposizioni citate si deduce che l’art. 104 dello statuto speciale, consentendo una modifica delle norme relative all’autonomia finanziaria su concorde richiesta del Governo, della Regione o delle Province, introduce una deroga alla regola prevista dall’art. 103, che impone il procedimento di revisione costituzionale per le modifiche statutarie, abilitando la legge ordinaria a conseguire tale scopo, purché sia rispettato il principio consensuale. In merito alla norma censurata nel presente giudizio, è indubbio che essa incida sui rapporti finanziari intercorrenti tra lo Stato, la Regione e le Province autonome, per i motivi già illustrati nel paragrafo precedente a proposito della Regione Valle d’Aosta, e che pertanto avrebbe dovuto essere approvata con il procedimento previsto dal citato art. 104 dello statuto speciale, ove è richiesto il necessario accordo preventivo di Stato e Regione. Di conseguenza, deve ritenersi che i periodi secondo, terzo e quarto del comma 5 dell’art. 9-bis sono costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui si applicano anche alla Provincia autonoma di Trento.

La conclusione appena enunciata deve estendersi anche alla Provincia autonoma di Bolzano, in base alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma statale, a seguito del ricorso di una Provincia autonoma, qualora sia basata sulla violazione del sistema statutario della Regione Trentino-Alto Adige, deve estendere la sua efficacia anche all’altra (ex plurimis, sentenze n. 341 e n. 334 del 2009).

3. – Le questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’art. 22, commi 2 e 3, del d.l. n. 78 del 2009 sono fondate.

Preliminarmente, occorre rilevare che la disposizione in esame è stata modificata successivamente alla proposizione dei ricorsi. In particolare, l’art. 8-bis del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 20 novembre 2009, n. 166, ha introdotto un nuovo inciso dopo il secondo periodo del comma 2 della disposizione censurata. Poiché la modifica non influisce sulla sostanza normativa del suddetto comma, le questioni promosse nel presente giudizio devono intendersi trasferite sul nuovo testo.

La Regione Valle d’Aosta e la Provincia autonoma di Trento incentrano le loro censure essenzialmente sull’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 22 del d.l. citato. Questa norma prevede che le economie di spesa farmaceutica siano riversate dalle Regioni speciali e dalle Province autonome all’entrata del bilancio dello Stato, per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale.

Per valutare compiutamente le questioni, è utile ricordare le modalità di finanziamento del Servizio sanitario nazionale, con riferimento alle odierne ricorrenti. In particolare, rilevano nel presente giudizio gli artt. 34 e 36 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). L’art. 34, comma 3, secondo periodo, stabilisce che «La regione Valle d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono al finanziamento del Servizio sanitario nazionale nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato utilizzando prioritariamente le entrate derivanti dai contributi sanitari ad esse attribuiti dall’art. 11, comma 9, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, e, ad integrazione, le risorse dei propri bilanci». L’art. 36 dispone che «Rimangono salve le competenze attribuite alla regione Valle d’Aosta dalla legge 26 novembre 1981, n. 690».

Gli artt. 34 e 36 della legge n. 724 del 1994 non contengono norme di attuazione statutaria e non hanno pertanto rango superiore a quello della legge ordinaria. Tuttavia, la disciplina dell’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta e della Provincia autonoma di Trento può essere modificata solo con l’accordo dell’una e dell’altra, in virtù delle norme statutarie richiamate nei paragrafi precedenti.

L’art. 22, commi 2 e 3, incide invece in modo unilaterale sull’autonomia finanziaria di entrambe le ricorrenti, imponendo loro di riversare nel bilancio dello Stato le somme ricavate dalle economie sulla spesa farmaceutica. La specialità dell’autonomia finanziaria delle stesse ricorrenti sarebbe vanificata se fosse possibile variare l’assetto dei rapporti finanziari con lo Stato con una semplice legge ordinaria, in assenza di un accordo bilaterale che la preceda. Né vale richiamare la potestà legislativa statale sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti sociali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., giacché la finalità del fondo alimentato dalle risorse di cui sopra è indicata in modo generico («interventi relativi al settore sanitario») e non si procede pertanto alla fissazione di alcun livello di singole prestazioni.

Questa Corte, con riferimento ad un caso analogo, ha precisato di recente che lo Stato, quando non concorre al finanziamento della spesa sanitaria, «neppure ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario» (sentenza n. 341 del 2009). Come s’è visto prima, sia la Regione Valle d’Aosta, sia la Provincia autonoma di Trento non gravano, per il finanziamento della spesa sanitaria nell’ambito dei rispettivi territori, sul bilancio dello Stato, e quindi quest’ultimo non ha titolo per pretendere il versamento sul proprio bilancio delle somme risparmiate dalla spesa farmaceutica, che di quella sanitaria fa parte.

In definitiva, si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009, nella parte in cui si applica alla Regione Valle d’Aosta, per violazione del principio di leale collaborazione, ed alla Provincia autonoma di Trento, per violazione dell’autonomia finanziaria provinciale e del principio di leale collaborazione.

La conclusione sopra enunciata deve estendersi anche alla Provincia di Bolzano, in base alla giurisprudenza di questa Corte richiamata al paragrafo 2.2.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi e riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Provincia autonoma di Trento con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui si applica alla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 3, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 102 del 2009, nella parte in cui si applica alla Regione Valle d’Aosta ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 134

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Liguria del 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’11-14 maggio 2009, depositato in cancelleria il 19 maggio 2009 ed iscritto al n. 32 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Liguria;

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

uditi l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Ludovica Franzin per la Regione Liguria.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato l’11 maggio 2009 e depositato il successivo 19 maggio, ha impugnato l’art. 1 della legge della Regione Liguria 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione.

Il ricorrente ritiene che la norma censurata, nella parte in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati», invade la competenza dello Stato nella materia immigrazione.

Il legislatore regionale avrebbe in tal modo interferito con le attività di controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio statale, in violazione di quanto previsto dall’art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il quale demanda ad un decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, l’individuazione e la costituzione sul territorio nazionale dei centri di identificazione e di espulsione degli stranieri.

2. – Si è costituita in giudizio la Regione Liguria chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

La resistente osserva che con la legge impugnata il legislatore regionale non ha esercitato alcuna attività di controllo e disciplina dell’accesso degli stranieri nel territorio nazionale, ma si è limitato a perseguire la finalità di integrazione dei cittadini non comunitari, prevedendo a tal uopo interventi tesi a garantirne l’accoglienza, le pari opportunità di accesso ai servizi, la formazione e tutela dei minori, la valorizzazione delle identità culturali, religiose e linguistiche, in conformità con quanto previsto dall’art. 2 del proprio statuto adottato con la legge regionale 3 maggio 2005, n. 1 (Statuto della Regione Liguria).

Dette finalità sarebbero, a parere della resistente, compromesse dalla presenza sul territorio regionale degli indicati centri di identificazione.

2.1. – In prossimità dell’udienza la Regione Liguria ha depositato una memoria con la quale ha sostanzialmente ribadito le argomentazioni contenute nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1. – Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Liguria 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione.

La norma impugnata, nel modificare l’art. 1, comma 4, della citata legge regionale n. 7 del 2007, ha aggiunto agli obiettivi da realizzare a favore dei cittadini stranieri immigrati quello di «eliminare ogni forma di razzismo o discriminazione, anche attraverso la manifesta indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati, al fine di garantire una sinergica e coerente politica di interscambio culturale, economico e sociale con i popoli della terra, nel rispetto della tradizione del popolo ligure e della sua cultura di integrazione multietnica».

Il ricorrente assume che tale disposizione si pone in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione, nella parte in cui in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati», in quanto disciplina aspetti che attengono alla materia immigrazione, impedendo in tal modo le attività di competenza statale di controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale.

2. – La questione è fondata.

I centri di identificazione ed espulsione (CIE) sono previsti dall’art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e sostituiscono, per effetto dell’art. 9 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (convertito in legge, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125), gli originari centri di permanenza temporanea ed assistenza.

Tali strutture sono destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e si propongono di evitare la loro dispersione sul territorio e, quindi, di consentire l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione.

L’art. 14, comma 1, stabilisce, in particolare, che i centri di identificazione e di espulsione sono individuati o costituiti «con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica».

Il successivo comma 2, con specifico riferimento alle condizioni che devono essere assicurate presso tali strutture, statuisce che «Lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità. Oltre a quanto previsto dall’articolo 2, comma 6, è assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno».

Da quanto sopra si evince che la costituzione e l’individuazione dei CIE attengono ad aspetti direttamente riferibili alla competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione, in quanto le suddette strutture sono funzionali alla disciplina che regola il flusso migratorio dei cittadini extracomunitari nel territorio nazionale.

La norma impugnata, nel negare la possibilità di istituire nel territorio ligure i centri di identificazione ed espulsione, ha, dunque, travalicato le competenze legislative regionali.

Se, infatti, deve essere riconosciuta la possibilità di interventi legislativi delle Regioni con riguardo al fenomeno dell’immigrazione, per come previsto dall’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998 – secondo cui «Nelle materie di competenza legislativa delle Regioni, le disposizioni del presente testo unico costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione» – tuttavia, tale potestà legislativa non può riguardare aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, ma altri ambiti, come il diritto allo studio o all’assistenza sociale, attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle Regioni (sentenze n. 50 del 2008 e n. 156 del 2006). In conformità con tali indirizzi questa Corte, proprio con riferimento ai centri di permanenza temporanea, ora centri di identificazione e di espulsione, ha dichia rato legittima una norma regionale che attribuiva alla Regione compiti di osservazione e monitoraggio del funzionamento dei suddetti centri, in quanto non contenente una disciplina in contrasto con quella statale che li ha istituiti, limitandosi «a prevedere la possibilità di attività rientranti nelle competenze regionali, quali l’assistenza in genere e quella sanitaria in particolare, peraltro secondo modalità (in necessario previo accordo con le prefetture) tali da impedire comunque indebite intrusioni» (sentenza n. 300 del 2005).

Conseguentemente, l’art. 1 della legge della Regione Liguria n. 4 del 2009 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Liguria 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», nella parte in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 135

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), promosso dal Commissario regionale per gli usi civici della Regione autonoma della Sardegna, nel procedimento vertente tra il Comune di Teulada e il Ministero della difesa ed altra, con ordinanza del 10 marzo 2009, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione della Regione autonoma della Sardegna nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Alessandra Camba e Sandra Trincas per la Regione autonoma della Sardegna e l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ordinanza del 10 marzo 2009, il Commissario regionale per gli usi civici della Sardegna ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione nonché agli articoli 3 e 6 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), questione di legittimità costituzionale degli artt. 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), nella parte in cui, disciplinando il procedimento amministrativo per l’espropriazione di terreni per opere militari, «del tutto irrazionalmente e in dispregio del principio di buon andamento della pubblica amministrazione», non prevedono che l’organo statale, titolare del potere di espropriazione, debba, prima di adottare gli atti finali, acquisire il parere non vincolante della Regione, nell’ipotesi in cui i terreni medesimi siano ubicati nel territorio della Regione autonoma della Sard egna e siano altresì assoggettati al regime giuridico dei beni demaniali, di cui agli articoli 11 e 12 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751);

che, in base all’ordinanza, il giudizio principale risulta instaurato con ricorso del Comune di Teulada contro il Ministero della difesa e la Regione autonoma della Sardegna per l’accertamento e la dichiarazione della «attuale appartenenza al demanio civico» di alcuni terreni «ricompresi nella sua circoscrizione», già assegnati – con decreto del Commissario per gli usi civici del 4 dicembre 1939, n. 255, ai sensi degli artt. 9 e 12 del r.d.l. n. 751 del 1924 – alla categoria A (bosco e pascolo permanente) e successivamente assoggettati, negli anni 1957 e 1958, ad espropriazione per opere militari, ma la cui originaria natura non sarebbe «in realtà mai venuta meno» a causa dell’illegittimità di questa espropriazione, «attuata senza la, a suo parere necessaria, previa autorizzazione della Regione autonoma della Sardegna»;

che il giudice rimettente adduce, in punto di rilevanza, tra le ulteriori circostanze del suo giudizio, che: a) l’originaria natura demaniale dei terreni non appare, nella specie, discutibile, non risultando che il richiamato decreto di assegnazione a categoria sia mai stato impugnato nelle sedi competenti; b) all’espropriazione non risultano sopraggiunte altre cause di “sdemanializzazione”, compresa quella che sarebbe tacitamente derivata dalla concreta realizzazione delle opere militari, di cui non è stata, peraltro, fornita prova; c) «la modifica della natura della originaria qualitas soli delle terre demaniali» in questione deriverebbe esclusivamente dagli atti di esproprio, i quali, «qualora la sollevata questione di legittimità costituzionale fosse accolta, dovrebbero essere considerati affetti dal vizio di violazione di legge […] e quindi potrebbero essere disapplicati da questo Commissario con consequenziale acc oglimento delle domande avanzate dal Comune e dalla Regione, che, altrimenti, rebus sic stantibus, dovrebbero essere senz’altro rigettate»;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente muove dal rilievo che «la sdemanializzazione delle terre civiche» – «effetto necessario ed ineluttabile» dell’espropriazione – comporta che, «nel relativo procedimento amministrativo, l’Autorità espropriante sia chiamata a ponderare l’interesse pubblico, sotteso alla realizzazione delle opere militari, con quello opposto, di pari rango pubblicistico, alla conservazione del regime giuridico delle terre stesse»;

che, poiché «titolare e gestrice» di quest’ultimo interesse è la Regione autonoma della Sardegna (in quanto «dotata di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici – artt. 3 e 6 della l. cost. 28 febbraio 1948, n. 3 –, nonché del potere di autorizzare il mutamento della destinazione delle terre civiche medesime nell’ambito delle procedure di sdemanializzazione per atto volontario della pubblica amministrazione – art. 12 della l. n. 1766 del 1927 –»), non appare ammissibile, «nell’attuale assetto costituzionale», anche in base al «principio di buona amministrazione», che essa venga totalmente estromessa dal procedimento di espropriazione;

che, d’altra parte, questa partecipazione al procedimento, non potendo «attuarsi in forme che subordinino al consenso dell’ente territoriale la realizzazione delle opere per la difesa militare» (in ossequio al principio, di cui all’art. 3, primo comma, dello statuto speciale, secondo cui «la potestà legislativa e amministrativa della Regione deve attuarsi in armonia con la Costituzione e nel rispetto degli interessi nazionali»), non potrebbe «che trovare attuazione con la previsione dell’obbligo, in capo all’Amministrazione statale, di acquisire dalla Regione medesima un parere non vincolante, a mezzo del quale vengano rappresentate le esigenze di tutela e cura dei beni ad essa affidati, così da poter infine prendere, con adeguata consapevolezza degli interessi in gioco, le sue decisioni definitive»;

che si è costituita in giudizio la Regione autonoma della Sardegna, per chiedere una declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate;

che, premesso che la Regione è titolare, in base al proprio statuto speciale, di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici nonché, ex art. 12 della legge n. 1766 del 1927, del potere autorizzatorio in materia di mutamento di destinazione delle terre civiche, la difesa regionale sostiene che «l’eventuale espropriazione per pubblica utilità dei beni di uso civico deve essere preceduta da una valutazione comparativa» degli interessi coinvolti, i quali, nel caso di specie, riguardano, da un lato, la difesa nazionale e, dall’altro, la conservazione delle terre di uso civico nonché la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio;

che detto «contemperamento degli interessi sottesi all’utilizzo dei beni di uso civico deve avvenire nell’ambito del procedimento di autorizzazione previsto dalla l. n. 1766/1927», vale a dire con il coinvolgimento delle popolazioni interessate nonché della Regione «quale ente esponenziale della collettività generale»;

che le norme denunciate sarebbero in contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione – e violerebbero, a fronte delle evocate norme dello statuto, «sia il principio di buon andamento della pubblica amministrazione che quello della leale collaborazione» – proprio perché, «nel disciplinare il procedimento amministrativo per l’espropriazione di terreni per opere militari, non prevedono che l’organo statale investito della domanda di espropriazione debba acquisire, prima dell’adozione dell’atto definitivo, il parere obbligatorio, ancorché non vincolante, della Regione» («nel caso in cui i terreni oggetto di espropriazione per opere militari siano ubicati nel territorio della stessa Regione e siano assoggettati al regime giuridico dei beni demaniali, di cui agli artt. 11 e 12 della l. 16 giugno 1927, n. 1766»);

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata;

che la questione sarebbe inammissibile «perché irrilevante», atteso che il Comune e la Regione «vorrebbero mettere in discussione atti amministrativi di espropriazione adottati negli anni Cinquanta, attraverso una sorta di azione di accertamento di illegittimità (si badi, non di inesistenza)» (prodromica, peraltro, ad una «pronuncia di disapplicazione») che risulta «del tutto sconosciuta nel sistema della tutela giurisdizionale»;

che l’espropriazione in danno del Comune di Teulada avrebbe determinato «la definitiva acquisizione dei terreni in capo allo Stato» e che i titolari di diritti sui medesimi «(tra cui, in ipotesi, la Regione Sardegna) avrebbero potuto e dovuto far valere la loro pretesa sull’indennità, non essendo loro consentito opporsi all’esproprio»;

che, d’altra parte, la questione sarebbe, nel merito, infondata, dal momento che le norme denunciate attribuirebbero all’Amministrazione della difesa – come riconosciuto anche dal Consiglio di Stato – «discrezionalità piena in materia di opere militari, lasciando all’autorità militare la più ampia libertà di valutazione», in relazione «alla natura ineludibile ed essenziale dell’interesse alla difesa militare dello Stato e del suo territorio», da perseguire «anche con il sacrificio o compressione di altri coesistenti interessi, pur rilevanti, della collettività e del singolo» (così ex art. 117, secondo comma, lettera d, della Costituzione);

che, sulla base del disposto degli attuali articoli 5, 114, primo comma, 117, secondo comma, lettera d), e sesto comma, della Costituzione, «la difesa dello Stato è interesse nazionale perché riguarda l’intero Stato quale soggetto considerato unitariamente, nell’ambito di questa materia e nella sua preminente pienezza rispetto agli Enti che lo compongono» e che, pertanto, «l’istanza unitaria relativa alla difesa dello Stato può ben giustificare, nell’ottica del canone costituzionale della ragionevolezza, la soccombenza dell’interesse regionale», essendo la Regione comunque tenuta a conformarsi «ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale»;

che, peraltro, nel procedimento di espropriazione svoltosi nella specie sarebbero state eseguite attività «che hanno implicato verifiche e apprezzamenti tali da consentire di tener conto di tutti gli interessi pubblici connessi» senza che il Comune di Teulada abbia «opposto alcuna obiezione», avendo anzi accettato l’indennità di esproprio;

che, in prossimità dell’udienza, la Regione autonoma della Sardegna ha presentato una memoria con la quale, nel fare pieno e integrale riferimento al proprio atto di costituzione in giudizio, ha conclusivamente insistito nella richiesta di una pronuncia caducatoria;

che, in replica all’eccezione dell’Avvocatura concernente una «presunta “azione di accertamento di illegittimità”» di cui al giudizio principale, la difesa regionale ha osservato che in quanto titolare, come il giudice civile, del «potere di conoscere incidenter tantum dell’atto amministrativo» nonché del potere, e dovere, di disapplicarlo ove «lesivo del diritto soggettivo» del quale è stata chiesta tutela, il giudice rimettente ha dovuto «incidentalmente esaminare l’atto amministrativo di esproprio del Ministero della difesa e, rilevato che le norme poste a fondamento della procedura espropriativa contrastano» con i parametri costituzionali evocati, ha sollevato la questione «al fine di poter procedere, all’esito del pronunciamento, all’eventuale disapplicazione» dell’atto medesimo;

che, peraltro, «la mancata ponderazione degli interessi coinvolti nella vicenda si riverbera sulla illegittimità (illiceità) dei provvedimenti ablatori incidentali che, una volta disapplicati per violazione di legge, non saranno più idonei a far venir meno l’uso civico esistente sui terreni oggetto di causa» e «la prospettata occupazione acquisitiva» dei medesimi «contrasta con la considerazione delle ben note connotazioni di indisponibilità, imprescrittibilità ed inusucapibilità», «sacrificabili solo nelle ipotesi ed alle condizioni previste dalla legge».

Considerato che questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale degli articoli 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), sollevata d’ufficio, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione nonché agli articoli 3 e 6 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Commissario regionale per gli usi civici della Sardegna, nella parte in cui, disciplinando il procedimento per l’espropriazione di terreni per opere militari, «del tutto irrazionalmente e in dispregio del principio di buon andamento della pubblica amministrazione», non prevedono che l’organo statale, titolare del potere di espropriazione, debba, prima di adottare gli atti finali, acquisire il parere non vincolante della Regione, nell’ipotesi in cui i terreni medesimi siano ubicati nel territorio della Regione autonoma dell a Sardegna e siano altresì assoggettati al regime dei beni demaniali, di cui agli articoli 11 e 12 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751);

che il giudice rimettente osserva, in punto di rilevanza, che la domanda proposta nel giudizio principale – diretta all’accertamento della «attuale appartenenza al demanio civico» di alcuni terreni assoggettati, negli anni 1957 e 1958, ad espropriazione per opere militari e asseritamente fondata sul presupposto dell’illegittimità di questa espropriazione, in quanto attuata senza l’autorizzazione, considerata necessaria, della Regione autonoma della Sardegna – potrebbe essere accolta solo qualora venisse dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, che consentisse di considerare gli atti ablativi «affetti dal vizio di violazione di legge», risultando, in quanto tali, disapplicabili dal rimettente;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente muove dal rilievo secondo cui «la sdemanializzazione delle terre civiche» («effetto necessario ed ineluttabile» dell’espropriazione) comporta che, «nel relativo procedimento amministrativo, l’Autorità espropriante sia chiamata a ponderare l’interesse pubblico, sotteso alla realizzazione delle opere militari, con quello opposto, di pari rango pubblicistico, alla conservazione del regime giuridico delle terre stesse», di cui è titolare la Regione autonoma della Sardegna (in quanto «dotata di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici – artt. 3 e 6 della l. cost. 28 febbraio 1948, n. 3 –, nonché del potere di autorizzare il mutamento della destinazione delle terre civiche medesime nell’ambito delle procedure di sdemanializzazione per atto volontario della pubblica amministrazione – art. 12 della l. n. 1766 del 1927 –»);

che su questa premessa il rimettente osserva che l’opportuna partecipazione della Regione al procedimento espropriativo possa solo «trovare attuazione con la previsione dell’obbligo, in capo all’Amministrazione statale, di acquisire dalla Regione medesima un parere non vincolante, a mezzo del quale vengano rappresentate le esigenze di tutela e cura dei beni ad essa affidati»;

che la Regione autonoma della Sardegna, costituendosi in giudizio per chiedere una pronuncia caducatoria, ha osservato che «l’eventuale espropriazione per pubblica utilità dei beni di uso civico deve essere preceduta da una valutazione comparativa» degli interessi coinvolti (da un lato, la difesa nazionale e, dall’altro, la conservazione delle terre di uso civico nonché la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio) e che detto «contemperamento degli interessi sottesi all’utilizzo dei beni di uso civico deve avvenire nell’ambito del procedimento di autorizzazione previsto dalla l. n. 1766/1927», vale a dire con il coinvolgimento delle popolazioni interessate nonché della Regione «quale ente esponenziale della collettività generale» (peraltro titolare, in base al proprio statuto speciale, di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici nonché, ex art. 12 della legge n. 1766 del 1927, del potere autorizzatorio in materia di mutamento di destinazione delle terre civiche);

che le norme denunciate violerebbero i principi di cui ai parametri evocati proprio perché, disciplinando il procedimento di espropriazione per opere militari, non prevedono l’obbligo dell’acquisizione del «parere obbligatorio, ancorché non vincolante, della Regione» («nel caso in cui i terreni oggetto di espropriazione per opere militari siano ubicati nel territorio della stessa Regione e siano assoggettati al regime giuridico dei beni demaniali, di cui agli artt. 11 e 12 della l. 16 giugno 1927, n. 1766»);

che, intervenendo nel giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile in quanto «irrilevante» o infondata, dal momento che «l’istanza unitaria relativa alla difesa dello Stato può ben giustificare, nell’ottica del canone costituzionale della ragionevolezza, la soccombenza dell’interesse regionale», essendo la Regione comunque tenuta a conformarsi «ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale»;

che la Regione autonoma della Sardegna, in una memoria depositata in prossimità dell’udienza, in replica alle eccezioni del Presidente del Consiglio dei ministri, ha insistito nella propria richiesta;

che, in definitiva, il giudice rimettente appare investito da una domanda di accertamento della persistente e attuale qualitas di terreni appartenenti al demanio civico, già destinati a «bosco o pascolo permanente» e successivamente assoggettati ad espropriazione per opere militari, proposta sul rilievo della mancata autorizzazione da parte dell’autorità amministrativa competente – ai sensi dell’art. 12, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927 – al mutamento di destinazione (c.d. “sdemanializzazione”), considerata necessaria anche in riferimento all’ipotesi di cessione di quei terreni in seguito ad esproprio;

che, pertanto, la controversia di cui al giudizio principale risulta avere propriamente ad oggetto la determinazione dell’attuale regime giuridico dei terreni in questione, sottoposti ad espropriazione in asserita carenza di un presupposto, e non l’illegittimità del relativo procedimento ablatorio, in quanto eventualmente derivata dall’illegittimità costituzionale delle disposizioni di riferimento;

che, peraltro, il presupposto sulla base del quale il giudice rimettente solleva la questione in esame – che il provvedimento di esproprio abbia, ex se, legittimamente prodotto l’effetto della “sdemanializzazione” – varrebbe da solo ad attestare un suo definitivo e insanabile difetto di giurisdizione;

che, di conseguenza, lo stesso dubita della legittimità costituzionale di disposizioni, come quelle denunciate, delle quali non è chiamato a fare applicazione, essendo invece tenuto, secondo la domanda, a definire il proprio giudizio in relazione alla disciplina prevista in materia di usi civici e sulla base delle regole proprie del sistema di riparto delle giurisdizioni;

che, d’altra parte, una eventuale pronuncia caducatoria risulterebbe, nella situazione di specie, inutiliter data, atteso che l’efficacia delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale, secondo consolidata giurisprudenza anche di questa Corte (sentenza n. 3 del 1996; ordinanze n. 398 del 1989 e n. 365 del 1987), trova un limite nei cosiddetti “rapporti esauriti”, tra i quali dovrebbero intendersi ricompresi anche quelli costituiti sulla base di provvedimenti divenuti inoppugnabili per decorso del termine di decadenza;

che, per queste ragioni, la sollevata questione appare priva di rilevanza e deve, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, essere dichiarata manifestamente inammissibile (ex multis, ordinanze n. 265 e n. 150 del 2008; n. 176 del 2007).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione nonché agli articoli 3 e 6 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Commissario regionale per gli usi civici della Regione autonoma della Sardegna, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 136

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 6, della legge della Provincia autonoma di Trento 3 aprile 2009, n. 4 (Norme di semplificazione e anticongiunturali di accompagnamento alla manovra finanziaria provinciale di assestamento per l’anno 2009), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 5-9 giugno 2009, depositato in cancelleria il 12 giugno 2009 ed iscritto al n. 37 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Provincia autonoma di Trento;

udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Luigi Manzi per la Provincia autonoma di Trento.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 5 giugno 2009 e depositato il successivo 12 giugno, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha ritualmente impugnato – per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione – l’art. 3, commi 1 e 6, della legge della Provincia autonoma di Trento 3 aprile 2009, n. 4 (Norme di semplificazione e anticongiunturali di accompagnamento alla manovra finanziaria provinciale di assestamento per l’anno 2009);

che, in particolare, il comma 1 viene censurato in quanto introduce, nella legge della Provincia autonoma di Trento 8 maggio 2000, n. 4 (recante la «Disciplina dell’attività commerciale in provincia di Trento»), l’art. 17-bis, a tenore del quale [al comma 4] l’esercente che voglia effettuare, tra l’altro, vendite promozionali, ne deve dare comunicazione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trento, e per conoscenza al comune competente per territorio;

che, a sua volta, il comma 6 è impugnato nella parte in cui modifica l’art. 20 della medesima legge provinciale n. 4 del 2000, prevedendo una sanzione amministrativa nel caso di mancata comunicazione;

che l’Avvocatura dello Stato sostiene che la previsione, non già di una mera comunicazione, bensì di un vero e proprio obbligo di comunicazione, e la relativa sanzione in caso di inosservanza, contrasterebbe palesemente con la totale liberalizzazione delle vendite promozionali disposte dall’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale»), il quale vieta ogni forma di restrizione di qualunque tipologia di vendita promozionale;

che, in particolare, secondo il ricorrente, le norme impugnate – non incidendo sulla materia commercio, di competenza provinciale, bensì sulla tutela della concorrenza, di spettanza esclusiva dello Stato e sulla quale la Provincia non ha alcuna competenza, ai sensi degli artt. 8 e 9 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) – si pongono in contrasto con quanto sancito dal citato art. 3 del decreto-legge n. 223 del 2006, il quale (con prescrizioni che costituiscono «il naturale effetto dell’inderogabilità della norma, una volta ricondotta la materia all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.») si inserisce nel quadro del descritto processo di modernizzazione, all’evidente scopo di rimuovere i residui profili (soggettivi ed oggettivi) di contrasto della disciplina di settore con il principio della libera concor renza;

che si è costituita la Provincia autonoma di Trento, che ha concluso per la non fondatezza delle sollevate questioni, in quanto le disposizioni censurate – lungi dall’introdurre una forma di autorizzazione preventiva alla vendita – prevedono un mero obbligo di comunicazione, chiaramente funzionale ad assicurare una adeguata conoscenza del fenomeno e non già a limitarlo, né a comprimerlo, dal momento che a tale adempimento non è subordinata alcuna attività valutativa da parte della Amministrazione;

che, pertanto – trattandosi di mera pubblicità-notizia con effetti dichiarativi e non costitutivi – la previsione di tale obbligo di comunicazione (cui si correla logicamente la irrogazione della sanzione in caso di violazione) si configura quale misura di carattere organizzativo inerente allo svolgimento delle attività commerciali, che resta all’interno degli ámbiti assegnati alla competenza provinciale in materia di «commercio», ai sensi dell’art. 9, punto 3, dello statuto;

che, nell’imminenza dell’udienza, la Provincia di Trento ha depositato una memoria illustrativa, evidenziando che l’art. 52, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento – legge finanziaria provinciale 2010), ha modificato la disposizione censurata mediante la eliminazione dell’obbligo di comunicazione preventiva per le vendite pubblicizzate come promozionali, con conseguente venir meno della correlata sanzione per il suo mancato inoltro;

che, in ragione di ciò – considerato che «a quanto consta, nel breve lasso di tempo intercorso fra l’impugnazione governativa (giugno 2009) e la modifica legislativa (dicembre 2009) la predetta norma sospettata di incostituzionalità non ha trovato applicazione sanzionatoria» –, la Provincia autonoma conclude chiedendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere.

Considerato che il Presidente del Consiglio dei ministri impugna il comma 1 dell’art. 3 della legge della Provincia autonoma di Trento 3 aprile 2009, n. 4 (Norme di semplificazione e anticongiunturali di accompagnamento alla manovra finanziaria provinciale di assestamento per l’anno 2009), che introduce, nella legge della Provincia autonoma di Trento 8 maggio 2000, n. 4 (recante la «Disciplina dell’attività commerciale in provincia di Trento»), l’art. 17-bis, a tenore del quale [al comma 4] l’esercente che voglia effettuare, tra l’altro, vendite promozionali, ne deve dare comunicazione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trento, e per conoscenza al comune competente per territorio; ed impugna, altresì, il comma 6 dello stesso art. 3, che modifica l’art. 20 della citata legge provinciale n. 4 del 2000, prevedendo una sanzione amministrativa nel caso di mancata comunicazione;

che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la previsione di un obbligo di comunicazione, sanzionato in caso di inosservanza, contrasta con la liberalizzazione delle vendite promozionali disposte dall’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 («Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale»), che vieta ogni forma di restrizione a qualunque tipologia di vendita promozionale; e di conseguenza, le norme impugnate non inciderebbero sulla materia «commercio» (di competenza provinciale), ma sulla «tutela della concorrenza» di spettanza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione (sulla quale la Provincia medesima non ha alcuna competenza, ai sensi degli artt. 8 e 9 dello statuto);

che, dalla formulazione del ricorso risulta evidente come le censure mosse alla normativa provinciale de qua si riferiscano propriamente alla incidenza della disciplina impugnata rispetto alle sole vendite promozionali, le quali costituiscono una specie del più ampio genere delle «Vendite presentate al pubblico come occasioni particolarmente favorevoli», oggetto della regolamentazione di cui al Capo VIII-bis, inserito – dall’art. 3, comma 1, della legge provinciale n. 4 del 2009 – dopo l’art. 17 della legge provinciale n. 4 del 2000;

che, peraltro, successivamente alla proposizione del giudizio in via principale, è entrato in vigore l’art. 52, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento – legge finanziaria provinciale 2010), che – al fine espresso di «adeguare la norma provinciale ai rilievi formulati dal Governo statale che impongono una completa liberalizzazione delle vendite promozionali» (come da relazione illustrativa al relativo disegno di legge) – ha a sua volta modificato il comma 4 dell’art. 17-bis della legge provinciale n. 4 del 2000 sul commercio (come introdotto dal censurato comma 1 della legge provinciale n. 4 del 2009), eliminando l’obbligo di comunicazione preventiva per le vendite pubblicizzate come promozionali;

che da ciò – stante il meccanismo di rinvio contenuto nell’art. 20 della citata legge provinciale n. 4 del 2000, come modificato dal censurato comma 6 dell’art. 3 della legge provinciale n. 4 del 2009 – consegue anche il venir meno della correlata sanzione per il mancato inoltro della comunicazione medesima;

che, proprio in ragione di siffatta intervenuta modificazione normativa, satisfattiva delle pretese del ricorrente, la difesa della Provincia autonoma ha richiesto la declaratoria di cessazione della materia del contendere, assumendo inoltre che, medio tempore, la norma sospettata di incostituzionalità non avrebbe «trovato applicazione sanzionatoria»;

che, in sede di discussione in udienza pubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ha convenuto con quanto affermato da controparte circa tale mancata applicazione delle norme impugnate ed ha espressamente concordato in ordine alla cessazione della materia del contendere;

che, dunque – venute meno le ragioni della controversia –, va dichiarata la cessazione della materia del contendere (sentenze n. 2 e n. 1 del 2010; ordinanza n. 75 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 137

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 5, 25, 27, comma 7, 28, comma 1, 31 e 52 della legge della Provincia autonoma di Bolzano del 9 aprile 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2009 e per il triennio 2009-2011 – Legge finanziaria 2009), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 16/19 giugno 2009, depositato in cancelleria il 23 giugno 2009 ed iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2009.

Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 16/19 giugno, depositato il successivo 23 giugno 2009, ha proposto, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, commi primo e secondo, lettere e), l), o), s), della Costituzione, 8, 9, 19 e 89 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) (di seguito, statuto regionale), ed in relazione agli artt. 12 e 13 del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009 (infra, Trattato CE), questione di legittimità costituzionale degli articoli 5 (rectius: art. 5, comma 1), 25 (rectius: art. 25, comma 1), 27, comma 7, 28, comma 1, 31 (rectius: art. 31, commi 2 e 3) e 52 della legge della Provincia autonoma di Bolzano del 9 aprile 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2009 e per il triennio 2009-2011 – Legge finanziaria 2009);

che il citato art. 5, comma 1, ha sostituito l’art. 15 della legge provinciale 21 gennaio 1987, n. 2 (Norme per l’amministrazione del patrimonio della Provincia autonoma di Bolzano), e, ad avviso del ricorrente, ha disciplinato l’acquisizione di immobili attraverso la realizzazione di un’opera pubblica mediante procedure di evidenza pubblica, in violazione della materia «tutela della concorrenza», spettante alla competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e), ponendosi altresì in contrasto con l’art. 4, commi 1 e 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE);

che l’art. 27, comma 7, della legge in esame ha introdotto nella legge provinciale 22 ottobre 1993, n. 17 (Disciplina del procedimento amministrativo e del diritto di accesso ai documenti amministrativi), l’articolo 6-sexies, il quale sarebbe costituzionalmente illegittimo, poiché demanda al regolamento di esecuzione di detta legge la definizione delle modalità di istituzione e di funzionamento delle procedure informatizzate, con particolare riguardo all’abilitazione dei fornitori, riconducibile anch’essa alla materia «tutela della concorrenza», in violazione altresì degli artt. 4, comma 3, ed 85, comma 13, del d.lgs. n. 163 del 2006;

che, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, l’art. 28, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2009 ha inserito nella legge provinciale 17 giugno 1998, n. 6 (Norme per l’appalto e l’esecuzione di lavori pubblici), l’art. 41-bis, avente ad oggetto la disciplina dello «avvalimento», istituto regolamentato dagli artt. 49 e 50 del d.lgs. n. 163 del 2006 e riconducibile alle materie «tutela della concorrenza», ordinamento civile» e «giurisdizione», con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed l), Cost. e degli artt. 8 e 9 dello statuto regionale;

che, ad avviso della difesa erariale, il citato art. 31, commi 2 e 3, ha modificato gli artt. 19, comma 3, lettera b), e 43, comma 1, lettera h), della legge provinciale 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), i quali ora stabiliscono, rispettivamente, una disciplina dell’obbligo di adozione del formulario di identificazione del trasporto di rifiuti e la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile nel caso di mancata, incompleta o inesatta compilazione del formulario dei rifiuti, incidendo in tal modo sulla materia «tutela dell’ambiente», dunque, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e degli artt. 8 e 9 dello statuto regionale;

che l’art. 25, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2009, ha sostituito il comma 2 dell’art. 14 della legge provinciale 23 aprile 1992, n. 10 (Riordinamento della struttura dirigenziale della Provincia autonoma di Bolzano), il quale disciplina la nomina del direttore generale e dei direttori di dipartimento, prevedendo che detti incarichi possano essere conferiti senza alcun limite di età, quindi, secondo il ricorrente, in relazione ad un profilo riconducibile alle materie «ordinamento civile» e «previdenza sociale», ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 97 e 117, secondo comma, lettere l) ed o), Cost., e dell’art. 8 dello statuto regionale;

che, infine, il citato art. 52 ha modificato il comma 5 dell’art. 30-bis della legge provinciale 17 agosto 1976, 36 (Ordinamento delle scuole materne-scuole per l’infanzia), il quale ora dispone che, al fine di poter accedere all’impiego quale insegnante ovvero collaboratore pedagogico e collaboratrice pedagogica, per la scuola dell’infanzia delle località ladine, «si deve attestare l’appartenenza al gruppo linguistico ladino», e, in tal modo, violerebbe gli artt. 3, 97, e 117, primo comma, Cost., in relazione agli articoli 12 e 13 del Trattato CE, nonché gli artt. 8, 9, 19 e 89 dello statuto;

che la Provincia autonoma di Bolzano non si è costituita in giudizio;

che, con atto notificato a controparte in data 21 dicembre 2009, depositato presso la cancelleria di questa Corte il 5 gennaio 2010, il ricorrente ha dichiarato di rinunciare al presente ricorso, in quanto gli artt. 9 e 10 della successiva legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 ottobre 2009, n. 7 (Approvazione del rendiconto generale della Provincia per l’esercizio finanziario 2008 e altre disposizioni), rispettivamente, hanno modificato l’art. 14, comma 2, della legge provinciale n. 10 del 1992, come modificato dall’art. 25 comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2009, ed abrogato le restanti norme impugnate.

Considerato che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, la rinuncia al ricorso determina, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (fra le più recenti, ordinanze n. 92 e n. 70 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

Ultime pronunce pubblicate deposito del 15/04/2010
 
131/2010 pres. AMIRANTE, red. MADDALENA   visualizza pronuncia 131/2010
132/2010 pres. AMIRANTE, red. SAULLE   visualizza pronuncia 132/2010
133/2010 pres. AMIRANTE, red. SILVESTRI   visualizza pronuncia 133/2010
134/2010 pres. AMIRANTE, red. SAULLE   visualizza pronuncia 134/2010
135/2010 pres. AMIRANTE, red. GROSSI   visualizza pronuncia 135/2010
136/2010 pres. AMIRANTE, red. GROSSI   visualizza pronuncia 136/2010
137/2010 pres. DE SIERVO, red. TESAURO   visualizza pronuncia 137/2010
138/2010 pres. AMIRANTE, red. CRISCUOLO   visualizza pronuncia 138/2010

 
 

Deposito del 15/04/2010 (dalla 131 alla 138)

 
S.131/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 09/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Norme impugnate: Artt. 1, c. 2°, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24/12/2008, n. 26; art. 1 della legge della Regione Lazio 24/12/2008, n. 27.

Oggetto: Professioni - Norme della Regione Lazio - Istituzione e disciplina delle nuove figure professionali, non ancora disciplinate da specifica legge statale, del mediatore familiare e del coordinatore per la mediazione familiare - Istituzione di un elenco regionale e indicazione dei titoli per l'iscrizione all'elenco e l'esercizio della professione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - altro
Atti decisi: ric. 18/2009
S.132/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 09/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Artt. 2, c. 1° e 2°, 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19/12/2008, n. 37.

Oggetto: Professioni - Norme della Regione Puglia - Istituzione di nuove professioni turistiche - Definizione dei profili e declaratoria delle funzioni, requisiti minimi per l'accreditamento, modalità e requisiti per l'iscrizione negli elenchi provinciali.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - altro
Atti decisi: ric . 12/2009
< /tr>
S.133/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 10/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Artt. 9 bis, c. 5°, e 22, c. 2° e 3°, del decreto legge 01/07/2009, n. 78, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1°, della legge 03/08/2009, n. 102.

Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Finanza regionale - Regioni a statuto speciale - Patto di stabilità interno per gli enti locali - Istituzione di un fondo presso il Ministero dell'economia per attività di carattere sociale di pertinenza regionale - Prevista adozione di un d.P.C.m., sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni e acquisito il parere espresso in sede di tavolo di confronto di cui all'ar t. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2009, che fissi i criteri per la determinazione dell'ammontare dei proventi spettanti alle Regioni, in misura tale da garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica - Lamentata modifica unilaterale all'ordinamento finanziario della Regione Valle d'Aosta, già definito da legge modificabile solo con il particolare procedimento statutario, nonché squilibrio del bilancio regionale;
Istituzione di un fondo con dotazione pari a 800 milioni di euro, a decorrere dal 2010, per interventi nel settore sanitario, da definirsi con decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell'economia, sentita la Conferenza Stato-Regioni - Previsione che il fondo sia alimentato con le economie di spesa derivanti dall'applicazione del d.l. n. 39 del 2009 e che in sede di r iparto del finanziamento del servizio sanitario nazionale sia determin ata la quota che le Regioni a statuto speciale e le Province autonome riversano in entrata al bilancio dello Stato - Lamentata modifica unilaterale all'ordinamento finanziario della Regione Valle d'Aosta, che non tiene conto che la Regione Valle d'Aosta provvede al finanziamento del Servizio sanitario regionale con risorse a carico del proprio bilancio e non partecipa al c.d. Patto della Salute.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 68, 80/2009
S.134/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 23/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Legge della Regione Liguria 06/03/2009, n. 4.

O ggetto: Straniero - Norme della Regione Liguria - Modifica all'art. 1 della legge regionale n. 7 del 2007 - Centri di identificazione e di espulsione degli stranieri - Indisponibilità della Regione ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 32/2009
O.135/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 12/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Artt. 74 e 75 della legge 25/06/1865, n. 2359.

Oggetto:< /strong> Usi civici - Procedimento amministrativo per l'espropriazione , per opere militari, di terreni gravati da usi civici e ubicati nel territorio della Regione Sardegna - Acquisizione del parere non vincolante della Regione - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 147/2009
O.136/2010 del 12/04/2010
Udienza Pubblica del 10/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Art. 3, c. 1° e 6°, della legge della Provincia autonoma di Trento 03/04/2009, n. 4.

Oggetto: Concorrenza - Commercio - Norme della Provincia di Trento - Vendite promozionali - Obbligo di comunicazione alla camera di commercio e per conoscenza al comune competente - Previsione di sanzione amministrativa per l'inadempienza - Contrasto con la normativa statale che vieta ogni forma di restrizione a qualunque tipologia di vendita promozionale.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 37/2009
O.137/2010 del 12/04/2010
Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Artt. 5, 25, 27, c. 7°, 28, c. 1°, 31, c. 2° e 3° e 52, della legge della Provincia di Bolzano 09/04/2009, n. 1.

Oggetto: Appalti pubblici - Norme della Provincia di Bolzano - Modifica dell'art. 15 della legge provinciale n. 2/1987 - Acquisto a titolo oneroso di edifici, da destinare a sedi di uffici e servizi dell'amministrazio ne, tramite procedimento a evidenza pubblica - Contrasto con la disciplina del codice dei contratti pubblici che riserva allo Stato la disciplina delle procedure di affidamento; Introduzione dell'art. 6-sexies alla legge provinciale n. 17/1993 - Attribuzione al regolamento di esecuzione della disciplina delle modalità di istituzione e di funzionamento delle procedure informatizzate, con particolare riguardo all'abilitazione dei fornitori - Contrasto con la disciplina del codice dei contratti pubblici che riserva allo Stato la disciplina delle procedure di affidamento; Introduzione dell'art. 41-bis alla legge provinciale n. 6/1998 - Previsione dell'istituto c.d. dell'avvalimento - Contrasto con la disciplina del codice dei contratti pubblici che riserva allo Stato la disciplina delle procedure di affidamento, dei rapporti connessi all'esecuzione del contratto e del contenzioso.

Ambiente - Norme della Provincia di Bolzano - Modifiche alla legge provinciale n. 4/2006 - Gestione dei rifiuti e tutela del suolo - Esclusione dell'obbligo di adozione del formulario di identificazione del trasporto di rifiuti nel caso di trasporti di rifiuti speciali non pericolosi che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri effettuati dal produttore di rifiuti stessi - Omessa previsione del carattere occasionale e saltuario previsto dal codice dell'ambiente - Previsione di sanzioni meno restrittive rispetto a quelle previste dal codice dell'ambiente - Lamentata riduzione degli standard di tutela ambientale stabiliti dal legislatore statale.

Impiego pubblico - Amministrazione pubblica - Norme della Provincia di Bolzano - Sostituzione dell'art. 14, comma 2, della legge provinciale n. 10/1992 - Nomina del direttore generale e dei direttori di dipartimento - Possibilità di conferimento a persone estranee all'amministrazione provinciale, "di riconosciuta esperienza e competenza, in possesso di diploma di laurea e de i requisiti prescritti per l'accesso all'impiego presso l'amministrazi one provinciale, escluso il limite di età".

Istruzione - Minoranze linguistiche - Norme della Provincia di Bolzano - Scuole ladine dell'infanzia - Accesso all'impiego quale insegnante e collaboratore pedagogico - Necessità di attestare l'appartenenza al gruppo linguistico ladino - Contrasto con le norme statutarie e di attuazione

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 41/2009
S.138/2010 del 14/04/2010
Udienza Pubblica del 23/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis del codice civile.

Oggetto: Matrimonio - Richiesta di pubblicazione di matrimonio resa da nubendi dello stesso sesso - Rifiuto opposto dall'ufficiale dello stato civile in virtù della ritenuta estraneità all'ordinamento giuridico italiano dell'istituto del matrimonio tra persone dello stesso sesso e del contrasto della rigettata richiesta con fondamentali principi di ordine pubblico - Ricorso al tribunale avverso il rifiuto di procedere alla pubblicazione - Mancato riconoscimento alle persone di orientamento omosessuale della libertà di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso;
Reclamo avverso il decreto del tribunale che ha giudicato legittimo il rifiuto di procedere alla pubblicazione - Mancato riconoscimento alle persone di orientamento omosessuale della libertà di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ord. 177 e 248/2009

pronuncia successiva

SENTENZA N. 131

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare) e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27 febbraio 2009, depositato in cancelleria il 5 marzo 2009 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;

udito nell’udienza pubblica del 9 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Paolo Papanti-Pelletier per la Regione Lazio.

Ritenuto in fatto

1.- Con ricorso notificato il 27 febbraio 2009 e depositato il 5 marzo 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato in via principale, a seguito di delibera governativa in data 20 febbraio 2009, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare), nonché delle disposizioni con essi inscindibilmente connesse o dipendenti, e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”), affermandone il contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui esso attribuisce allo Stato la competenza legislativa riguardo ai principi fondamentali in materia di professioni.

Riferisce il ricorrente che la legge regionale n. 26 del 2008 si propone di disciplinare, nell’ambito della Regione, le figure del mediatore familiare e del coordinatore per la mediazione familiare, introducendo una nuova figura professionale non altrimenti prevista da legge dello Stato. L’unico articolo della coeva legge regionale n. 27 del 2008 ha modificato l’art. 6 della legge n. 26 del 2008, integrandone i commi 1 e 2 ed eliminando il comma 3.

Specificamente, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26 del 2008 reca la definizione generale del ruolo e della figura professionale del mediatore familiare; gli artt. 3 e 4, a loro volta, prevedono e disciplinano la particolare figura di mediatore familiare costituita dal coordinatore per la mediazione familiare (istituito presso ogni ASL), del quale stabiliscono i compiti e le finalità; l’art. 6, infine, istituisce, presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori familiari e reca l’analitica disciplina dei requisiti per l’accesso all’elenco stesso.

L’art. 1 della legge regionale n. 27 del 2008, nel modificare l’art. 6 della legge regionale n. 26 del 2008, ha esteso anche ai laureati in pedagogia la possibilità di iscriversi al suddetto elenco, mentre ha abrogato l’incompatibilità tra mediazione familiare ed esercizio di altre professioni o attività di impresa.

Ad avviso della difesa erariale, le disposizioni impugnate si propongono di individuare la funzione e i compiti, anche di supporto ai tribunali, del mediatore familiare e del coordinatore per la mediazione familiare, nonché, previa istituzione di un apposito elenco regionale, gli specifici titoli di cui il mediatore familiare deve essere in possesso per l’iscrizione all’elenco e, di seguito, per l’esercizio della professione.

Secondo l’Avvocatura, le norme denunciate sarebbero riconducibili alla materia delle “professioni”, appartenente alla competenza legislativa concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.

Il ricorrente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale, spetta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente previste dall’art. 117, terzo comma, Cost., mentre la legislazione regionale deve svolgersi nel rispetto di quelli risultanti dalla normativa statale già in vigore; ed osserva che, in base all’art. 1, comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131), la potestà legislativa regionale si esercita relativamente alle professioni individuate e definite dalla normativa statale.

Secondo la difesa erariale, l’art. 155-sexies cod. civ., introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), ha soltanto previsto, ma non istituito, la figura professionale del mediatore familiare, che difatti non é definita né disciplinata in alcuna legge statale.

La Regione – osserva l’Avvocatura – avrebbe riservato a sé la determinazione dei titoli professionali e dei correlativi contenuti della professione di mediatore familiare e di coordinatore. Ciò emergerebbe in particolare dall’art. 6 della legge n. 26 del 2008, che tra l’altro equipara, ai fini della idoneità all’iscrizione nell’elenco di mediatore familiare, titoli di natura profondamente diversa perché conseguibili all’esito di percorsi formativi differenti e non assimilabili tra loro. Secondo la difesa erariale, non potrebbero infatti porsi sullo stesso piano titoli conseguiti a seguito di percorso formativo di livello universitario specialistico e titoli ottenuti mediante percorso formativo di livello inferiore, qual è il titolo di formazione regionale conseguito all’esito della frequenza di un corso della durata di cinquecento ore. Tale situazione potrebbe peraltro ingannare l& #8217;utenza, inducendola a ritenere di livello universitario un mediatore familiare munito invece del solo diploma regionale, con conseguente violazione del principio di tutela dell’utenza, che costituisce uno dei principi fondamentali tutelati dalle leggi statali in materia di attività professionali.

2.- Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la Regione Lazio, che ha concluso per l’infondatezza della questione.

Secondo la difesa della Regione, il ricorso muoverebbe dal falso presupposto che la legge regionale impugnata abbia introdotto e disciplinato una nuova professione: quella del “mediatore familiare” e del “coordinatore per la mediazione familiare”. In realtà, la legge regionale impugnata non avrebbe affatto né introdotto né disciplinato una “professione”, ma avrebbe individuato una “figura professionale”, cioè dotata di particolari competenze, destinata ad essere impiegata nell’ambito di strutture pubbliche ed esercitante funzioni pubblicistiche.

Secondo la difesa della Regione, la ratio che ispira l’intero provvedimento normativo è quella di delineare una “figura professionale”, non un “professionista” lavoratore autonomo, operante nell’ambito della mediazione familiare. Tale diversa prospettiva emergerebbe dall’analisi delle singole disposizioni e, in particolare, di quelle che stabiliscono i compiti e le finalità del coordinatore per la mediazione familiare: compiti e finalità di natura essenzialmente pubblicistica, che, come tali, non sono e non possono essere attuati o perseguiti da un professionista lavoratore autonomo.

In particolare, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26 del 2008 evidenzierebbe l’aspetto pubblicistico già nella parte in cui prevede le modalità di accesso all’opera di tale soggetto. Si prescrive infatti che il mediatore familiare possa essere “sollecitato” dalle parti a svolgere la sua opera. Tale locuzione verbale – afferma la Regione – sarebbe indice del fatto che la legge prevede, non già il conferimento di un mandato professionale nell’ambito di un contratto di opera professionale, bensì che tale soggetto, il quale opera all’interno di una struttura sanitaria (come chiarito dal successivo art. 3), possa essere richiesto dalle parti di intervenire per “adoperarsi” nel senso indicato dalla norma. La stessa disposizione prevede che l’intervento del mediatore professionale, oltre che sollecitato dalle parti, possa avvenire su invito del giudice o dei servizi sociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia e dell’adolescenza.

Anche l’art. 3 della stessa legge regionale, nel disciplinare la figura del coordinatore per la mediazione familiare, prevederebbe in realtà l’attribuzione a tale figura professionale di un vero e proprio ufficio pubblico.

Le finalità che il mediatore familiare è chiamato a svolgere in base all’art. 4 della legge regionale sarebbero ben lontane dall’esercizio di una professione, ai sensi dell’art. 117 Cost.

Quanto all’art. 6 della legge regionale, è bensì vero – osserva la Regione – che esso ha previsto un elenco regionale dei mediatori familiari, ma tale elenco non può considerarsi istitutivo di una professione operante a livello regionale, perché mancherebbero le caratteristiche proprie di un’attività professionale di lavoro autonomo. Secondo la difesa della Regione Lazio, la legge impugnata, pur avendo assegnato al mediatore familiare funzioni (compiti e finalità) esclusivamente pubblicistiche, e pur avendo previsto la sua collocazione presso ogni azienda unità sanitaria locale, non ha tuttavia definito il tipo di rapporto che lega tale soggetto all’ente. La legge non chiarisce infatti se il mediatore sia legato alle ASL da un rapporto di pubblico impiego ovvero se egli abbia un rapporto basato, ad esempio, su un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Queste modalità attuati ve – precisa la Regione – saranno chiarite da regolamenti attuativi. Intanto, l’elenco di cui all’art. 6 assolve essenzialmente la funzione di individuare una lista di soggetti, dotati di particolari professionalità, dalla quale poter attingere per il loro inserimento nell’ambito delle ASL o eventualmente di altri enti regionali. Un chiaro sintomo di ciò sarebbe dato dal fatto che l’opera di tale figura professionale è a carico delle finanze della Regione, come si desume dall’art. 8, che prescrive che le risorse necessarie all’applicazione della presente legge sono individuate nei limiti delle disponibilità finanziarie di cui al fondo per l’attuazione del piano socio-assistenziale regionale.

Dopo aver ricordato i caratteri essenziali delle professioni propriamente dette, alle quali si riferisce l’art. 117, terzo comma, Cost. ed alla cui base vi è un contratto fra il professionista ed il cliente, la difesa della Regione ribadisce che l’attività del mediatore familiare non trova la sua fonte in un contratto di opera intellettuale, bensì in un sollecito da parte degli interessati (cioè in una richiesta di intervento, quale può rivolgersi solo ad una pubblica autorità) ovvero in un invito del giudice o di enti pubblici. Si è, in ogni caso, ben lontani dal conferimento di un mandato professionale di tipo privatistico. Inoltre, dal complesso delle norme regionali emergerebbe che il mediatore familiare o il coordinatore per la mediazione familiare è, in realtà, un ufficio, nel quale i singoli addetti svolgono la loro opera non in quanto scelti dalle parti o dal giudice o dalle altre autorità, ma in quanto inseriti in un’organizzazione gerarchicamente ordinata, nella quale non assume rilievo esterno l’intuitus personae del singolo operatore. Nel caso della legge in esame, si riscontrerebbe, non l’autonomia del professionista, ma, all’opposto, un vincolo ad agire secondo i compiti e le finalità, di cui agli artt. 3 e 4. Il mediatore familiare avrà, al più, un ambito di discrezionalità, propria dell’agire amministrativo, nell’ambito di obiettivi rigidamente predeterminati. Tutta l’attività che deve svolgere il mediatore familiare è, infine, a beneficio della collettività e, solo indirettamente, si riverbera sugli utenti del servizio.

Da ultimo, la Regione sottolinea che anche altre Regioni hanno emanato regolamenti per disciplinare la professione di mediatore familiare.

3.-In prossimità dell’udienza l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria illustrativa.

Considerato in diritto

1.-Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare), nonché delle disposizioni con essi inscindibilmente connesse o dipendenti, e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”), denunciandone il contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Ad avviso del ricorrente, le citate disposizioni – le quali: recano la definizione generale del ruolo e della figura professionale del mediatore familiare, quale professionista deputato a svolgere, anche su invito del giudice, un ruolo di compiuta mediazione nei procedimenti di separazione della famiglia e della coppia nell’interesse dei figli; prevedono e disciplinano la particolare figura di mediatore familiare costituita dal coordinatore per la mediazione familiare (istituito presso ogni ASL), del quale stabiliscono i compiti e le finalità, diretti da un lato a realizzare progetti di politiche efficaci a tutela della famiglia e dall’altro a costituire un punto di riferimento per i tribunali e i magistrati che si occupano di separazioni che coinvolgono figli minori; istituiscono, presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori familiari e recano la analitica disci plina dei requisiti per l’accesso all’elenco stesso – si porrebbero in contrasto con il principio fondamentale in materia di regolamento delle professioni, in base al quale spetta esclusivamente allo Stato l’individuazione delle figure professionali con i relativi profili e i titoli abilitanti.

2.-La questione è fondata.

2.1.- Con la legge n. 26 del 2008 la Regione Lazio pone una regolamentazione complessiva della mediazione familiare, individuata – secondo la definizione che ne dà l’art. 1 – come il «percorso che sostiene e facilita la riorganizzazione della relazione genitoriale nell’ambito di un procedimento di separazione della famiglia e della coppia alla quale può conseguire una modifica delle relazioni personali tra le parti», e si propone come obiettivi (art. 2) la tutela della «famiglia e della coppia con prole come principale nucleo di socializzazione», il sostegno alla genitorialità, il mantenimento, in caso di separazione, dell’affidamento dei figli «ad entrambi i genitori, mediante l’assunzione di accordi liberamente sottoscritti dalle parti che tengano conto della necessità di tutelare l’interesse morale e materiale dei figli».

In questo quadro, con le norme impugnate (della stessa legge n. 26 del 2008 e della coeva legge n. 27 del 2008, recante un articolo unico a modifica dell’art. 6 della legge n. 26 del 2008) la Regione: (a) individua nel mediatore familiare colui che, «sollecitato dalle parti o su invito del giudice o dei servizi sociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, si adopera, nella garanzia della riservatezza e in autonomia dall’ambito giudiziario, affinché i genitori elaborino personalmente un programma di separazione soddisfacente per loro e per i figli, nel quale siano specificati i termini della cura, dell’educazione e della responsabilità verso i figli minori»; (b) istituisce, presso ogni azienda sanitaria locale, «la figura del coordinatore per la mediazione familiare avente la qualifica di mediatore familiare», con il compito di «acquisire dati relativi alla condizione familiare attrav erso indagini, studi e ricerche presso gli enti locali, i tribunali, i servizi sociali, le associazioni di volontariato, le forze dell’ordine, le scuole e i consultori», di coadiuvare la Regione «nella progettazione di politiche efficaci di tutela della vita della famiglia e della coppia e di sostegno alla genitorialità responsabile», di «costituire un punto di riferimento prioritario per i tribunali», di avviare un dialogo con tutti coloro, compresi i magistrati, che «si occupano di situazioni di separazione “disfunzionali” che vedano il coinvolgimento di figli minori»; (c) stabilisce le finalità del coordinatore per la mediazione familiare («rispondere alle esigenze di ascolto e di aiuto che provengono dalle famiglie e dalle coppie»; offrire un punto di riferimento «per la risoluzione dei conflitti relazionali, con particolare riferimento alle fasi della separazione, del divorzio e della cessazione della convivenza»; «raccordarsi con le istituz ioni presenti sul territorio»; «garantire un supporto alla progettazio ne di interventi e servizi sul territorio»; «identificare le aree a rischio»; «attuare azioni positive per la promozione della pariteticità»); (d) istituisce, «presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori professionali», stabilendo che ad esso «possono iscriversi coloro che sono in possesso di laurea specialistica in discipline pedagogiche psicologiche, sociali o giuridiche nonché di idoneo titolo universitario, quale master, specializzazione o perfezionamento, di durata biennale, di mediatore familiare oppure di specializzazione professionale conseguita a seguito della partecipazione ad un corso, riconosciuto dalla Regione Lazio, della durata minima di cinquecento ore»; «coloro che, in possesso della laurea specialistica in discipline pedagogiche psicologiche, sociali o giuridiche alla data di entrata in vigore della […] legge, abbiano svolto per almeno due anni, nel quinquennio antec edente l’entrata in vigore della legge, attività di mediazione familiare da comprovare sulla base di idonea documentazione».

2.2.- L’impianto complessivo, lo scopo ed il contenuto precipuo delle disposizioni impugnate rendono palese che l’oggetto di esse deve essere ricondotto propriamente alla materia concorrente delle “professioni” (art. 117, terzo comma, Cost.).

Nello scrutinio di disposizioni legislative regionali aventi ad oggetto la regolamentazione di attività di tipo professionale, questa Corte ha ripetutamente affermato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle “professioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera di singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale» (sentenze n. 153 e n. 424 del 2006, n. 57 del 2007, n. 138 e n. 328 del 2009). Ha, altresì, precisato che la «istituzione di un registro profession ale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno già, di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale» (sentenze n. 93 del 2008, n. 138 e n. 328 del 2009).

Ora, la legislazione statale, con l’art. 155-sexies del codice civile, aggiunto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, ha soltanto accennato alla attività di mediazione familiare, senza prevedere alcuna specifica professione, stabilendo che «qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli», ma, a tutt’oggi, non ha introdotto la figura professionale del mediatore familiare, né stabilito i requisiti per l’esercizio dell’attività.

Le disposizioni denunciate danno una definizione della mediazione familiare, disciplinano le caratteristiche del mediatore familiare e stabiliscono gli specifici requisiti per l’esercizio dell’attività, con la previsione di un apposito elenco e delle condizioni per la iscrizione in esso. Ma, così facendo, invadono una competenza sicuramente statale.

Non pare dubbio, infatti, che, attraverso la predetta disciplina, siano stati individuati i titoli abilitanti per lo svolgimento in ambito regionale della professione di mediatore familiare, in tal modo travalicando, secondo quanto dianzi precisato, gli ambiti di competenza legislativa regionale in materia di professioni.

Non rileva la circostanza – sottolineata dalla difesa della resistente – che il mediatore familiare non sarebbe un professionista autonomo, ma una figura professionale, legata alla Regione, alla quale sarebbero affidati compiti e funzioni di rilievo pubblicistico.

Per un verso, infatti, la competenza dello Stato ad individuare i profili professionali ed i requisiti necessari per il relativo esercizio spetta anche quando l’attività professionale sia destinata a svolgersi in forma di lavoro dipendente (artt. 1, comma 3, e 2, comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, recante “Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131”); per l’altro, «l’individuazione di una specifica area caratterizzante la “professione” è ininfluente ai fini della regolamentazione delle competenze derivante dall’applicazione nella materia in esame del terzo comma dell’art. 117 Cost.» (sentenza n. 40 del 2006, nonché, tra le altre, sentenze n. 355 e n. 424 del 2005). Su tali premesse,

questa Corte (sentenza n. 153 del 2006) ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale di una normativa regionale che disciplinava figure professionali alle quali la Regione faceva ricorso per il funzionamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

3.- L’intera legge regionale n. 26 del 2008 è inscindibilmente connessa, per il suo contenuto, con le disposizioni specificamente censurate dal ricorrente e pertanto la declaratoria di illegittimità costituzionale deve essere estesa, in via consequenziale, anche agli artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8, non oggetto di impugnazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”);

3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale in via consequenziale degli artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 132

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, e degli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19-24 febbraio 2009, depositato in cancelleria il 24 febbraio 2009 ed iscritto al n. 12 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione, fuori termine, della Regione Puglia;

udito nell’udienza pubblica del 9 marzo 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

udito l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 19-24 febbraio 2009 e depositato il 24 febbraio 2009, ha impugnato l’art. 2, commi 1 e 2, e gli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), e terzo comma, della Costituzione.

Il ricorrente, pur riconoscendo la competenza legislativa residuale delle Regioni in relazione al turismo, osserva che le professioni turistiche ricadono nella materia delle «professioni», attribuita alla competenza legislativa concorrente Stato-Regione.

In particolare, la difesa erariale ritiene che l’art. 2, commi 1 e 2, nello stabilire la creazione di nuove professioni turistiche (interprete turistico, operatore congressuale e guida turistica sportiva), sia in contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione e specificamente con il principio fondamentale secondo cui l’individuazione di figure professionali e dei relativi profili spetta allo Stato.

Per gli stessi motivi, anche il successivo art. 4 della legge regionale n. 37 del 2008, nella parte in cui individua «i requisiti minimi per l’accreditamento degli esercenti le professioni turistiche, come definite dall’art. 2», violerebbe l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

L’Avvocatura censura poi gli artt. 7 e 8 della citata legge regionale i quali prevedono l’istituzione «e la tenuta di albi e di elenchi professionali», nonché l’individuazione delle condizioni necessarie per iscriversi negli stessi.

Entrambe le disposizioni risulterebbero in contrasto con il citato art. 117, terzo comma, della Costituzione, poiché rientra nella competenza dello Stato «l’individuazione dei requisiti per l’esercizio delle professioni ed il conseguente rilascio delle relative autorizzazioni che devono valere per l’intero territorio nazionale e non solo per quello regionale».

Infine, secondo il ricorrente, tutte le norme impugnate violerebbero il principio della libera prestazione dei servizi, nonché quello della tutela della concorrenza, entrambi rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

2. – Con atto depositato in data 10 aprile 2009, dunque tardivamente, si è costituita in giudizio la Regione Puglia.

3. – Con successiva memoria, depositata in data 16 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito le argomentazioni già sviluppate nel ricorso ed ha insistito per il suo accoglimento.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 2, commi 1 e 2, e gli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto il legislatore regionale avrebbe introdotto nuove figure professionali nel settore turistico, istituito elenchi ed individuato le condizioni necessarie per l’iscrizione negli stessi, in contrasto i principi fondamentali previsti dalla legislazione statale in materia di professioni.

Le disposizioni censurate, a parere del ricorrente, contrasterebbero anche con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, poiché «le limitazioni» da esse introdotte violano il principio della libera prestazione dei servizi, nonché quello della concorrenza.

2. – In via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la censura relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione in quanto il ricorrente non ha sufficientemente motivato in punto di non manifesta infondatezza, con il risultato che essa è formulata in modo generico ed apodittico (ex plurimis, sentenza n. 80 del 2010, ordinanza n. 344 del 2008).

3. – Nel merito il ricorso è fondato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

3.1 – Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di professioni il principio secondo il quale «compete allo Stato l’individuazione dei profili professionali e dei requisiti necessari per il relativo esercizio» si applica anche nei confronti delle professioni turistiche (sentenza n. 271 del 2009).

3.1 – Nel caso di specie, l’art. 2, commi 1 e 2, della legge regionale censurata prevede la creazione di tre nuove figure professionali (interprete turistico, operatore congressuale e guida turistica sportiva), che non risultano regolate dalla legislazione statale vigente in materia di professioni turistiche. Il successivo art. 4 stabilisce i requisiti minimi, nonché la tipologia dei titoli specifici necessari per l’accreditamento di coloro che svolgono professioni turistiche. Infine, gli artt. 7 e 8 della legge regionale n. 37 del 2008 disciplinano sia le condizioni per l’iscrizione negli elenchi provinciali degli esercenti le professioni turistiche, la cui istituzione è espressamente prevista dall’art. 5 della cennata legge regionale, sia l’esercizio delle medesime professioni, nonché contemplano gli effetti dell’iscrizione nei suddetti elenchi provinciali.

Così sinteticamente riportato il contenuto delle disposizioni censurate, i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal ricorrente vanno risolti alla luce del richiamato principio fondamentale in materia di professioni che riserva allo Stato l’individuazione di nuove figure professionali e la disciplina dei relativi profili e titoli abilitanti (ex plurimis, sentenze n. 138 del 2009, n. 179 del 2008 e n. 300 del 2007), nonché della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui «la istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per l’iscrizione ad esso, prescindendosi dalla circostanza […] che tale iscrizione si caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini dello svolgimento delle attività cui l’elenco fa riferimento, hanno già di per sé una “funzione individuatrice della professione”, come tale preclusa alla competenza regionale» (ex plurimis, sentenze n . 300 e n. 57 del 2007).

Vanno pertanto dichiarate incostituzionali le disposizioni regionali impugnate, in quanto non rispettano i limiti imposti dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione in materia di professioni.

4. – Poiché le altre norme della legge regionale n. 37 del 2008 hanno una inscindibile connessione con le disposizioni specificamente oggetto di censura, così che, senza queste ultime, dette norme risultano prive di autonoma portata normativa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la declaratoria di incostituzionalità deve estendersi all’intera legge.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, nonché degli artt. 4, 7 e 8 della legge della Regione Puglia 19 dicembre 2008, n. 37 (Norme in materia di attività professionali turistiche), e, per conseguenza, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, della restante parte della legge.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 133

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 9-bis, comma 5, e 22, commi 2 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, promossi dalla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e dalla Provincia autonoma di Trento, con ricorsi notificati il 30 settembre-2 ottobre 2009 ed il 3 ottobre 2009, depositati in cancelleria il 1° ed il 7 ottobre 2009 ed iscritti ai nn. 68 e 80 del registro ricorsi 2009.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi gli avvocati Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d’Aosta, Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Provincia autonoma di Trento e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste ha promosso, con ricorso notificato il 30 settembre-2 ottobre 2009 e depositato il 1° ottobre 2009 (reg. ric. n. 68 del 2009), questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9-bis, comma 5, e 22, commi 2 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, per violazione degli artt. 48-bis e 50, quinto comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione.

1.1. – Il comma 5 dell’art. 9-bis è impugnato nella parte in cui prevede che «In funzione di anticipazione dell’attuazione delle misure connesse alla realizzazione di un sistema di federalismo fiscale, secondo quanto previsto dalla legge 5 maggio 2009, n. 42, e allo scopo di assicurare la tutela dei diritti e delle prestazioni sociali fondamentali su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere espresso in sede di tavolo di confronto di cui all’articolo 27, comma 7, della citata legge n. 42 del 2009, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono fissati i criteri per la rideterminazione, a decorrere dall’anno 2009, dell’ammontare dei proventi spettanti a regioni e province autonome, compatibilmente con gli statuti di autonomia delle regioni ad autonomia speciale e delle citate province autonome, ivi compresi quelli afferenti alla compartecipazione ai tributi erariali statali, in misura tale da garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Tali risorse sono assegnate ad un fondo da istituire nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale. In sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sono stabiliti, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al secondo periodo del presente comma, criteri e modalità per la distribuzione delle risor se di cui al presente comma tra le singole regioni e province autonome , che il Ministro dell’economia e delle finanze provvede ad attuare con proprio decreto».

1.1.1. – La Regione Valle d’Aosta assume che l’art. 9-bis, comma 5, violi innanzitutto gli artt. 48-bis e 50, quinto comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta).

Al riguardo, la ricorrente osserva come il suo ordinamento finanziario sia disciplinato dalla legge 26 novembre 1981, n. 690 (Revisione dell’ordinamento finanziario della regione Valle d’Aosta), che fissa le quote di tributi erariali da attribuire alla medesima Regione. Pur trattandosi di una legge dello Stato, tale normativa è modificabile non nelle forme ordinarie, ma secondo il particolare procedimento previsto dall’art. 48-bis dello statuto speciale. In tal senso si esprime l’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 aprile 1994, n. 320 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Valle d’Aosta).

La peculiarità del procedimento di modificazione della legge n. 690 del 1981 si giustifica, secondo la ricorrente, anche alla luce della previsione dell’art. 50, quinto comma, dello statuto speciale, in base al quale la disciplina dell’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta è introdotta con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale.

Sulla base di queste considerazioni, la difesa regionale ritiene che la norma impugnata, modificando con procedura ordinaria la legge n. 690 del 1981, violi sia l’art. 50, quinto comma, sia l’art. 48-bis dello statuto speciale.

Il primo parametro sarebbe violato a causa del mancato coinvolgimento della Giunta regionale nel procedimento di approvazione della norma oggetto dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale.

L’art. 48-bis, invece, sarebbe violato in quanto il regime giuridico della legge n. 690 del 1981 è assimilato, dal citato art. 1 del d.lgs. n. 320 del 1994, a quello dei decreti legislativi di attuazione statutaria.

La ricorrente individua poi un secondo profilo di lesione delle attribuzioni regionali previste nell’art. 48-bis, avuto riguardo al fatto che il censurato art. 9-bis, comma 5, si porrebbe in aperto contrasto con quanto stabilito dal richiamato art. 1 del d.lgs. n. 320 del 1994; la violazione di quest’ultima norma, contenuta in un decreto legislativo di attuazione dello Statuto speciale, non modificabile né derogabile dal legislatore ordinario, comporterebbe, anche sotto tale profilo, la violazione dell’art. 48-bis.

1.1.2. – L’art. 9-bis, comma 5, violerebbe, inoltre, i principi di ragionevolezza, di cui all’art. 3 della Costituzione, e di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

Quanto all’asserito contrasto con quest’ultimo principio, la ricorrente muove dalla considerazione che l’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta è disciplinato «con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale» (art. 50, quinto comma, dello statuto speciale), per concludere che una modifica di tale disciplina avrebbe richiesto l’acquisizione di una vera e propria intesa con la Regione medesima, oltre che per l’espressa previsione degli artt. 48-bis e 50 dello statuto, anche in virtù del principio di leale collaborazione.

La difesa regionale deduce, inoltre, il contrasto della norma impugnata con il principio di ragionevolezza: la modifica unilateralmente introdotta dallo Stato non terrebbe conto delle misure e degli atti già adottati dalla Regione, sulla base di quanto previsto dalla legge n. 690 del 1981, in merito alle quote di partecipazione ai tributi erariali riservate alla Valle d’Aosta, con la conseguente lesione del legittimo affidamento della Regione e, quindi, del principio di ragionevolezza.

1.2. – La ricorrente impugna anche l’art. 22, commi 2 e 3, del d.l. n. 78 del 2009 per violazione dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione.

La predetta norma, nel prevedere l’istituzione di un fondo con dotazione di 800 milioni di euro – «destinato ad interventi relativi al settore sanitario» ed alimentato con le economie di spese derivanti, tra l’altro, dall’applicazione del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 giugno 2009, n. 77 – dispone che «in sede di stipula del Patto per la salute è determinata la quota che le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano riversano all’entrata del bilancio dello Stato per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale».

Secondo la ricorrente, il legislatore statale non avrebbe considerato che la Regione Valle d’Aosta provvede al «finanziamento del Servizio sanitario nazionale nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato» (art. 34, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 – Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e che, pertanto, le eventuali economie di spesa dovrebbero essere destinate ad interventi relativi al settore sanitario regionale.

La difesa regionale aggiunge che i principi di leale collaborazione e di ragionevolezza impongono allo Stato di non introdurre unilateralmente variazioni, anche di carattere normativo, in grado di determinare un vulnus al legittimo affidamento, sulla base del quale siano stati assunti, dagli altri enti, atti e comportamenti specifici che, in seguito a dette variazioni, si rivelino irrimediabilmente pregiudizievoli a causa della sopravvenuta mancanza della copertura finanziaria.

Nel caso di specie, lo Stato avrebbe imposto alla Regione di partecipare al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, senza tenere conto né del finanziamento esclusivamente regionale del SSN, né della mancata partecipazione della Valle d’Aosta al cosiddetto Patto per la salute.

La difesa regionale sottolinea come la normativa impugnata risulti del tutto irragionevole, atteso che, a partire dal 1994, è venuta meno qualsiasi forma di partecipazione reciproca, tra Stato e Regione Valle d’Aosta, al finanziamento dei rispettivi servizi sanitari. Per questa ragione, le norme censurate avrebbero pregiudicato, «irragionevolmente, oltre che inaspettatamente», il legittimo affidamento dell’odierna ricorrente sulla destinazione delle proprie risorse in ambito sanitario.

La lesione dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione sarebbe dunque rinvenibile nell’imposizione, del tutto irragionevole, di un finanziamento da parte della Valle d’Aosta al Servizio sanitario nazionale (ma non viceversa) e nell’individuazione della «sede per la quantificazione di tale finanziamento nella stipula di un Patto cui la Regione non partecipa».

2. – Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’infondatezza delle censure.

Quanto alla prospettata illegittimità dell’art. 9-bis, comma 5, la difesa erariale ritiene del tutto infondate le doglianze della ricorrente, in quanto la «rideterminazione» dell’ammontare dei proventi non costituirebbe una modifica normativa a regime, «ma un ricalcolo delle entrate che complessivamente affluiscono nei bilanci delle singole Regioni al netto della partecipazione al fondo per le attività di carattere sociale, tra cui la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni e la solidarietà e perequazione tra territori».

La norma impugnata, pertanto, sarebbe riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed e), Cost.

Il resistente sottolinea, inoltre, come il meccanismo previsto dall’art. 9-bis, comma 5, punti a realizzare l’obiettivo del contenimento della finanza pubblica, anche al fine di rispettare i vincoli posti dal Patto di stabilità e di crescita. Le norme in oggetto conterrebbero dunque principi di coordinamento della finanza pubblica, i quali, secondo la giurisprudenza costituzionale richiamata dalla difesa erariale, possono comprendere anche statuizioni puntuali adottate dal legislatore statale per realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario.

In merito alle censure formulate nei confronti dell’art. 22, commi 2 e 3, la difesa erariale ritiene che le norme impugnate introducano una manovra di contenimento della spesa farmaceutica che comporta un risparmio anche per la Regione Valle d’Aosta; pertanto, la ricorrente non sarebbe gravata da alcun onere supplementare.

Infine, quanto all’asserita violazione del principio di leale collaborazione e del necessario rispetto delle prerogative regionali, questi sarebbero garantiti dalla previsione dell’approvazione del Piano per la salute.

3. – In prossimità dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale si riporta integralmente a quanto già dedotto nell’atto di costituzione nel presente giudizio e nella memoria depositata nel giudizio promosso dalla Provincia autonoma di Trento, avente ad oggetto le medesime norme (reg. ric. n. 80 del 2009).

4. – La Provincia autonoma di Trento ha promosso, con ricorso notificato il 3 ottobre 2009 e depositato il successivo 7 ottobre (reg. ric. n. 80 del 2009), questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 78 del 2009, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 102 del 2009, e, tra queste, degli artt. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, e 22, commi 2 e 3, per violazione degli artt. 69-86 (Titolo VI), 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e dei principi di ragionevolezza, di leale collaborazione e di legalità sostanziale.

4.1. – La difesa provinciale rileva, preliminarmente, come l’art. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, del d.l. n. 78 del 2009, attribuisca al Presidente del Consiglio dei ministri un potere di natura regolamentare, affinché siano fissati «i criteri per la rideterminazione, a decorrere dall’anno 2009, dell’ammontare dei proventi spettanti a regioni e province autonome, compatibilmente con gli statuti di autonomia delle regioni ad autonomia speciale e delle citate province autonome, ivi compresi quelli afferenti alla compartecipazione ai tributi erariali statali». Lo scopo di siffatta previsione è quello di «garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui», destinate «ad un fondo da istituire nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale». Si prevede poi che il Ministro dell’economia e delle finanze provveda ad attuare con proprio decreto i criteri e le modalità per la distribuzione delle risorse, stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.

Per giustificare la previsione di un potere regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri, l’art. 9-bis, comma 5, invoca lo «scopo di assicurare la tutela dei diritti e delle prestazioni sociali fondamentali su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione».

Secondo la ricorrente, la norma impugnata non definisce alcun livello essenziale delle prestazioni sociali ma si limita a prevedere un fondo «per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale», e dunque incide sulle materie della finanza regionale e dei servizi sociali.

La Provincia autonoma di Trento sottolinea, al riguardo, come la clausola di salvaguardia delle autonomie speciali, prevista dall’art. 9-bis, comma 5, sia di «difficile applicazione», poiché il tenore complessivo della disposizione impugnata presuppone che anche le Province autonome debbano essere coinvolte dalla «rideterminazione, a decorrere dall’anno 2009, dell’ammontare dei proventi spettanti a regioni e province autonome». Un’ulteriore conferma in tal senso sarebbe desumibile dall’ultimo periodo del comma 5, il quale prevede «la distribuzione delle risorse di cui al presente comma tra le singole regioni e province autonome».

4.1.1. – Alla luce delle anzidette considerazioni, la ricorrente assume l’illegittimità costituzionale dell’art. 9-bis, comma 5, secondo periodo, per violazione dell’autonomia finanziaria della Provincia di Trento, risultante dagli artt. 69 e seguenti (specialmente dagli artt. 75 e 78) del d.P.R. n. 670 del 1972, integrati dalla legge 30 novembre 1989, n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della regione Trentino-Alto Adige e delle province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria) e dagli artt. 5, 6, 7, 9, 10 e 11 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale).

Sarebbero violati anche gli artt. 104 e 107 del d.P.R. n. 670 del 1972, i quali prevedono che le modifiche e le integrazioni delle norme statutarie sopra richiamate debbano avvenire con fonte primaria e con il consenso delle Province autonome.

Strettamente collegata alle predette censure è quella prospettata rispetto all’art. 117, sesto comma, Cost., il quale sarebbe violato in quanto la norma impugnata prevede l’esercizio della potestà regolamentare statale in ambiti materiali di competenza delle Province autonome.

Secondo la difesa della ricorrente, il principio consensuale, che domina la materia dei rapporti finanziari tra lo Stato e le Regioni speciali, avrebbe reso necessaria la prescrizione della stipula di un accordo con le Province autonome riguardo alla compatibilità del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previsto nel secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 5, con l’autonomia finanziaria delle Province stesse. Pertanto, la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni e di quello espresso in sede di tavolo di confronto di cui all’art. 27, comma 7, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), non sarebbe sufficiente a soddisfare il principio di leale collaborazione.

Il secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 5, violerebbe, inoltre, il principio di legalità sostanziale, in quanto l’unico criterio contenuto nella disposizione legislativa impugnata è «di tipo quantitativo»; infatti, il d.P.C.m. ivi previsto deve «garantire disponibilità finanziarie complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Secondo la ricorrente, la violazione del principio di legalità sostanziale, nella previsione di un atto governativo limitativo dell’autonomia della Provincia autonoma, si tradurrebbe in lesione delle prerogative costituzionali di questa (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2004).

4.1.2. – La Provincia autonoma di Trento impugna il terzo ed il quarto periodo dell’art. 9-bis, comma 5, per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost. e dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, in quanto prevedrebbero un fondo settoriale in una materia di competenza provinciale piena (servizi sociali), istituendolo peraltro nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze e non del Ministero competente per materia.

Un fondo siffatto, secondo la difesa provinciale, non sarebbe giustificabile in virtù del principio di sussidiarietà, dato che nessuna esigenza unitaria risulta dalla disposizione impugnata, la quale, anzi, contiene un espresso riferimento alle «attività di carattere sociale di pertinenza regionale». Né la dedotta illegittimità verrebbe meno per il fatto che i criteri e le modalità per la distribuzione delle risorse in oggetto sono stabiliti in sede di Conferenza Stato-Regioni.

Pertanto, la ricorrente ritiene che i periodi terzo e quarto dell’art. 9-bis, comma 5, violino la sua autonomia finanziaria, quale risulta dalle norme sopra citate, dato che una quota dei proventi generali della Provincia viene destinata dallo Stato al settore dei servizi sociali. Sarebbe violata anche l’autonomia legislativa nella materia dei servizi sociali, in quanto le scelte della Provincia in questa materia sono destinate ad essere condizionate dalla delibera della Conferenza Stato-Regioni.

Da ultimo, la difesa provinciale ritiene paradossale che l’istituzione di un fondo statale settoriale, in materia regionale, venga giustificata con l’intento di anticipare l’«attuazione delle misure connesse alla realizzazione di un sistema di federalismo fiscale».

4.2. – È impugnato, inoltre, l’art. 22, commi 2 e 3, del d.l. n. 78 del 2009. In proposito, la ricorrente premette che, ai sensi dell’art. 34, comma 3, della legge n. 724 del 1994, «La regione Valle d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono al finanziamento del Servizio sanitario nazionale nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato utilizzando prioritariamente le entrate derivanti dai contributi sanitari ad esse attribuiti dall’articolo 11, comma 9, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, e, ad integrazione, le risorse dei propri bilanci».

Dunque, nella Provincia di Trento il servizio sanitario è finanziato, essenzialmente, con le risorse generali che alla medesima Provincia spettano in virtù delle norme che ne configurano l’autonomia finanziaria (artt. 69 e seguenti del d.P.R. n. 670 del 1972; legge n. 386 del 1989 e d.lgs. n. 268 del 1992).

La difesa provinciale sottolinea, altresì, come alle norme appena citate, contenute nel Titolo VI dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige/Südtirol, non possa derogare una legge ordinaria (se non con il consenso delle Province, ai sensi dell’art. 104 del d.P.R. n. 670 del 1972); parimenti, una legge non può derogare alle statuizioni recate dal d.lgs. n. 268 del 1992, trattandosi di norme di attuazione statutaria, le quali hanno competenza separata e riservata e sono dotate di forza prevalente rispetto alle leggi ordinarie.

Pertanto, aggiunge la ricorrente, le risorse che affluiscono al bilancio provinciale in base alle norme dello Statuto speciale ed a quelle di attuazione statutaria non possono essere «distratte» da una legge ordinaria e destinate ad uno scopo in essa definito.

La Provincia di Trento ritiene che proprio questo sia, invece, l’effetto prodotto dall’art. 22, comma 3, in quanto le economie di spesa ivi previste non attengono a risorse erogate dallo Stato alla Provincia autonoma per finanziare il servizio sanitario, ma sono economie che si producono in relazione a risorse proprie dell’ente provinciale, che quest’ultimo, «senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato» (art. 34, comma 3, della legge n. 724 del 1994), ha destinato al servizio sanitario.

La ricorrente esclude che alle predette osservazioni si possa replicare facendo leva sulla natura statale della fonte che ha prodotto tali economie, poiché l’intervento legislativo statale potrebbe, in astratto, determinare un aggravio della spesa provinciale senza che a ciò corrisponda alcuna contribuzione da parte dello Stato.

La Provincia deduce, dalle argomentazioni che precedono, l’illegittimità del comma 3 dell’art. 22, nella parte in cui prevede che «In sede di stipula del Patto per la salute è determinata la quota che le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano riversano all’entrata del bilancio dello Stato per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale». In particolare, sarebbe lesa l’autonomia finanziaria provinciale poiché la norma impugnata prevede che una quota delle risorse affluite alla Provincia in attuazione delle norme statutarie e di attuazione sia attribuita allo Stato.

Né potrebbe sostenersi che la lesione venga meno a causa della previsione secondo cui la quota da versare è determinata in sede di stipula del Patto per la salute; infatti, tale norma presuppone comunque l’obbligo di conferire allo Stato risorse appartenenti al bilancio provinciale e, in ogni caso, non è previsto un intervento codecisorio della Provincia di Trento.

La ricorrente ritiene pertanto che l’art. 22, comma 3, sia incostituzionale nella parte in cui prevede che anche la Provincia di Trento debba riversare una quota delle proprie risorse – ad essa spettanti in virtù di norme non derogabili da leggi statali – al bilancio dello Stato, per effetto delle economie nella spesa farmaceutica.

La difesa provinciale esclude, altresì, che le norme di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 23 possano giustificarsi invocando la necessità di risanare la finanza statale e quindi il potere statale di coordinamento della finanza pubblica. Le statuizioni impugnate, infatti, non realizzerebbero alcun risparmio ma si limiterebbero a «spostare» risorse delle Regioni e delle Province autonome a favore di un fondo gestito a livello ministeriale. Di conseguenza, non sarebbe pertinente il richiamo alla competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, trattandosi piuttosto di norme incidenti sulla tutela della salute e quindi lesive dell’autonomia legislativa ed amministrativa della Provincia ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e del d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità).

I commi 2 e 3 dell’art. 22 violerebbero, inoltre, l’art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), perché sarebbero direttamente applicabili in un ambito materiale di competenza provinciale (tutela della salute), imponendo alla Provincia di destinare al bilancio statale una quota delle proprie risorse destinate al servizio sanitario.

In subordine, qualora la Corte ritenesse che anche la Provincia di Trento sia soggetta al meccanismo istituito dall’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009, la ricorrente impugna il primo periodo del comma 2 dell’art. 22 nella parte in cui prescrive il parere e non l’intesa della Conferenza Stato-Regioni. La mancata previsione di un coinvolgimento «forte» della Conferenza Stato-Regioni, in merito all’istituzione di un fondo attinente a materia di competenza provinciale, comporterebbe la lesione del principio di leale collaborazione.

Infine, parimenti illegittimo sarebbe il comma 3 dell’art. 22 nella parte in cui non prevede un’intesa con la Provincia per la quantificazione concreta dell’obbligazione gravante su di essa. In questo caso sarebbero violati l’autonomia finanziaria provinciale ed il principio di leale collaborazione.

5. – Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’infondatezza delle censure.

La difesa erariale svolge argomentazioni identiche a quelle sviluppate nell’atto di costituzione nel giudizio promosso dalla Regione Valle d’Aosta (reg. ric. n. 68 del 2009).

Inoltre, con riferimento alla questione relativa all’art. 22, commi 2 e 3, l’Avvocatura generale segnala che una norma analoga, introdotta dall’art. 13 del d.l. n. 39 del 2009, non è stata impugnata dall’odierna ricorrente.

6. – In data 16 gennaio 2010, la difesa provinciale ha depositato la delibera del Consiglio della Provincia autonoma di Trento con la quale è stata ratificata, ai sensi dell’art. 54, numero 7), del d.P.R. n. 670 del 1972, la deliberazione della Giunta provinciale riguardante la presente impugnativa.

7. – In prossimità dell’udienza pubblica, la Provincia autonoma di Trento ha depositato una memoria con la quale insiste nelle conclusioni già rassegnate nel ricorso.

7.1. – Preliminarmente, la ricorrente evidenzia come l’ultimo periodo dell’art. 9-bis, comma 5, sia stato modificato dall’art. 2, comma 152, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), che ha aggiunto, dopo le parole: «Ministro dell’economia e delle finanze», le seguenti: «, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali,». Siffatta modifica non sarebbe però rilevante nel presente giudizio.

Nel merito, la difesa provinciale contesta le considerazioni svolte nell’atto di costituzione di parte avversa, là dove si afferma che la rideterminazione dell’ammontare dei proventi non costituisce una modifica normativa a regime ma un ricalcolo delle entrate. Ad avviso della Provincia di Trento, è inevitabile che la norma impugnata operi sul piano normativo, prevedendo una disciplina a regime e non meramente transitoria.

La ricorrente esclude che la norma di cui all’art. 9-bis, comma 5, possa essere ricondotta alla competenza statale prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto non definisce alcun livello essenziale delle prestazioni sociali, ma si limita a prevedere un fondo «per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale». D’altra parte, nel presente giudizio non ricorrerebbero i presupposti per una decisione analoga a quella assunta con la sentenza n. 10 del 2010.

Peraltro, se anche l’istituzione del fondo in questione fosse giustificabile ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., il fondo stesso non potrebbe essere finanziato derogando alle norme statutarie ed a quelle di attuazione che configurano l’autonomia finanziaria provinciale, tanto meno se la deroga è introdotta con un d.P.C.m.

Inconferente sarebbe poi il richiamo, operato dalla difesa erariale, all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., non solo perché non menzionato dall’art. 9-bis, comma 5, ma anche a causa della mancanza di una funzione perequativa della norma impugnata.

Infine, la ricorrente sottolinea come il quadro delle relazioni finanziarie tra lo Stato e la Regione Trentino-Alto Adige sia stato, recentemente, modificato con una espressa modifica statutaria dall’art. 2, commi 107-125, della legge n. 191 del 2009. In tale quadro, osserva la difesa provinciale, è stato definito anche il concorso «al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà e all’esercizio dei diritti e dei doveri dagli stessi derivanti nonché all’assolvimento degli obblighi di carattere finanziario posti dall’ordinamento comunitario, dal patto di stabilità interno e dalle altre misure di coordinamento della finanza pubblica stabilite dalla normativa statale» (nuovo art. 79 del d.P.R. n. 670 del 1972).

7.2. – In riferimento all’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009, la Provincia di Trento ricorda come anche questa disposizione sia stata oggetto di modifiche dopo l’impugnazione. In particolare, l’art. 8-bis del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee) ha aggiunto, dopo il secondo periodo del comma 2, le seguenti parole: «A valere sul fondo di cui al presente comma un importo, in misura non inferiore a 2 milioni di euro annui, è destinato al Centro nazionale trapianti, al fine dell’attuazione delle disposizioni in materia di cellule riproduttive, di cui al decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 191, nonché in materia di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzio ne di tessuti e cellule umani, di cui alle direttive 2006/17/CE della Commissione, dell’8 febbraio 2006, e 2006/86/CE della Commissione, del 24 ottobre 2006, in corso di recepimento». Secondo la ricorrente, anche la predetta modifica non incide sulla materia del contendere.

Nel merito, la difesa provinciale ritiene che l’Avvocatura generale abbia descritto gli effetti concreti delle norme impugnate ma non abbia replicato alle censure avanzate nel ricorso. In particolare, la fondatezza delle questioni prospettate sarebbe avvalorata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 2009, nella quale si afferma: «Dal momento che lo Stato non concorre al finanziamento del servizio sanitario provinciale, né quindi contribuisce a cofinanziare una eventuale abolizione o riduzione del ticket in favore degli utenti dello stesso, esso neppure ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario che definiscano le modalità di contenimento di una spesa sanitaria che è interamente sostenuta dalla Provincia autonoma di Trento».

Infine, quanto alla mancata impugnazione dell’art. 13 del d.l. n. 39 del 2009, rilevata dalla difesa erariale, la Provincia di Trento precisa che la decisione di non promuovere questione di legittimità costituzionale è stata assunta in ragione della particolare destinazione delle somme («copertura degli oneri derivanti dagli interventi urgenti conseguenti agli eccezionali eventi sismici che hanno interessato la regione Abruzzo»: art. 13, comma 3, lettera a). In ogni caso, la mancata impugnazione sarebbe stata irrilevante ai fini della decisione della presente questione anche se l’art. 13 avesse avuto un contenuto identico a quello dell’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009 (è richiamata la sentenza n. 9 del 2010 della Corte costituzionale).

8. – In prossimità dell’udienza pubblica, anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale ribadisce quanto già affermato nell’atto di costituzione.

La difesa erariale sottolinea come le questioni prospettate dalla Provincia autonoma di Trento si risolvano «in un’esternazione quasi profetica di quello che essa teme possa accadere e che invece non può accadere se verrà – come sicuramente verrà – rispettata la disposizione in esame con leale collaborazione nel suo momento attuativo».

Con particolare riferimento all’art. 9-bis, comma 5, il resistente precisa che la norma impugnata assicura il rispetto delle attribuzioni delle Regioni ad autonomia speciale e delle Province autonome e che, pertanto, la citata norma non può che essere intesa ed applicata in modo coerente con il riparto di competenza costituzionale.

L’Avvocatura generale ricorda, infine, come la Corte costituzionale abbia sottolineato in più occasioni che, a seguito di manovre di finanza pubblica, possono determinarsi riduzioni nella disponibilità finanziaria delle Regioni, purché non siano tali da comportare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa regionale e non rendano insufficienti i mezzi finanziari dei quali ogni Regione dispone per l’adempimento dei propri compiti.

In relazione all’art. 22, commi 2 e 3, la difesa erariale ribadisce che il fondo ivi previsto è destinato al finanziamento di interventi nel settore sanitario per la tutela della salute di tutti i cittadini, a prescindere dal luogo nel quale essi risiedono. Pertanto, la norma impugnata troverebbe fondamento nella competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

In conclusione, il resistente evidenzia che, in virtù dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 22, la Provincia ricorrente non potrà che beneficiare della riduzione delle spese per i farmaci, di cui disporrà, nel quadro della leale collaborazione, in sede di stipula del Patto per la salute, quando cioè sarà determinato il contributo dovuto dalla Provincia al Servizio sanitario nazionale.

Considerato in diritto

1. – La Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9-bis, comma 5, e 22, commi 2 e 3, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, per violazione degli artt. 48-bis e 50, quinto comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione.

La Provincia autonoma di Trento ha promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 78 del 2009, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 102 del 2009, e, tra queste, degli artt. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, e 22, commi 2 e 3, per violazione degli artt. 69-86 (Titolo VI), 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e dei principi di ragionevolezza, di leale collaborazione e di legalità sostanziale.

Riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione, promossa dalla Provincia autonoma di Trento, delle altre disposizioni contenute nel suddetto d.l. n. 78 del 2009, vengono in esame in questa sede le questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, e 22, commi 2 e 3.

I giudizi, così separati e delimitati, in considerazione della loro connessione oggettiva, devono essere riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.

2. – Le questioni di legittimità aventi ad oggetto l’art. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, del d.l. n. 78 del 2009 sono fondate.

2.1. – Per quanto riguarda la Regione Valle d’Aosta, le norme statutarie, evocate quali parametri nella presente questione, sono gli artt. 48-bis e 50, quinto comma, dello Statuto speciale. La prima norma disciplina il meccanismo di approvazione dei decreti legislativi di attuazione statutaria e stabilisce, al secondo comma, che «Gli schemi dei decreti legislativi sono elaborati da una commissione paritetica composta da sei membri nominati, rispettivamente, tre dal Governo e tre dal consiglio regionale della Valle d’Aosta e sono sottoposti al parere del consiglio stesso». La seconda statuisce che «Entro due anni dall’elezione del Consiglio della Valle, con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale, sarà stabilito, a modifica degli artt. 12 e 13, un ordinamento finanziario della Regione».

La legge 26 novembre 1981, n. 690 (Revisione dell’ordinamento finanziario della regione Valle d’Aosta) ha modificato il quadro dei rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione Valle d’Aosta ed ha dettato una nuova disciplina dell’ordinamento finanziario della Regione stessa. In particolare, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della suddetta legge hanno regolato le quote di partecipazione regionale alle imposte erariali. Quanto alla posizione nel sistema delle fonti di questa legge, il decreto legislativo 22 aprile 1994, n. 320 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Valle d’Aosta) stabilisce, all’art. 1, che «Le norme di attuazione dello statuto speciale della regione Valle d’Aosta […] nonché l’ordinamento finanziario della regione stabilito, ai sensi dell’art. 50, comma 3, dello statuto speciale, con la legge 26 novembre 1981, n. 690 e con l’art. 8, comma 4, della legge 23 dicembre 1 992, n. 498, possono essere modificati solo con il procedimento di cui all’art. 48-bis del medesimo statuto speciale».

Dalla citata norma di attuazione si deduce che le modifiche dell’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta devono avvenire con il procedimento previsto dall’art. 48-bis dello Statuto, prescritto per l’approvazione dei decreti legislativi di attuazione statutaria, e quindi a seguito dei lavori della commissione paritetica e del parere del Consiglio della Valle. La norma censurata, invece, attribuisce ad un d.P.C.m. il compito di fissare i criteri per la rideterminazione dell’ammontare dei proventi spettanti a Regioni e Province autonome, compresi quelli afferenti alla compartecipazione ai tributi erariali. La stessa disposizione assegna tali risorse ad un fondo per le attività di carattere sociale di pertinenza regionale e prevede altresì che, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni, sono stabiliti criteri e modalità per la distribuzione delle stesse risorse tra le singole Regio ni e Province autonome.

Dal raffronto tra i parametri prima richiamati e la norma censurata si trae la conclusione che quest’ultima è costituzionalmente illegittima – nella parte in cui si applica alla ricorrente – in quanto modifica l’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta senza osservare il procedimento di approvazione delle norme di attuazione dello Statuto, imposto, nella materia de qua, dallo Statuto stesso.

L’illegittimità costituzionale dell’art. 9-bis, comma 5, del d.l. n. 78 del 2009 non è esclusa dalla clausola di salvaguardia prevista nella stessa norma censurata – «compatibilmente con gli statuti di autonomia delle regioni ad autonomia speciale e delle citate province autonome» – giacché tale formula entra in contraddizione con quanto affermato nel seguito della disposizione, con esplicito riferimento alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, in merito alla variazione delle quote di compartecipazione regionale ai tributi erariali.

Insufficiente è pure la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni e del «tavolo di confronto» previsto dall’art. 27, comma 7, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione). I pareri prescritti in entrambe le disposizioni citate non possono validamente sostituire l’accordo con la Regione Valle d’Aosta, posto a tutela del suo speciale ordinamento finanziario, che non può essere accomunato e omologato a quello delle altre Regioni.

2.2. – Per quanto riguarda la Provincia autonoma di Trento, bisogna osservare che l’autonomia finanziaria della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è disciplinata dal Titolo VI dello statuto speciale. Negli articoli che vanno da 69 a 86 di tale statuto sono regolati i rapporti finanziari tra lo Stato, la Regione e le Province autonome, comprese le quote di compartecipazione ai tributi erariali. Inoltre, il primo comma dell’art. 104 dello stesso statuto stabilisce che «Fermo quanto disposto dall’articolo 103 le norme del titolo VI e quelle dell’art. 13 possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato su concorde richiesta del Governo e, per quanto di rispettiva competenza, della regione o delle due province». Il richiamato art. 103 prevede, a sua volta, che le modifiche statutarie debbano avvenire con il procedimento previsto per le leggi costituzionali.

Dalle disposizioni citate si deduce che l’art. 104 dello statuto speciale, consentendo una modifica delle norme relative all’autonomia finanziaria su concorde richiesta del Governo, della Regione o delle Province, introduce una deroga alla regola prevista dall’art. 103, che impone il procedimento di revisione costituzionale per le modifiche statutarie, abilitando la legge ordinaria a conseguire tale scopo, purché sia rispettato il principio consensuale. In merito alla norma censurata nel presente giudizio, è indubbio che essa incida sui rapporti finanziari intercorrenti tra lo Stato, la Regione e le Province autonome, per i motivi già illustrati nel paragrafo precedente a proposito della Regione Valle d’Aosta, e che pertanto avrebbe dovuto essere approvata con il procedimento previsto dal citato art. 104 dello statuto speciale, ove è richiesto il necessario accordo preventivo di Stato e Regione. Di conseguenza, deve ritenersi che i periodi secondo, terzo e quarto del comma 5 dell’art. 9-bis sono costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui si applicano anche alla Provincia autonoma di Trento.

La conclusione appena enunciata deve estendersi anche alla Provincia autonoma di Bolzano, in base alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma statale, a seguito del ricorso di una Provincia autonoma, qualora sia basata sulla violazione del sistema statutario della Regione Trentino-Alto Adige, deve estendere la sua efficacia anche all’altra (ex plurimis, sentenze n. 341 e n. 334 del 2009).

3. – Le questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’art. 22, commi 2 e 3, del d.l. n. 78 del 2009 sono fondate.

Preliminarmente, occorre rilevare che la disposizione in esame è stata modificata successivamente alla proposizione dei ricorsi. In particolare, l’art. 8-bis del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 20 novembre 2009, n. 166, ha introdotto un nuovo inciso dopo il secondo periodo del comma 2 della disposizione censurata. Poiché la modifica non influisce sulla sostanza normativa del suddetto comma, le questioni promosse nel presente giudizio devono intendersi trasferite sul nuovo testo.

La Regione Valle d’Aosta e la Provincia autonoma di Trento incentrano le loro censure essenzialmente sull’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 22 del d.l. citato. Questa norma prevede che le economie di spesa farmaceutica siano riversate dalle Regioni speciali e dalle Province autonome all’entrata del bilancio dello Stato, per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale.

Per valutare compiutamente le questioni, è utile ricordare le modalità di finanziamento del Servizio sanitario nazionale, con riferimento alle odierne ricorrenti. In particolare, rilevano nel presente giudizio gli artt. 34 e 36 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). L’art. 34, comma 3, secondo periodo, stabilisce che «La regione Valle d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono al finanziamento del Servizio sanitario nazionale nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato utilizzando prioritariamente le entrate derivanti dai contributi sanitari ad esse attribuiti dall’art. 11, comma 9, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, e, ad integrazione, le risorse dei propri bilanci». L’art. 36 dispone che «Rimangono salve le competenze attribuite alla regione Valle d’Aosta dalla legge 26 novembre 1981, n. 690».

Gli artt. 34 e 36 della legge n. 724 del 1994 non contengono norme di attuazione statutaria e non hanno pertanto rango superiore a quello della legge ordinaria. Tuttavia, la disciplina dell’ordinamento finanziario della Regione Valle d’Aosta e della Provincia autonoma di Trento può essere modificata solo con l’accordo dell’una e dell’altra, in virtù delle norme statutarie richiamate nei paragrafi precedenti.

L’art. 22, commi 2 e 3, incide invece in modo unilaterale sull’autonomia finanziaria di entrambe le ricorrenti, imponendo loro di riversare nel bilancio dello Stato le somme ricavate dalle economie sulla spesa farmaceutica. La specialità dell’autonomia finanziaria delle stesse ricorrenti sarebbe vanificata se fosse possibile variare l’assetto dei rapporti finanziari con lo Stato con una semplice legge ordinaria, in assenza di un accordo bilaterale che la preceda. Né vale richiamare la potestà legislativa statale sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti sociali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., giacché la finalità del fondo alimentato dalle risorse di cui sopra è indicata in modo generico («interventi relativi al settore sanitario») e non si procede pertanto alla fissazione di alcun livello di singole prestazioni.

Questa Corte, con riferimento ad un caso analogo, ha precisato di recente che lo Stato, quando non concorre al finanziamento della spesa sanitaria, «neppure ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario» (sentenza n. 341 del 2009). Come s’è visto prima, sia la Regione Valle d’Aosta, sia la Provincia autonoma di Trento non gravano, per il finanziamento della spesa sanitaria nell’ambito dei rispettivi territori, sul bilancio dello Stato, e quindi quest’ultimo non ha titolo per pretendere il versamento sul proprio bilancio delle somme risparmiate dalla spesa farmaceutica, che di quella sanitaria fa parte.

In definitiva, si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 22 del d.l. n. 78 del 2009, nella parte in cui si applica alla Regione Valle d’Aosta, per violazione del principio di leale collaborazione, ed alla Provincia autonoma di Trento, per violazione dell’autonomia finanziaria provinciale e del principio di leale collaborazione.

La conclusione sopra enunciata deve estendersi anche alla Provincia di Bolzano, in base alla giurisprudenza di questa Corte richiamata al paragrafo 2.2.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi e riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Provincia autonoma di Trento con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9-bis, comma 5, secondo, terzo e quarto periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui si applica alla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 3, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 102 del 2009, nella parte in cui si applica alla Regione Valle d’Aosta ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 134

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Liguria del 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’11-14 maggio 2009, depositato in cancelleria il 19 maggio 2009 ed iscritto al n. 32 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Liguria;

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

uditi l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Ludovica Franzin per la Regione Liguria.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato l’11 maggio 2009 e depositato il successivo 19 maggio, ha impugnato l’art. 1 della legge della Regione Liguria 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione.

Il ricorrente ritiene che la norma censurata, nella parte in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati», invade la competenza dello Stato nella materia immigrazione.

Il legislatore regionale avrebbe in tal modo interferito con le attività di controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio statale, in violazione di quanto previsto dall’art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il quale demanda ad un decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, l’individuazione e la costituzione sul territorio nazionale dei centri di identificazione e di espulsione degli stranieri.

2. – Si è costituita in giudizio la Regione Liguria chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

La resistente osserva che con la legge impugnata il legislatore regionale non ha esercitato alcuna attività di controllo e disciplina dell’accesso degli stranieri nel territorio nazionale, ma si è limitato a perseguire la finalità di integrazione dei cittadini non comunitari, prevedendo a tal uopo interventi tesi a garantirne l’accoglienza, le pari opportunità di accesso ai servizi, la formazione e tutela dei minori, la valorizzazione delle identità culturali, religiose e linguistiche, in conformità con quanto previsto dall’art. 2 del proprio statuto adottato con la legge regionale 3 maggio 2005, n. 1 (Statuto della Regione Liguria).

Dette finalità sarebbero, a parere della resistente, compromesse dalla presenza sul territorio regionale degli indicati centri di identificazione.

2.1. – In prossimità dell’udienza la Regione Liguria ha depositato una memoria con la quale ha sostanzialmente ribadito le argomentazioni contenute nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1. – Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Liguria 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione.

La norma impugnata, nel modificare l’art. 1, comma 4, della citata legge regionale n. 7 del 2007, ha aggiunto agli obiettivi da realizzare a favore dei cittadini stranieri immigrati quello di «eliminare ogni forma di razzismo o discriminazione, anche attraverso la manifesta indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati, al fine di garantire una sinergica e coerente politica di interscambio culturale, economico e sociale con i popoli della terra, nel rispetto della tradizione del popolo ligure e della sua cultura di integrazione multietnica».

Il ricorrente assume che tale disposizione si pone in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione, nella parte in cui in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati», in quanto disciplina aspetti che attengono alla materia immigrazione, impedendo in tal modo le attività di competenza statale di controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale.

2. – La questione è fondata.

I centri di identificazione ed espulsione (CIE) sono previsti dall’art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e sostituiscono, per effetto dell’art. 9 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (convertito in legge, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125), gli originari centri di permanenza temporanea ed assistenza.

Tali strutture sono destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e si propongono di evitare la loro dispersione sul territorio e, quindi, di consentire l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione.

L’art. 14, comma 1, stabilisce, in particolare, che i centri di identificazione e di espulsione sono individuati o costituiti «con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica».

Il successivo comma 2, con specifico riferimento alle condizioni che devono essere assicurate presso tali strutture, statuisce che «Lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità. Oltre a quanto previsto dall’articolo 2, comma 6, è assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno».

Da quanto sopra si evince che la costituzione e l’individuazione dei CIE attengono ad aspetti direttamente riferibili alla competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione, in quanto le suddette strutture sono funzionali alla disciplina che regola il flusso migratorio dei cittadini extracomunitari nel territorio nazionale.

La norma impugnata, nel negare la possibilità di istituire nel territorio ligure i centri di identificazione ed espulsione, ha, dunque, travalicato le competenze legislative regionali.

Se, infatti, deve essere riconosciuta la possibilità di interventi legislativi delle Regioni con riguardo al fenomeno dell’immigrazione, per come previsto dall’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998 – secondo cui «Nelle materie di competenza legislativa delle Regioni, le disposizioni del presente testo unico costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione» – tuttavia, tale potestà legislativa non può riguardare aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, ma altri ambiti, come il diritto allo studio o all’assistenza sociale, attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle Regioni (sentenze n. 50 del 2008 e n. 156 del 2006). In conformità con tali indirizzi questa Corte, proprio con riferimento ai centri di permanenza temporanea, ora centri di identificazione e di espulsione, ha dichia rato legittima una norma regionale che attribuiva alla Regione compiti di osservazione e monitoraggio del funzionamento dei suddetti centri, in quanto non contenente una disciplina in contrasto con quella statale che li ha istituiti, limitandosi «a prevedere la possibilità di attività rientranti nelle competenze regionali, quali l’assistenza in genere e quella sanitaria in particolare, peraltro secondo modalità (in necessario previo accordo con le prefetture) tali da impedire comunque indebite intrusioni» (sentenza n. 300 del 2005).

Conseguentemente, l’art. 1 della legge della Regione Liguria n. 4 del 2009 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Liguria 6 marzo 2009, n. 4, recante «Modifiche alla legge regionale 20 febbraio 2007, n. 7 (Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati)», nella parte in cui afferma la «indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione personale dei cittadini stranieri immigrati».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 135

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), promosso dal Commissario regionale per gli usi civici della Regione autonoma della Sardegna, nel procedimento vertente tra il Comune di Teulada e il Ministero della difesa ed altra, con ordinanza del 10 marzo 2009, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione della Regione autonoma della Sardegna nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Alessandra Camba e Sandra Trincas per la Regione autonoma della Sardegna e l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ordinanza del 10 marzo 2009, il Commissario regionale per gli usi civici della Sardegna ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione nonché agli articoli 3 e 6 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), questione di legittimità costituzionale degli artt. 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), nella parte in cui, disciplinando il procedimento amministrativo per l’espropriazione di terreni per opere militari, «del tutto irrazionalmente e in dispregio del principio di buon andamento della pubblica amministrazione», non prevedono che l’organo statale, titolare del potere di espropriazione, debba, prima di adottare gli atti finali, acquisire il parere non vincolante della Regione, nell’ipotesi in cui i terreni medesimi siano ubicati nel territorio della Regione autonoma della Sard egna e siano altresì assoggettati al regime giuridico dei beni demaniali, di cui agli articoli 11 e 12 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751);

che, in base all’ordinanza, il giudizio principale risulta instaurato con ricorso del Comune di Teulada contro il Ministero della difesa e la Regione autonoma della Sardegna per l’accertamento e la dichiarazione della «attuale appartenenza al demanio civico» di alcuni terreni «ricompresi nella sua circoscrizione», già assegnati – con decreto del Commissario per gli usi civici del 4 dicembre 1939, n. 255, ai sensi degli artt. 9 e 12 del r.d.l. n. 751 del 1924 – alla categoria A (bosco e pascolo permanente) e successivamente assoggettati, negli anni 1957 e 1958, ad espropriazione per opere militari, ma la cui originaria natura non sarebbe «in realtà mai venuta meno» a causa dell’illegittimità di questa espropriazione, «attuata senza la, a suo parere necessaria, previa autorizzazione della Regione autonoma della Sardegna»;

che il giudice rimettente adduce, in punto di rilevanza, tra le ulteriori circostanze del suo giudizio, che: a) l’originaria natura demaniale dei terreni non appare, nella specie, discutibile, non risultando che il richiamato decreto di assegnazione a categoria sia mai stato impugnato nelle sedi competenti; b) all’espropriazione non risultano sopraggiunte altre cause di “sdemanializzazione”, compresa quella che sarebbe tacitamente derivata dalla concreta realizzazione delle opere militari, di cui non è stata, peraltro, fornita prova; c) «la modifica della natura della originaria qualitas soli delle terre demaniali» in questione deriverebbe esclusivamente dagli atti di esproprio, i quali, «qualora la sollevata questione di legittimità costituzionale fosse accolta, dovrebbero essere considerati affetti dal vizio di violazione di legge […] e quindi potrebbero essere disapplicati da questo Commissario con consequenziale acc oglimento delle domande avanzate dal Comune e dalla Regione, che, altrimenti, rebus sic stantibus, dovrebbero essere senz’altro rigettate»;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente muove dal rilievo che «la sdemanializzazione delle terre civiche» – «effetto necessario ed ineluttabile» dell’espropriazione – comporta che, «nel relativo procedimento amministrativo, l’Autorità espropriante sia chiamata a ponderare l’interesse pubblico, sotteso alla realizzazione delle opere militari, con quello opposto, di pari rango pubblicistico, alla conservazione del regime giuridico delle terre stesse»;

che, poiché «titolare e gestrice» di quest’ultimo interesse è la Regione autonoma della Sardegna (in quanto «dotata di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici – artt. 3 e 6 della l. cost. 28 febbraio 1948, n. 3 –, nonché del potere di autorizzare il mutamento della destinazione delle terre civiche medesime nell’ambito delle procedure di sdemanializzazione per atto volontario della pubblica amministrazione – art. 12 della l. n. 1766 del 1927 –»), non appare ammissibile, «nell’attuale assetto costituzionale», anche in base al «principio di buona amministrazione», che essa venga totalmente estromessa dal procedimento di espropriazione;

che, d’altra parte, questa partecipazione al procedimento, non potendo «attuarsi in forme che subordinino al consenso dell’ente territoriale la realizzazione delle opere per la difesa militare» (in ossequio al principio, di cui all’art. 3, primo comma, dello statuto speciale, secondo cui «la potestà legislativa e amministrativa della Regione deve attuarsi in armonia con la Costituzione e nel rispetto degli interessi nazionali»), non potrebbe «che trovare attuazione con la previsione dell’obbligo, in capo all’Amministrazione statale, di acquisire dalla Regione medesima un parere non vincolante, a mezzo del quale vengano rappresentate le esigenze di tutela e cura dei beni ad essa affidati, così da poter infine prendere, con adeguata consapevolezza degli interessi in gioco, le sue decisioni definitive»;

che si è costituita in giudizio la Regione autonoma della Sardegna, per chiedere una declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate;

che, premesso che la Regione è titolare, in base al proprio statuto speciale, di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici nonché, ex art. 12 della legge n. 1766 del 1927, del potere autorizzatorio in materia di mutamento di destinazione delle terre civiche, la difesa regionale sostiene che «l’eventuale espropriazione per pubblica utilità dei beni di uso civico deve essere preceduta da una valutazione comparativa» degli interessi coinvolti, i quali, nel caso di specie, riguardano, da un lato, la difesa nazionale e, dall’altro, la conservazione delle terre di uso civico nonché la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio;

che detto «contemperamento degli interessi sottesi all’utilizzo dei beni di uso civico deve avvenire nell’ambito del procedimento di autorizzazione previsto dalla l. n. 1766/1927», vale a dire con il coinvolgimento delle popolazioni interessate nonché della Regione «quale ente esponenziale della collettività generale»;

che le norme denunciate sarebbero in contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione – e violerebbero, a fronte delle evocate norme dello statuto, «sia il principio di buon andamento della pubblica amministrazione che quello della leale collaborazione» – proprio perché, «nel disciplinare il procedimento amministrativo per l’espropriazione di terreni per opere militari, non prevedono che l’organo statale investito della domanda di espropriazione debba acquisire, prima dell’adozione dell’atto definitivo, il parere obbligatorio, ancorché non vincolante, della Regione» («nel caso in cui i terreni oggetto di espropriazione per opere militari siano ubicati nel territorio della stessa Regione e siano assoggettati al regime giuridico dei beni demaniali, di cui agli artt. 11 e 12 della l. 16 giugno 1927, n. 1766»);

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata;

che la questione sarebbe inammissibile «perché irrilevante», atteso che il Comune e la Regione «vorrebbero mettere in discussione atti amministrativi di espropriazione adottati negli anni Cinquanta, attraverso una sorta di azione di accertamento di illegittimità (si badi, non di inesistenza)» (prodromica, peraltro, ad una «pronuncia di disapplicazione») che risulta «del tutto sconosciuta nel sistema della tutela giurisdizionale»;

che l’espropriazione in danno del Comune di Teulada avrebbe determinato «la definitiva acquisizione dei terreni in capo allo Stato» e che i titolari di diritti sui medesimi «(tra cui, in ipotesi, la Regione Sardegna) avrebbero potuto e dovuto far valere la loro pretesa sull’indennità, non essendo loro consentito opporsi all’esproprio»;

che, d’altra parte, la questione sarebbe, nel merito, infondata, dal momento che le norme denunciate attribuirebbero all’Amministrazione della difesa – come riconosciuto anche dal Consiglio di Stato – «discrezionalità piena in materia di opere militari, lasciando all’autorità militare la più ampia libertà di valutazione», in relazione «alla natura ineludibile ed essenziale dell’interesse alla difesa militare dello Stato e del suo territorio», da perseguire «anche con il sacrificio o compressione di altri coesistenti interessi, pur rilevanti, della collettività e del singolo» (così ex art. 117, secondo comma, lettera d, della Costituzione);

che, sulla base del disposto degli attuali articoli 5, 114, primo comma, 117, secondo comma, lettera d), e sesto comma, della Costituzione, «la difesa dello Stato è interesse nazionale perché riguarda l’intero Stato quale soggetto considerato unitariamente, nell’ambito di questa materia e nella sua preminente pienezza rispetto agli Enti che lo compongono» e che, pertanto, «l’istanza unitaria relativa alla difesa dello Stato può ben giustificare, nell’ottica del canone costituzionale della ragionevolezza, la soccombenza dell’interesse regionale», essendo la Regione comunque tenuta a conformarsi «ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale»;

che, peraltro, nel procedimento di espropriazione svoltosi nella specie sarebbero state eseguite attività «che hanno implicato verifiche e apprezzamenti tali da consentire di tener conto di tutti gli interessi pubblici connessi» senza che il Comune di Teulada abbia «opposto alcuna obiezione», avendo anzi accettato l’indennità di esproprio;

che, in prossimità dell’udienza, la Regione autonoma della Sardegna ha presentato una memoria con la quale, nel fare pieno e integrale riferimento al proprio atto di costituzione in giudizio, ha conclusivamente insistito nella richiesta di una pronuncia caducatoria;

che, in replica all’eccezione dell’Avvocatura concernente una «presunta “azione di accertamento di illegittimità”» di cui al giudizio principale, la difesa regionale ha osservato che in quanto titolare, come il giudice civile, del «potere di conoscere incidenter tantum dell’atto amministrativo» nonché del potere, e dovere, di disapplicarlo ove «lesivo del diritto soggettivo» del quale è stata chiesta tutela, il giudice rimettente ha dovuto «incidentalmente esaminare l’atto amministrativo di esproprio del Ministero della difesa e, rilevato che le norme poste a fondamento della procedura espropriativa contrastano» con i parametri costituzionali evocati, ha sollevato la questione «al fine di poter procedere, all’esito del pronunciamento, all’eventuale disapplicazione» dell’atto medesimo;

che, peraltro, «la mancata ponderazione degli interessi coinvolti nella vicenda si riverbera sulla illegittimità (illiceità) dei provvedimenti ablatori incidentali che, una volta disapplicati per violazione di legge, non saranno più idonei a far venir meno l’uso civico esistente sui terreni oggetto di causa» e «la prospettata occupazione acquisitiva» dei medesimi «contrasta con la considerazione delle ben note connotazioni di indisponibilità, imprescrittibilità ed inusucapibilità», «sacrificabili solo nelle ipotesi ed alle condizioni previste dalla legge».

Considerato che questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale degli articoli 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), sollevata d’ufficio, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione nonché agli articoli 3 e 6 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Commissario regionale per gli usi civici della Sardegna, nella parte in cui, disciplinando il procedimento per l’espropriazione di terreni per opere militari, «del tutto irrazionalmente e in dispregio del principio di buon andamento della pubblica amministrazione», non prevedono che l’organo statale, titolare del potere di espropriazione, debba, prima di adottare gli atti finali, acquisire il parere non vincolante della Regione, nell’ipotesi in cui i terreni medesimi siano ubicati nel territorio della Regione autonoma dell a Sardegna e siano altresì assoggettati al regime dei beni demaniali, di cui agli articoli 11 e 12 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751);

che il giudice rimettente osserva, in punto di rilevanza, che la domanda proposta nel giudizio principale – diretta all’accertamento della «attuale appartenenza al demanio civico» di alcuni terreni assoggettati, negli anni 1957 e 1958, ad espropriazione per opere militari e asseritamente fondata sul presupposto dell’illegittimità di questa espropriazione, in quanto attuata senza l’autorizzazione, considerata necessaria, della Regione autonoma della Sardegna – potrebbe essere accolta solo qualora venisse dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, che consentisse di considerare gli atti ablativi «affetti dal vizio di violazione di legge», risultando, in quanto tali, disapplicabili dal rimettente;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente muove dal rilievo secondo cui «la sdemanializzazione delle terre civiche» («effetto necessario ed ineluttabile» dell’espropriazione) comporta che, «nel relativo procedimento amministrativo, l’Autorità espropriante sia chiamata a ponderare l’interesse pubblico, sotteso alla realizzazione delle opere militari, con quello opposto, di pari rango pubblicistico, alla conservazione del regime giuridico delle terre stesse», di cui è titolare la Regione autonoma della Sardegna (in quanto «dotata di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici – artt. 3 e 6 della l. cost. 28 febbraio 1948, n. 3 –, nonché del potere di autorizzare il mutamento della destinazione delle terre civiche medesime nell’ambito delle procedure di sdemanializzazione per atto volontario della pubblica amministrazione – art. 12 della l. n. 1766 del 1927 –»);

che su questa premessa il rimettente osserva che l’opportuna partecipazione della Regione al procedimento espropriativo possa solo «trovare attuazione con la previsione dell’obbligo, in capo all’Amministrazione statale, di acquisire dalla Regione medesima un parere non vincolante, a mezzo del quale vengano rappresentate le esigenze di tutela e cura dei beni ad essa affidati»;

che la Regione autonoma della Sardegna, costituendosi in giudizio per chiedere una pronuncia caducatoria, ha osservato che «l’eventuale espropriazione per pubblica utilità dei beni di uso civico deve essere preceduta da una valutazione comparativa» degli interessi coinvolti (da un lato, la difesa nazionale e, dall’altro, la conservazione delle terre di uso civico nonché la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio) e che detto «contemperamento degli interessi sottesi all’utilizzo dei beni di uso civico deve avvenire nell’ambito del procedimento di autorizzazione previsto dalla l. n. 1766/1927», vale a dire con il coinvolgimento delle popolazioni interessate nonché della Regione «quale ente esponenziale della collettività generale» (peraltro titolare, in base al proprio statuto speciale, di potestà legislativa ed amministrativa esclusiva in materia di usi civici nonché, ex art. 12 della legge n. 1766 del 1927, del potere autorizzatorio in materia di mutamento di destinazione delle terre civiche);

che le norme denunciate violerebbero i principi di cui ai parametri evocati proprio perché, disciplinando il procedimento di espropriazione per opere militari, non prevedono l’obbligo dell’acquisizione del «parere obbligatorio, ancorché non vincolante, della Regione» («nel caso in cui i terreni oggetto di espropriazione per opere militari siano ubicati nel territorio della stessa Regione e siano assoggettati al regime giuridico dei beni demaniali, di cui agli artt. 11 e 12 della l. 16 giugno 1927, n. 1766»);

che, intervenendo nel giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile in quanto «irrilevante» o infondata, dal momento che «l’istanza unitaria relativa alla difesa dello Stato può ben giustificare, nell’ottica del canone costituzionale della ragionevolezza, la soccombenza dell’interesse regionale», essendo la Regione comunque tenuta a conformarsi «ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale»;

che la Regione autonoma della Sardegna, in una memoria depositata in prossimità dell’udienza, in replica alle eccezioni del Presidente del Consiglio dei ministri, ha insistito nella propria richiesta;

che, in definitiva, il giudice rimettente appare investito da una domanda di accertamento della persistente e attuale qualitas di terreni appartenenti al demanio civico, già destinati a «bosco o pascolo permanente» e successivamente assoggettati ad espropriazione per opere militari, proposta sul rilievo della mancata autorizzazione da parte dell’autorità amministrativa competente – ai sensi dell’art. 12, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927 – al mutamento di destinazione (c.d. “sdemanializzazione”), considerata necessaria anche in riferimento all’ipotesi di cessione di quei terreni in seguito ad esproprio;

che, pertanto, la controversia di cui al giudizio principale risulta avere propriamente ad oggetto la determinazione dell’attuale regime giuridico dei terreni in questione, sottoposti ad espropriazione in asserita carenza di un presupposto, e non l’illegittimità del relativo procedimento ablatorio, in quanto eventualmente derivata dall’illegittimità costituzionale delle disposizioni di riferimento;

che, peraltro, il presupposto sulla base del quale il giudice rimettente solleva la questione in esame – che il provvedimento di esproprio abbia, ex se, legittimamente prodotto l’effetto della “sdemanializzazione” – varrebbe da solo ad attestare un suo definitivo e insanabile difetto di giurisdizione;

che, di conseguenza, lo stesso dubita della legittimità costituzionale di disposizioni, come quelle denunciate, delle quali non è chiamato a fare applicazione, essendo invece tenuto, secondo la domanda, a definire il proprio giudizio in relazione alla disciplina prevista in materia di usi civici e sulla base delle regole proprie del sistema di riparto delle giurisdizioni;

che, d’altra parte, una eventuale pronuncia caducatoria risulterebbe, nella situazione di specie, inutiliter data, atteso che l’efficacia delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale, secondo consolidata giurisprudenza anche di questa Corte (sentenza n. 3 del 1996; ordinanze n. 398 del 1989 e n. 365 del 1987), trova un limite nei cosiddetti “rapporti esauriti”, tra i quali dovrebbero intendersi ricompresi anche quelli costituiti sulla base di provvedimenti divenuti inoppugnabili per decorso del termine di decadenza;

che, per queste ragioni, la sollevata questione appare priva di rilevanza e deve, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, essere dichiarata manifestamente inammissibile (ex multis, ordinanze n. 265 e n. 150 del 2008; n. 176 del 2007).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 74 e 75 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione nonché agli articoli 3 e 6 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Commissario regionale per gli usi civici della Regione autonoma della Sardegna, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 136

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 6, della legge della Provincia autonoma di Trento 3 aprile 2009, n. 4 (Norme di semplificazione e anticongiunturali di accompagnamento alla manovra finanziaria provinciale di assestamento per l’anno 2009), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 5-9 giugno 2009, depositato in cancelleria il 12 giugno 2009 ed iscritto al n. 37 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Provincia autonoma di Trento;

udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Luigi Manzi per la Provincia autonoma di Trento.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 5 giugno 2009 e depositato il successivo 12 giugno, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha ritualmente impugnato – per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione – l’art. 3, commi 1 e 6, della legge della Provincia autonoma di Trento 3 aprile 2009, n. 4 (Norme di semplificazione e anticongiunturali di accompagnamento alla manovra finanziaria provinciale di assestamento per l’anno 2009);

che, in particolare, il comma 1 viene censurato in quanto introduce, nella legge della Provincia autonoma di Trento 8 maggio 2000, n. 4 (recante la «Disciplina dell’attività commerciale in provincia di Trento»), l’art. 17-bis, a tenore del quale [al comma 4] l’esercente che voglia effettuare, tra l’altro, vendite promozionali, ne deve dare comunicazione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trento, e per conoscenza al comune competente per territorio;

che, a sua volta, il comma 6 è impugnato nella parte in cui modifica l’art. 20 della medesima legge provinciale n. 4 del 2000, prevedendo una sanzione amministrativa nel caso di mancata comunicazione;

che l’Avvocatura dello Stato sostiene che la previsione, non già di una mera comunicazione, bensì di un vero e proprio obbligo di comunicazione, e la relativa sanzione in caso di inosservanza, contrasterebbe palesemente con la totale liberalizzazione delle vendite promozionali disposte dall’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale»), il quale vieta ogni forma di restrizione di qualunque tipologia di vendita promozionale;

che, in particolare, secondo il ricorrente, le norme impugnate – non incidendo sulla materia commercio, di competenza provinciale, bensì sulla tutela della concorrenza, di spettanza esclusiva dello Stato e sulla quale la Provincia non ha alcuna competenza, ai sensi degli artt. 8 e 9 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) – si pongono in contrasto con quanto sancito dal citato art. 3 del decreto-legge n. 223 del 2006, il quale (con prescrizioni che costituiscono «il naturale effetto dell’inderogabilità della norma, una volta ricondotta la materia all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.») si inserisce nel quadro del descritto processo di modernizzazione, all’evidente scopo di rimuovere i residui profili (soggettivi ed oggettivi) di contrasto della disciplina di settore con il principio della libera concor renza;

che si è costituita la Provincia autonoma di Trento, che ha concluso per la non fondatezza delle sollevate questioni, in quanto le disposizioni censurate – lungi dall’introdurre una forma di autorizzazione preventiva alla vendita – prevedono un mero obbligo di comunicazione, chiaramente funzionale ad assicurare una adeguata conoscenza del fenomeno e non già a limitarlo, né a comprimerlo, dal momento che a tale adempimento non è subordinata alcuna attività valutativa da parte della Amministrazione;

che, pertanto – trattandosi di mera pubblicità-notizia con effetti dichiarativi e non costitutivi – la previsione di tale obbligo di comunicazione (cui si correla logicamente la irrogazione della sanzione in caso di violazione) si configura quale misura di carattere organizzativo inerente allo svolgimento delle attività commerciali, che resta all’interno degli ámbiti assegnati alla competenza provinciale in materia di «commercio», ai sensi dell’art. 9, punto 3, dello statuto;

che, nell’imminenza dell’udienza, la Provincia di Trento ha depositato una memoria illustrativa, evidenziando che l’art. 52, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento – legge finanziaria provinciale 2010), ha modificato la disposizione censurata mediante la eliminazione dell’obbligo di comunicazione preventiva per le vendite pubblicizzate come promozionali, con conseguente venir meno della correlata sanzione per il suo mancato inoltro;

che, in ragione di ciò – considerato che «a quanto consta, nel breve lasso di tempo intercorso fra l’impugnazione governativa (giugno 2009) e la modifica legislativa (dicembre 2009) la predetta norma sospettata di incostituzionalità non ha trovato applicazione sanzionatoria» –, la Provincia autonoma conclude chiedendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere.

Considerato che il Presidente del Consiglio dei ministri impugna il comma 1 dell’art. 3 della legge della Provincia autonoma di Trento 3 aprile 2009, n. 4 (Norme di semplificazione e anticongiunturali di accompagnamento alla manovra finanziaria provinciale di assestamento per l’anno 2009), che introduce, nella legge della Provincia autonoma di Trento 8 maggio 2000, n. 4 (recante la «Disciplina dell’attività commerciale in provincia di Trento»), l’art. 17-bis, a tenore del quale [al comma 4] l’esercente che voglia effettuare, tra l’altro, vendite promozionali, ne deve dare comunicazione alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trento, e per conoscenza al comune competente per territorio; ed impugna, altresì, il comma 6 dello stesso art. 3, che modifica l’art. 20 della citata legge provinciale n. 4 del 2000, prevedendo una sanzione amministrativa nel caso di mancata comunicazione;

che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la previsione di un obbligo di comunicazione, sanzionato in caso di inosservanza, contrasta con la liberalizzazione delle vendite promozionali disposte dall’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 («Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale»), che vieta ogni forma di restrizione a qualunque tipologia di vendita promozionale; e di conseguenza, le norme impugnate non inciderebbero sulla materia «commercio» (di competenza provinciale), ma sulla «tutela della concorrenza» di spettanza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione (sulla quale la Provincia medesima non ha alcuna competenza, ai sensi degli artt. 8 e 9 dello statuto);

che, dalla formulazione del ricorso risulta evidente come le censure mosse alla normativa provinciale de qua si riferiscano propriamente alla incidenza della disciplina impugnata rispetto alle sole vendite promozionali, le quali costituiscono una specie del più ampio genere delle «Vendite presentate al pubblico come occasioni particolarmente favorevoli», oggetto della regolamentazione di cui al Capo VIII-bis, inserito – dall’art. 3, comma 1, della legge provinciale n. 4 del 2009 – dopo l’art. 17 della legge provinciale n. 4 del 2000;

che, peraltro, successivamente alla proposizione del giudizio in via principale, è entrato in vigore l’art. 52, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento – legge finanziaria provinciale 2010), che – al fine espresso di «adeguare la norma provinciale ai rilievi formulati dal Governo statale che impongono una completa liberalizzazione delle vendite promozionali» (come da relazione illustrativa al relativo disegno di legge) – ha a sua volta modificato il comma 4 dell’art. 17-bis della legge provinciale n. 4 del 2000 sul commercio (come introdotto dal censurato comma 1 della legge provinciale n. 4 del 2009), eliminando l’obbligo di comunicazione preventiva per le vendite pubblicizzate come promozionali;

che da ciò – stante il meccanismo di rinvio contenuto nell’art. 20 della citata legge provinciale n. 4 del 2000, come modificato dal censurato comma 6 dell’art. 3 della legge provinciale n. 4 del 2009 – consegue anche il venir meno della correlata sanzione per il mancato inoltro della comunicazione medesima;

che, proprio in ragione di siffatta intervenuta modificazione normativa, satisfattiva delle pretese del ricorrente, la difesa della Provincia autonoma ha richiesto la declaratoria di cessazione della materia del contendere, assumendo inoltre che, medio tempore, la norma sospettata di incostituzionalità non avrebbe «trovato applicazione sanzionatoria»;

che, in sede di discussione in udienza pubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ha convenuto con quanto affermato da controparte circa tale mancata applicazione delle norme impugnate ed ha espressamente concordato in ordine alla cessazione della materia del contendere;

che, dunque – venute meno le ragioni della controversia –, va dichiarata la cessazione della materia del contendere (sentenze n. 2 e n. 1 del 2010; ordinanza n. 75 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 137

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 5, 25, 27, comma 7, 28, comma 1, 31 e 52 della legge della Provincia autonoma di Bolzano del 9 aprile 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2009 e per il triennio 2009-2011 – Legge finanziaria 2009), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 16/19 giugno 2009, depositato in cancelleria il 23 giugno 2009 ed iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2009.

Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 16/19 giugno, depositato il successivo 23 giugno 2009, ha proposto, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, commi primo e secondo, lettere e), l), o), s), della Costituzione, 8, 9, 19 e 89 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) (di seguito, statuto regionale), ed in relazione agli artt. 12 e 13 del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009 (infra, Trattato CE), questione di legittimità costituzionale degli articoli 5 (rectius: art. 5, comma 1), 25 (rectius: art. 25, comma 1), 27, comma 7, 28, comma 1, 31 (rectius: art. 31, commi 2 e 3) e 52 della legge della Provincia autonoma di Bolzano del 9 aprile 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2009 e per il triennio 2009-2011 – Legge finanziaria 2009);

che il citato art. 5, comma 1, ha sostituito l’art. 15 della legge provinciale 21 gennaio 1987, n. 2 (Norme per l’amministrazione del patrimonio della Provincia autonoma di Bolzano), e, ad avviso del ricorrente, ha disciplinato l’acquisizione di immobili attraverso la realizzazione di un’opera pubblica mediante procedure di evidenza pubblica, in violazione della materia «tutela della concorrenza», spettante alla competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e), ponendosi altresì in contrasto con l’art. 4, commi 1 e 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE);

che l’art. 27, comma 7, della legge in esame ha introdotto nella legge provinciale 22 ottobre 1993, n. 17 (Disciplina del procedimento amministrativo e del diritto di accesso ai documenti amministrativi), l’articolo 6-sexies, il quale sarebbe costituzionalmente illegittimo, poiché demanda al regolamento di esecuzione di detta legge la definizione delle modalità di istituzione e di funzionamento delle procedure informatizzate, con particolare riguardo all’abilitazione dei fornitori, riconducibile anch’essa alla materia «tutela della concorrenza», in violazione altresì degli artt. 4, comma 3, ed 85, comma 13, del d.lgs. n. 163 del 2006;

che, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, l’art. 28, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2009 ha inserito nella legge provinciale 17 giugno 1998, n. 6 (Norme per l’appalto e l’esecuzione di lavori pubblici), l’art. 41-bis, avente ad oggetto la disciplina dello «avvalimento», istituto regolamentato dagli artt. 49 e 50 del d.lgs. n. 163 del 2006 e riconducibile alle materie «tutela della concorrenza», ordinamento civile» e «giurisdizione», con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed l), Cost. e degli artt. 8 e 9 dello statuto regionale;

che, ad avviso della difesa erariale, il citato art. 31, commi 2 e 3, ha modificato gli artt. 19, comma 3, lettera b), e 43, comma 1, lettera h), della legge provinciale 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), i quali ora stabiliscono, rispettivamente, una disciplina dell’obbligo di adozione del formulario di identificazione del trasporto di rifiuti e la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile nel caso di mancata, incompleta o inesatta compilazione del formulario dei rifiuti, incidendo in tal modo sulla materia «tutela dell’ambiente», dunque, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e degli artt. 8 e 9 dello statuto regionale;

che l’art. 25, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2009, ha sostituito il comma 2 dell’art. 14 della legge provinciale 23 aprile 1992, n. 10 (Riordinamento della struttura dirigenziale della Provincia autonoma di Bolzano), il quale disciplina la nomina del direttore generale e dei direttori di dipartimento, prevedendo che detti incarichi possano essere conferiti senza alcun limite di età, quindi, secondo il ricorrente, in relazione ad un profilo riconducibile alle materie «ordinamento civile» e «previdenza sociale», ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 97 e 117, secondo comma, lettere l) ed o), Cost., e dell’art. 8 dello statuto regionale;

che, infine, il citato art. 52 ha modificato il comma 5 dell’art. 30-bis della legge provinciale 17 agosto 1976, 36 (Ordinamento delle scuole materne-scuole per l’infanzia), il quale ora dispone che, al fine di poter accedere all’impiego quale insegnante ovvero collaboratore pedagogico e collaboratrice pedagogica, per la scuola dell’infanzia delle località ladine, «si deve attestare l’appartenenza al gruppo linguistico ladino», e, in tal modo, violerebbe gli artt. 3, 97, e 117, primo comma, Cost., in relazione agli articoli 12 e 13 del Trattato CE, nonché gli artt. 8, 9, 19 e 89 dello statuto;

che la Provincia autonoma di Bolzano non si è costituita in giudizio;

che, con atto notificato a controparte in data 21 dicembre 2009, depositato presso la cancelleria di questa Corte il 5 gennaio 2010, il ricorrente ha dichiarato di rinunciare al presente ricorso, in quanto gli artt. 9 e 10 della successiva legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 ottobre 2009, n. 7 (Approvazione del rendiconto generale della Provincia per l’esercizio finanziario 2008 e altre disposizioni), rispettivamente, hanno modificato l’art. 14, comma 2, della legge provinciale n. 10 del 1992, come modificato dall’art. 25 comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2009, ed abrogato le restanti norme impugnate.

Considerato che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, la rinuncia al ricorso determina, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (fra le più recenti, ordinanze n. 92 e n. 70 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

SENTENZA N. 138

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis del codice civile, promossi dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 3 aprile 2009 e dalla Corte d’appello di Trento con ordinanza del 29 luglio 2009, iscritte ai nn. 177 e 248 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione di G. M. ed altro, di E. O. ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, dell’Associazione radicale Certi Diritti, e di C. M. ed altri (fuori termine);

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Alessandro Giadrossi per l’Associazione radicale Certi Diritti e per M. G. ed altro, Ileana Alesso e Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per C. M. ed altri, Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa D’Amico per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per E. O. ed altri e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale di Venezia in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».

Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso dai signori G. M. ed S. G., entrambi di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto del 3 luglio 2008, col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta.

Il funzionario, infatti, ha ritenuto illegittima la pubblicazione, perché in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano «è inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi», come dovrebbe desumersi dall’insieme delle disposizioni che disciplinano l’istituto medesimo, del quale tale diversità «costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto che l’ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti», anche secondo l’orientamento della giurisprudenza. L’atto oggetto dell’opposizione cita anche un parere del Ministero dell’interno, in data 28 luglio 2004, nel quale si legge che «in merito alla possi bilità di trascrivere un atto di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non è previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario all’ordine pubblico»; affermazione ribadita con circolare dello stesso Ministero in data 18 ottobre 2007.

Il Tribunale veneziano richiama gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che nel nostro ordinamento non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del Ministero dell’interno si riferirebbero all’ordine pubblico internazionale e non a quello pubblico interno e, comunque, sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta di Nizza, sicché andrebbero disapplicati. In ogni caso, l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana ed, in particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 di questa.

Il rimettente prosegue osservando che, sulla base di tali argomenti, gli istanti hanno chiesto al Tribunale, in via principale, di ordinare all’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di procedere alla pubblicazione del matrimonio; in via subordinata, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 Cost.

Tanto premesso, il Tribunale di Venezia rileva che, nell’ordinamento vigente, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è né previsto né vietato espressamente. È certo, tuttavia, che sia il legislatore del 1942, sia quello riformatore del 1975 non si sono posti la questione del matrimonio omosessuale, all’epoca ancora non dibattuta, almeno in Italia.

Peraltro, «pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso. Se è vero che il codice civile non indica espressamente la differenza di sesso tra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come “attori” della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)».

Ad avviso del Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme indicate non è possibile, allo stato delle disposizioni vigenti, operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».

D’altra parte, prosegue il rimettente, «non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali».

Secondo il Giudice di Venezia, il primo parametro è quello di cui all’art. 2 Cost., nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non soltanto nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella sua sfera sociale, cioè «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», delle quali la famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale espressione.

Infatti, la famiglia è la formazione sociale primaria nella quale si esplica la personalità dell’individuo e vengono quindi tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona coniugata), che assurge a segno caratteristico all’interno della società e che attribuisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e non sostituibili mediante l’esercizio dell’autonomia negoziale.

Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, artt. 8 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nonché in ambito nazionale (art. 2 Cost.). La libertà di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità, sicché si risolve in una sc elta sulla quale lo Stato non può interferire, se non sussistono interessi prevalenti incompatibili, nella fattispecie non ravvisabili.

L’unico importante diritto, in relazione al quale un contrasto si potrebbe ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai figli, di crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente anche ad un interesse sociale. Tale interesse, tuttavia, potrebbe incidere soltanto sul diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi. Si tratterebbe, però, di un diritto distinto rispetto a quello di contrarre matrimonio, tanto che alcuni ordinamenti, pur introducendo il matrimonio tra omosessuali, hanno escluso il diritto di adozione. In ogni caso, la disciplina di tale istituto nell’ordinamento italiano, ponendo l’accento sulla necessità di valutare l’interesse del minore adottando, rimette al giudice ogni decisione al riguardo.

Il rimettente, poi, prende in esame l’art. 3 Cost., rilevando che, poiché il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come l’orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato d’intervenire in caso d’impedimenti al relativo esercizio.

Pertanto, se la finalità perseguita dall’art. 3 Cost. è quella di vietare irragionevoli disparità di trattamento, la norma implicita che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, così seguendo il proprio orientamento sessuale (non patologico né illegale), non ha alcuna giustificazione razionale, soprattutto se posta a confronto con l’analoga situazione delle persone transessuali che, ottenuta la rettifica dell’attribuzione del sesso ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita (il Tribunale ricorda che la conformità a Costituzione della citata normativa è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 165 del 1985).

Secondo il rimettente, le affermazioni contenute in tale pronuncia ben potrebbero ritenersi applicabili anche agli omosessuali. Comunque, la legge n. 164 del 1982 avrebbe «profondamente mutato i connotati dell’istituto del matrimonio civile, consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare, valorizzando così l’orientamento psicosessuale della persona». In questo quadro, non sarebbe giustificabile la discriminazione tra omosessuali che non vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, ai quali il matrimonio è precluso, ed i transessuali che sono ammessi al matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo incapaci di procreare.

Le opinioni contrarie al riconoscimento della libertà matrimoniale tra persone dello stesso sesso sulla base di ragioni etiche, legate alla tradizione o alla natura, non potrebbero essere condivise, sia per le radicali trasformazioni intervenute nei costumi familiari, sia perché si tratterebbe di tesi pericolose, in passato utilizzate per difendere gravi discriminazioni poi riconosciute illegittime, come le disuguaglianze tra i coniugi nel diritto matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le discriminazioni in danno delle donne.

Del resto, «per i diritti degli omosessuali, così come per quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive».

Il Tribunale di Venezia, in relazione all’art. 29, primo comma, Cost., osserva che il significato della norma non è quello di riconoscere il fondamento della famiglia in una sorta di “diritto naturale”, bensì quello di affermare la preesistenza e l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato, così imponendo dei limiti al potere del legislatore statale, come emerge dagli atti relativi al dibattito svolto in seno all’Assemblea costituente, nel ricordo degli abusi in precedenza compiuti a difesa di una certa tipologia di famiglia.

Peraltro, che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio siano istituti aperti alle trasformazioni, sarebbe dimostrato dall’evoluzione che ne ha interessato la disciplina dal 1948 ad oggi. Il rimettente procede ad una ricognizione della normativa in materia, ricorda gli interventi di questa Corte a tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonché la riforma attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e rileva che il significato costituzionale di famiglia, lungi dall’essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si è al contrario dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico familiare.

Sarebbero prive di fondamento, quindi, le tesi che giustificano l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso ricorrendo ad argomenti correlati alla capacità procreativa della coppia ed alla tutela della procreazione. Al riguardo, sarebbe sufficiente sottolineare che la Costituzione e il diritto civile non prevedono la capacità di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero l’assenza di tale capacità come condizione d’invalidità o causa di scioglimento del matrimonio, sicché quest’ultimo e la filiazione sarebbero istituti nettamente distinti.

Una volta escluso che il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare fondamento nel dettato dell’art. 29 Cost., tale norma, nel momento in cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima, non costituirebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anzi dovrebbe assurgere ad ulteriore parametro in base al quale valutare la costituzionalità del divieto.

Infine, il rimettente richiama l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Richiama al riguardo, quali norme interposte, gli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). In particolare, con riferimento all’art. 8, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe accolto una nozione di “vita privata” e di tutela dell’identità personale non limitata alla sfera individuale bensì estesa alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo intervento degli Stati per rimediare alle lacune suscettibili d’impedire la piena realizzazione personale. È citata la sentenza Goodwin c. Regno Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale con persona del suo stesso sesso originario.

Il Tribunale di Venezia pone l’accento sul fatto che anche la Carta di Nizza sancisce i diritti al rispetto della vita privata e familiare (art. 7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art. 9), a non essere discriminati (art. 21), collocandoli tra i diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli atti delle Istituzioni europee, che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali, ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano, a prescindere dal loro valore giuridico, una presa di posizione a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque alla unificazione legislativa, nell’ambito degli Stati membri, della disciplina dettata per la famiglia legittima, da estendere alle unioni omosessuali (tali atti sono richiamati nell’ordinanza).

Da ultimo, il rimettente rileva che, negli ordinamenti di molte nazioni con civiltà giuridica affine a quella italiana, si va delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il divieto di sposare persone dello stesso sesso è stato rimosso, mentre altri Paesi prevedono istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina analoga a quella del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni relative alla potestà sui figli e all’adozione. Fra i Paesi che ancora non hanno introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto, comprese quelle omosessuali.

Sulla base delle considerazioni esposte, il Tribunale veneziano perviene al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere per pervenire alla decisione della causa.

2. - I signori G. M. e S. G., si sono costituiti nel giudizio di legittimità costituzionale, con ampia memoria depositata il 20 luglio 2009.

Dopo avere esposto i fatti da cui la vicenda prende le mosse ed aver riportato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, le parti private, sottolineata la rilevanza della questione proposta, osservano che il rimettente ha riconosciuto un dato incontrovertibile, cioè che nel vigente ordinamento non sussiste alcun divieto espresso che impedisca a due persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. La necessaria eterosessualità dello stesso nascerebbe da una tradizione interpretativa, sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall’attuale e tramandata in modo tralaticio, anche per i riflessi della disciplina canonistica dell’istituto sul sistema civilistico.

La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non potrebbe essere di ostacolo ad una rivisitazione della fattispecie, come hanno fatto altre Corti costituzionali straniere. Né si potrebbe dedurre che l’eterosessualità sia un carattere indefettibile dell’istituto matrimoniale interpretando l’art. 29 Cost. a partire dalla lettera del codice civile vigente, perché quell’articolo non costituzionalizza i caratteri dell’istituto matrimoniale previsti dalla legge ordinaria o emergenti dalla sua costante interpretazione. Il codice civile sarebbe oggetto e non parametro del giudizio e, in ogni caso, «non potrebbe divenire cifra per leggere il dato costituzionale. Sarebbe, infatti, una petizione di principio affermare che il codice non viola il diritto a contrarre matrimonio ex art. 29 poiché tale disposizione, alla luce del codice stesso, prevede l’unione solo fra persone di sesso diverso. Con un aprioristico rin vio per presupposizione, infatti, si attuerebbe una sovversione della gerarchia delle fonti».

Pertanto, alla luce del principio personalistico che pervade l’intera Carta costituzionale, bisognerebbe individuare il significato delle parole “matrimonio” e “famiglia”, utilizzate nel citato art. 29. Detta norma privilegia la famiglia fondata sul matrimonio. Ad avviso degli esponenti, da ciò deriva che, se nella nostra società anche due persone dello stesso sesso possono formare una famiglia, escluderle dal vincolo matrimoniale non soltanto crea una discriminazione priva di qualsiasi razionalità, ma fa sì che migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato quelle tutele che altrimenti spetterebbero loro in virtù della norma costituzionale.

La fattispecie non sarebbe assimilabile alle unioni di fatto eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale (art. 2 Cost.), perché nelle unioni di fatto vi è una chiara scelta delle parti di non rendere giuridico il progetto di vita che lega i conviventi, mentre per le coppie formate da persone dello stesso sesso tale libertà non sussiste nella misura in cui non possono scegliere se sposarsi oppure no.

Richiamata la nozione di famiglia come “società naturale”, contenuta nell’ordinanza di rimessione, gli esponenti osservano che l’interesse protetto dall’art. 29 Cost. è, in primo luogo, il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, al riparo da indebite ingerenze dello Stato, tutte le volte in cui una persona decida di realizzare se stessa in una relazione familiare. Per le persone omosessuali tale diritto risulterebbe, attualmente, del tutto conculcato.

Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano eletto l’eterosessualità a caratteristica indefettibile della famiglia, i cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall’art. 29 Cost., tanto da escludere dall’ambito applicativo di tale norma le coppie formate da persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che il fenomeno sussistesse anche ai tempi della Assemblea costituente, ma, in quanto socialmente non rilevante, non poteva allora essere preso in alcuna considerazione. Ciò vorrebbe dire che non si è optato per la famiglia eterosessuale a scapito di quella omosessuale, riservando a questa una minore dignità sociale e giuridica.

Tale stato di cose, però, non potrebbe impedire una rilettura del sistema, in considerazione delle mutate condizioni sociali e giuridiche, stante la rilevanza, sotto questo profilo, del diritto comunitario, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., e soprattutto dei principi supremi dell’ordinamento, quali l’eguaglianza (e quindi la non discriminazione) e la tutela dei diritti fondamentali.

Le parti private proseguono osservando che il diritto vivente connota l’istituto matrimoniale di una caratteristica (l’eterosessualità), che l’art. 29 Cost. non suggerisce affatto, così impedendo alle persone omosessuali di godere pienamente della loro cittadinanza e del diritto a realizzare se stesse affettivamente e socialmente nell’ambito della famiglia legittima.

Né sarebbe possibile che “società naturale” sia intesa come luogo della procreazione, in quanto il matrimonio civile non sarebbe più istituzionalmente orientato a tale finalità. Dal 1975 l’impotenza non costituisce causa d’invalidità del matrimonio, se non quando sia materia di errore in cui sia incorso l’altro coniuge (art. 122 cod. civ.). Inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che, avendo cambiato sesso, sono inidonee alla generazione e quelle che, a causa dell’età, tale attitudine più non hanno.

In definitiva, la procreazione sarebbe soltanto un elemento eventuale nel rapporto coniugale e ciò dimostrerebbe quanto lontano sia il concetto di famiglia da accogliere nell’ambito dell’art. 29 Cost. rispetto a quello della tradizione giudaico-cristiana. Il matrimonio sarebbe, senza dubbio, l’unione di due esistenze, i cui fini fondamentali coincidono con i diritti e i doveri che i coniugi assumono al momento della celebrazione in base all’art. 143 cod. civ., fini ai quali è estranea la prospettiva, soltanto eventuale, della procreazione, altrimenti si dovrebbe considerare impossibile la celebrazione di un matrimonio tutte le volte in cui sia naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare.

Gli esponenti passano, poi, a trattare del diritto al matrimonio come diritto fondamentale della persona, richiamando (tra l’altro) la giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato il diritto stesso sia sotto il profilo della libertà di contrarre il matrimonio con la persona prescelta (sentenza n. 445 del 2002), sia sotto quello della libertà di non sposarsi e di unirsi in altro modo (sentenza n. 166 del 1998), e rilevando che i cittadini omosessuali non possono godere di queste due libertà.

Dopo avere illustrato gli aspetti e le finalità di quel diritto, nonché le prospettive correlate al suo esercizio anche nel quadro della tutela delle minoranze discriminate, essi pongono l’accento sull’esigenza che il citato diritto fondamentale sia garantito a tutti senza alcuna distinzione, anche nel caso in cui un cittadino si trovi in quella particolare condizione personale che è l’omosessualità. E ciò non in astratto, secondo la tesi di quanti ritengono che sarebbe rimessa al legislatore ordinario la scelta sull’ammissione o meno al matrimonio delle coppie formate da persone dello stesso sesso. In presenza di un diritto fondamentale spetta alla Corte costituzionale, o al giudice di merito in via interpretativa, rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il godimento a tutti, tanto più se si considera che non si sta parlando di un divieto normativo bensì di una mera prassi interpretativa.

Nel caso in esame, «realizzarsi pienamente come persona significa poter vivere fino in fondo il proprio orientamento sessuale, scegliendo come partner di vita, all’interno di una relazione giuridica qualificata qual è il matrimonio, una persona del proprio sesso».

Pertanto l’interpretazione che esclude le coppie formate da persone dello stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli esponenti, costituisce un limite irragionevole all’esercizio della libertà personale, disconoscendo la capacità della persona di scegliere ciò che è meglio per sé in una dimensione relazionale.

Le parti private richiamano, poi, la tesi secondo cui l’art. 29 Cost. escluderebbe la riconoscibilità giuridica delle coppie omosessuali, anche soltanto attraverso un istituto alternativo al matrimonio, e ne sostengono l’infondatezza, rilevando che il detto articolo non può essere interpretato in modo da violare uno dei principii fondamentali dell’ordinamento costituzionale, ossia il principio di eguaglianza. Dopo avere argomentato diffusamente sul punto, anche in ordine ai profili economici dell’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, gli esponenti osservano che nella nostra società, non più caratterizzata da un’omogeneità sul piano culturale, il principio di eguaglianza deve assumere una dimensione nuova, volta a favorire il pluralismo e l’inclusione sociale. Con tale concezione contrasta un uso del diritto che abbia come effetto di escludere un soggetto dal godimento di un diritto o li bertà fondamentale in virtù di una sua condizione personale. E ciò senza considerare la contemporanea violazione dell’art. 2 Cost., perché in tal modo s’impedisce l’esercizio del diritto alla piena realizzazione di sé.

Inoltre, le parti private pongono l’accento sulla normativa comunitaria e internazionale già richiamata nell’ordinanza di rimessione.

Esse, poi, criticano la tesi secondo cui un giudice, fosse anche la Corte costituzionale, non potrebbe spingersi fino al punto di accogliere la richiesta dei ricorrenti diretta ad ottenere le pubblicazioni matrimoniali sul presupposto del riconoscimento del loro diritto a sposarsi.

Ribadito che si è in presenza di una prassi interpretativa, derivante da elementi testuali della legislazione ordinaria, risalente a ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e che tale prassi contrasta (per quanto detto in precedenza) con norme e principi supremi di rango costituzionale, gli esponenti sostengono che, nel caso in esame, non si tratta di creare un istituto nuovo, o di affermare l’esistenza di un nuovo diritto (operazioni precluse al potere giudiziario), perché il diritto al matrimonio sussiste già ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto fondamentale, ne viene concesso il godimento soltanto alle persone eterosessuali.

Infine, sono richiamati alcuni passaggi argomentativi di Corti straniere, che si sono occupate della tenuta costituzionale, nei rispettivi sistemi, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso.

In chiusura, si chiede a questa Corte di acquisire un’adeguata base informativa sul numero di coppie formate da persone dello stesso sesso, che vivono sul territorio italiano, e sull’impatto dell’attuale prassi interpretativa, che esclude le persone dello stesso sesso dal matrimonio, sul loro benessere psicosociale.

3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 21 luglio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata.

La difesa dello Stato prende le mosse dal rilievo che la normativa riguardante l’istituto del matrimonio, sia quella prevista dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce senz’altro all’unione fra persone di sesso diverso.

Il requisito della diversità del sesso, che si ricava direttamente dall’art. 107 cod. civ., nonché da altre numerose disposizioni dello stesso codice, è tradizionalmente e costantemente annoverato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per l’esistenza del matrimonio. Infatti, ad avviso dell’Avvocatura generale, l’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento si configura come un istituto pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione).

Il richiamo all’art. 2 Cost., operato dal rimettente, non sarebbe decisivo né conferente.

Tale disposto, per costante interpretazione di questa Corte, «deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quando meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (sentenza n. 98 del 1979), tra i quali non sarebbe compresa la pretesa azionata dai ricorrenti nel giudizio a quo.

La collocazione dell’art. 2 Cost. fra i “principi fondamentali” ed invece la collocazione dell’art. 29 nel titolo II tra i “rapporti etico-sociali” costituirebbero non soltanto l’argomentazione testuale, ma anche l’argomentazione più significativa per escludere la fondatezza dell’assunto contenuto nell’ordinanza di rimessione, non essendo ovviamente vietata nel nostro ordinamento la convivenza tra persone dello stesso sesso. Infatti, la dottrina più recente tende a ricondurre la tutela delle coppie omosessuali nell’ambito della tutela delle coppie di fatto.

Non sussisterebbe alcuna violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché questo impone un uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto difformi.

La difesa dello Stato osserva che la dottrina, nel commentare il citato art. 3, ha ritenuto il divieto di discriminazione in base al sesso «in qualche misura meno rigido rispetto ad altri», sia sul piano della correlazione di alcune distinzioni ad obiettive differenze tra i sessi, sia sul piano normativo, nella misura in cui in Costituzione si rinvengono norme idonee a giustificare, entro certi limiti, distinzioni fondate sul sesso, «in particolare, gli articoli 29, 37 e 51».

La dottrina avrebbe anche ritenuto il richiamo al principio di ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3 Cost., non pertinente nel caso in esame, perché un trattamento normativo differenziato potrebbe ritenersi “ragionevole”, in quanto diretto a realizzare altri e prevalenti valori costituzionali.

Neppure sarebbe pertinente il riferimento alla giurisprudenza in tema di illegittime discriminazioni subite in precedenza dalle persone transessuali, perché il problema della “identità di sesso biologico” in quell’ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa.

Quanto all’art. 29 Cost., detta norma, stabilendo che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», delinea una “relazione biunivoca” tra le nozioni in essa richiamate e, altresì, «vincola il legislatore a tenere distinte la disciplina dell’istituzione familiare da quelle eventualmente dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorché avente caratteri analoghi».

Ad avviso dell’Avvocatura, in esito al dibattito sviluppatosi nell’Assemblea costituente in sede di elaborazione dell’art. 29, si sarebbero delineate due ricostruzioni circa il significato di tale norma.

La prima sottolinea il carattere pregiuridico dell’istituto familiare, identificando un solo modello univoco e stabile; la seconda attribuisce all’art. 29 un contenuto mutevole con l’evoluzione dei costumi sociali. Parte della dottrina, invece, ha superato tale dicotomia, ritenendo che la norma faccia riferimento ad un modello di famiglia che, per quanto suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia però caratterizzato “da un nucleo duro”, che trova «il suo contenuto minimo e imprescindibile nell’elemento della diversità di sesso fra i coniugi» e perciò mantiene il significato originario fissato nella Carta, senza mutarlo in maniera differente e distante dall’iniziale formulazione.

Infine, non sarebbe ravvisabile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

La difesa dello Stato premette che l’ordinamento comunitario non ha legiferato in materia matrimoniale, ma si è limitato in varie risoluzioni ad indicare criteri e principi, lasciando ai singoli Paesi membri la facoltà di adeguamento delle legislazioni nazionali.

La libertà lasciata ai legislatori europei ha dato luogo, perciò, a molteplici forme di tutela delle coppie omosessuali.

Non vi sarebbe contrasto con gli artt. 7, 9 e 21 della Carta di Nizza, parte integrante del Trattato di Lisbona, in quanto proprio l’art. 9, che riconosce il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, rinvia alla legge nazionale per la determinazione delle condizioni per l’esercizio di tale diritto.

Per quel che riguarda gli obblighi internazionali e, in particolare, il rispetto della CEDU, la citata normativa del codice civile italiano non appare in contrasto con gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della CEDU, dal momento che proprio l’art. 12 non solo riafferma che l’istituto del matrimonio riguarda persone di sesso diverso, ma rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del relativo diritto.

In definitiva, al di là del carattere eterogeneo dei modelli di riconoscimento adottati dagli Stati europei, l’elemento che li accomuna sarebbe la “centralità del legislatore” nel processo d’inclusione delle coppie omosessuali nell’ambito degli effetti legali delle discipline di tutela.

Peraltro, un intervento della Corte costituzionale di tipo manipolativo non sarebbe realizzabile attraverso un’operazione lessicale di mera sostituzione delle parole “marito” e “moglie”, con la parola “coniugi”, perché in realtà si tratterebbe di operare un nuovo disegno del tessuto normativo codicistico, alla luce di una norma costituzionale che proprio ad esso rimanda; e tale compito sarebbe necessariamente riservato al legislatore.

4. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.

La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso un decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; e il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale.

La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, esamina la questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti.

Dopo aver ricordato l’ordinanza del Tribunale di Venezia, la rimettente osserva che, rispetto all’epoca nella quale sono state emanate le norme disciplinanti il matrimonio, «si è verificata un’inarrestabile trasformazione della società e dei costumi che ha portato al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale ed al contestuale spontaneo sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono (talora a gran voce) di essere tutelate e disciplinate».

In questo quadro, ad avviso della Corte trentina è necessario chiedersi se l’istituto del matrimonio, nell’attuale disciplina, sia o meno in contrasto con i principii costituzionali.

L’interrogativo si porrebbe, in particolare, rispetto al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In sostanza, poiché il diritto di contrarre matrimonio costituisce «un momento essenziale di espressione della dignità umana (garantito costituzionalmente dall’art. 2 Cost. e, a livello sopranazionale, dagli artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, dagli artt. 8 e 12 CEDU e dagli artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), vi è da chiedersi se sia legittimo impedire quello tra omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di intervenire in caso di impedimenti all’esercizio di esso».

Sarebbe innegabile che la questione sia rilevante ai fini della decisione, perché la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme disciplinanti il matrimonio, nella parte in cui non consentono il matrimonio tra omosessuali, influirebbe in modo determinante sull’esito del giudizio a quo.

Inoltre, non si potrebbe sostenere che la questione sia manifestamente infondata, perché «quanto sopra osservato non può essere superato da un’interpretazione secondo cui il matrimonio deve e può essere consentito solo a coppie eterosessuali a ragione della sua funzione sociale, principio secondo taluni ricavabile dall’art. 29 Cost. (norma che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Detto principio, infatti, si limita a riconoscere alla famiglia un suo ruolo naturale, nel senso che da un lato lo Stato non può prescindere da tale realtà sociale a cui tende per natura la stragrande maggioranza degli individui e, dall’altro, afferma che la famiglia è fondata sul matrimonio; ma certo esso non giunge ad escludere la tutela della famiglia di fatto (che prescinde dal matrimonio) o ad affermare la funzione della famiglia come granaio dello Stato».

Ad avviso della rimettente, «l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, molto ben ricordata dal Tribunale di Venezia nell’ordinanza sopra citata, restituisce oggi un concetto di famiglia che porta ad escludere che in forza dell’art. 29 Cost. possa darsi rilevanza solo alla famiglia legittima funzionalmente finalizzata alla capacità procreativa dei coniugi sicché, semmai, è anche in relazione a tale norma di rango costituzionale che la questione sollevata deve essere giudicata meritevole di attenzione da parte del Giudice delle leggi».

5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 3 novembre 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. La difesa dello Stato svolge argomenti analoghi a quelli esposti nel giudizio promosso con l’ordinanza del Tribunale di Venezia.

6. - Si sono altresì costituite, con atto depositato il 2 novembre 2009, le parti private nel giudizio promosso con l’ordinanza della Corte di appello di Trento, signori O. E. e L. L. e signore Z. E. e O. M., dichiarando di ritenere ammissibile e fondata la questione sollevata e chiedendone l’accoglimento.

7. - In quest’ultimo giudizio ha spiegato intervento, con atto depositato il 3 novembre 2009, l’Associazione radicale Certi Diritti, in persona del segretario e legale rappresentante pro-tempore, che, richiamando gli obiettivi statutari dell’Associazione medesima, ha dichiarato di ritenersi legittimata ad intervenire e di ritenere ammissibili e fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Trento, riservandosi ogni ulteriore opportuna illustrazione delle proprie difese e il deposito di ogni eventuale documentazione.

8.- Con atto depositato il 25 febbraio 2010 nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con la citata ordinanza della Corte di appello di Trento, hanno spiegato intervento i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.

Gli intervenienti, tutti di sesso maschile, premettono che, con tre atti in pari data 5 novembre 2009, comunicati con lettere inviate l’11 novembre 2009, l’ufficiale di stato civile del Comune di Milano ha reso noto il rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste.

Essi osservano che l’interesse proprio e diretto ad intervenire è sorto in data successiva alla scadenza degli ordinari termini del giudizio costituzionale e per questo motivo l’atto di intervento è depositato nel termine di venti giorni antecedenti la data dell’udienza fissata per la discussione. Considerato che si tratta di circostanza temporale indipendente dalla volontà dei ricorrenti e comprovata da documenti formati dalla pubblica amministrazione, richiamato per quanto occorra in via analogica il disposto dell’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto tempestivo e chiedono, comunque, di essere rimessi in termini.

Inoltre, essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto ammissibile, alla luce delle innovazioni introdotte dalla Corte costituzionale, che ha espresso negli ultimi anni un orientamento progressivamente favorevole all’ammissibilità, caso per caso, «soprattutto laddove soggetti singoli o associazioni vantassero un rapporto diretto con la questione di legittimità costituzionale in un processo che ha ad oggetto un interesse pubblico: quello alla decisione sulla legittimità costituzionale della legge».

In questo quadro, l’interesse diretto, specifico e concreto degli intervenienti alla pronuncia di questa Corte non potrebbe essere posto in dubbio, perché la declaratoria di fondatezza della questione consentirebbe di ottenere le pubblicazioni di matrimonio già richieste e rifiutate dall’ufficiale di stato civile in base al rilievo dell’inammissibilità, nel vigente ordinamento, di matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Nel merito, gli intervenienti svolgono considerazioni analoghe a quelle già in precedenza richiamate a sostegno della fondatezza della questione.

9. - In prossimità dell’udienza di discussione le parti private nei due giudizi di legittimità costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione radicale Certi Diritti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive richieste.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».

Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso da due persone di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendola in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano, sarebbe incentrato sulla diversità di sesso tra i coniugi.

Il Tribunale veneziano riferisce gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che, nel vigente ordinamento, non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un suo divieto espresso tra persone dello stesso sesso. Essi si richiamano alla Costituzione e alla Carta di Nizza, rimarcando che l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe costituzionalmente illegittima con particolare riguardo agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, e 29 Cost.

Tanto premesso, il rimettente rileva che, nell’ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato in modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una norma definitoria, «l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso». Ad avviso del Tribunale, il chiaro tenore delle disposizioni del codice, regolatrici dell’istituto in questione, non consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».

D’altra parte, secondo il Tribunale non si possono ignorare le rapide trasformazioni della società e dei costumi, il superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la nascita spontanea di forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i princìpi costituzionali.

Ciò posto, il Tribunale di Venezia, prendendo le mosse dal rilievo che il diritto di sposarsi costituisce un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale ed in ambito nazionale (art. 2 Cost.), illustra le censure riferite ai diversi parametri costituzionali evocati, pervenendo al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione promossa, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere al fine di pervenire alla decisione della causa.

2. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.

La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’articolo 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso il decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; ed il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale.

La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, passa all’esame della questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti, svolgendo, in relazione alle censure prospettate, considerazioni analoghe a quelle esposte dal Tribunale di Venezia.

3. - I due giudizi di legittimità costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

4. - In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell’Associazione radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. Ciò in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato nell’ordinanza, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, t itolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del detto giudizio di legittimità.

5. - La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., deve essere dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002).

6. - Le dette ordinanze muovono entrambe dal presupposto che l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può menzionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile.

In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale veneziano.

Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976).

7. - Ferme le considerazioni che precedono, si deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata (con eventuale applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.

8. - L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.

Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.

Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.

9. - La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.

Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».

La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).

Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.

Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto con iugale.

Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.

Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.

Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.

In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.

Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non è pertinente.

La normativa ora citata – sottoposta a scrutinio da questa Corte che, con sentenza n. 161 del 1985, dichiarò inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale all’epoca promosse – prevede la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (art. 1).

Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella omosessuale e, perciò, inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l’esigenza fondamentale da soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto è indispensabile, di regola, l’intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a realizzare tale coincidenza (sentenza n. 161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto). La persona è ammessa al matrimonio per l’avvenuto intervento di modificazione del sesso, autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel vigente ordinamento.

10. - Resta da esaminare il parametro riferito all’art. 117, primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell’ordinanza del Tribunale di Venezia).

Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiarò contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l’operazione) con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l’analogia della fattispecie con quella del ma trimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare, l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti Stati, aventi civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali.

Ciò posto, si deve osservare che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea non è pertinente, perché essa riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, già si è notato che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.

Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».

A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».

In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati».

Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrim oniale a unioni tra persone dello stesso sesso».

Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.

Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.

Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.

Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi:

a) dichiara inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le ordinanze indicate in epigrafe;

b) dichiara non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del codice civile sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

Allegato:

ordinanza letta all'udienza del 23 marzo 2010

ORDINANZA

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza della Corte di appello di Trento depositata il 29 luglio 2009 (n. 248 R.O. del 2009);

rilevato che in tale giudizio è intervenuta l'Associazione Radicale Certi Diritti, in persona del Segretario e legale rappresentante p.t., con atto depositato il 3 novembre 2009;

che nel medesimo giudizio sono intervenuti, con atto depositato il 25 febbraio 2010, i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z., tutti di sesso maschile;

che né l'Associazione Radicale, né i signori di cui all'intervento in data 25 febbraio 2010 sono stati parti nel giudizio a quo;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale), le sole parti del giudizio principale, mentre l'intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all'udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008, n. 245 del 2007; ordinanza n. 414 del 2007);

che l'ammissibilità dell'intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l'accesso delle parti a detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo;

che, pertanto, sia l'intervento dell'Associazione Radicale Certi Diritti sia quello spiegato con l'atto depositato il 25 febbraio 2010 devono essere dichiarati inammissibili, indipendentemente dal carattere tardivo di quest'ultimo (ordinanza n. 119 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili gli interventi dell'Associazione Radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente