Deposito del 22/10/2010 (dalla 299 alla 302)

 
S.299/2010 del 18/10/2010
Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Artt. 1, c. 1°e 2°, lett. h) e 3°, 2, 3, 4, c. 4°, 5, c. 1°, lett. a) e b), 6, c. 1°, lett. b) e c), 10, c. 5° e 6°, 13, 14 e 15 della legge della Regione Puglia 04/12/2009, n. 32.

Oggetto: Straniero - Norme della Regione Puglia - Interventi volti a garantire l'accesso degli stranieri ai servizi socio-assistenziali, socio-sanitari, all'abitazione, all'istruzione, alla formazione professionale, nonché il diritto di difesa e la partecipazione alla vita pubblica locale - Estensione anche agli stranieri immigrati privi di regolare permesso di soggiorno - Contrasto con la disciplina statale dell'ingresso e soggiorno degli stranieri; Norme per "l'accoglienza, la convivenza civile e l'integrazione degli immigrati" - Applicabilità, qualora più favorevoli, anche ai cittadini neocomunitari - Contrasto con la disciplina statale dell'ingresso e soggiorno degli stranieri; Cura degli stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all'ingresso e al soggiorno, e dei cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultino assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l'iscrizione al SSR e che versano in condizioni di indigenza - Contrasto con la disciplina statale sull'assistenza sanitaria per gli stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale; Politiche di inclusione sociale dei detenuti stranieri - Interventi diretti a rimuovere gli ostacoli che limitano l'accesso agli istituti previsti dall'ordinamento in alternativa o in sostituzione della pena detentiva nonché ai perme ssi premio; Proclamato concorso della Regione all'attuazione della Convenzione internazionale per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie - Convenzione non ratificata dall'Italia.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 20/2010
S.300/2010 del 18/10/2010
Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Artt. 1, c. 1°, lett. e), 2, 4 e 5 della legge della Regione Basilicata 13/11/2009, n. 37 e allegati A, B e C

Oggetto: Professioni - Norme della Regione Basilicata - Disciplina della f igura professionale di autista soccorritore, abilitato, tra l'altro, a collaborare con gli altri operatori sanitari nell'intervento di emergenza sanitaria sul territorio e nell'attuazione delle procedure e norme di sicurezza - Lamentata attribuzione di funzioni riservate ai professionisti sanitari dalla legge statale, con individuazione di fatto di una nuova professione sanitaria - Contrasto con il principio fondamentale che riserva allo Stato l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 7/2010
S.301/2010 del 18/10/2010
Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica 19/02/2009.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale nei confronti del senatore Raffaele Iannuzzi, imputato del reato di cui all'art. 595, commi 1, 2 e 3, cod. pen. (diffamazione aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato e dall'avere recato offesa col mezzo della stampa) nei confronti dei magistrati Giancarlo Caselli, Gioacchino Natoli, Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte - Deliberazione di insindacabilità del Senato della Repubblica.

Dispositivo: accoglie il ricorso
Atti decisi: confl. pot. mer. 5/2009
S.302/2010 del 18/10/ 2010
Udienza Pubblica del 06/10/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 1, c. 251°, della legge 27/12/2006, n. 296.

Oggetto: Demanio e patrimonio dello Stato e delle Regioni - Criteri per la determinazione dei canoni annui per concessioni rilasciate o rinnovate con finalità turistico-ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio marittimo - Disciplina delle concessioni comprensive di pertinenze demaniali marittime - Applicazione, a decorrere dal 1° gennaio 2007, per le pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi, di un canone risultante dalla riduzione percentuale di un importo ottenuto attraverso la moltiplicazione della superficie complessiva del manufatto per la media dei valori mensili unitari minimi e massimi indicati dall'Osservatorio del mercato immobi liare per la zona di riferimento, e per un coefficiente pari a 6,5 - Ricorso cautelare di società concessionaria di area demaniale avverso nota comunale recante la determinazione del maggior canone dovuto per l'anno 2007 in applicazione dei suddetti criteri di calcolo.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 229/2009

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pronuncia successiva

SENTENZA N. 299

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1, 2, lettera h), e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c), 10, commi 5 e 6; 13; 14 e 15, comma 3, della legge Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 5/11 febbraio 2010, depositato in cancelleria l’11 febbraio 2010 ed iscritto al n. 20 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia;

udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giuseppe Tucci e Nicola Colaianni per la Regione Puglia.

Ritenuto in fatto

1.- Con ricorso notificato il 5/11 febbraio 2010, depositato l’11 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), della Costituzione, ed in relazione agli articoli 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1, 2, lettera h), e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 10, commi 5 e 6; 13; 14 e 15, comma 3, della legge della Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia del 7 dicembre 2009, n. 196.

2.- Il ricorrente premette che la legge della Regione Puglia n. 32 del 2009 reca norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati e, all’art. 1, dispone che la Regione: «concorre alla tutela dei diritti dei cittadini immigrati presenti sul territorio regionale, attivandosi per l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutte le persone» (comma 1); realizza politiche regionali finalizzate a garantire i diritti inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale e, tra l’altro, a «a) garantire i diritti umani inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale», «c) garantire l’accoglienza e l’effettiva inclusione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati nel territorio regionale», «d) garantire pari opportunità di accesso e fruibilità dei servizi socio-assistenziali, socio-s anitari, di conciliazione e dell’istruzione, per la qualità della vita», «e) promuovere la partecipazione alla vita pubblica locale», «h) garantire la tutela legale, in particolare l’effettività del diritto di difesa, agli immigrati presenti a qualunque titolo sul territorio della Regione» (comma 3).

Il successivo art. 2 prevede, genericamente, gli «immigrati» quali destinatari degli interventi previsti dalla legge regionale; l’art. 3 stabilisce che, allo scopo di perseguire le finalità di cui all’art. 1, comma 3, la Regione promuove la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per la piena integrazione degli immigrati, orientato agli obiettivi prioritari indicati in detta norma.

L’art. 4, comma 4, attribuisce alla Giunta regionale le funzioni attinenti, tra l’altro, alla promozione di programmi in materia di protezione e inclusione sociale (lettera a), alla promozione di programmi di intervento per l’alfabetizzazione e l’accesso ai servizi educativi, per l’istruzione e la formazione professionale, per l’inserimento lavorativo e il sostegno ad attività autonome imprenditoriali, favorendo la piena integrazione istituzionale, programmatica, finanziaria e organizzativa per la realizzazione di tali interventi a livello regionale (lettera c), alla promozione di iniziative di sostegno alla realizzazione dei progetti di vita degli immigrati (lettera e).

L’art. 5, comma 1, della legge in esame disciplina i compiti delle Province, ai fini dell’inserimento sociale degli immigrati, disponendo che esse svolgono le seguenti funzioni: partecipare alla definizione e attuazione dei piani di zona previsti dalla legge Regione Puglia 10 luglio 2006, n. 19 (Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini in Puglia), in materia di interventi sociali rivolti ai cittadini stranieri immigrati, con compiti di coordinamento, monitoraggio e supporto ai Comuni per la definizione di specifici interventi sovra-ambito di valenza provinciale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri (lettera a); favorire la consultazione e la partecipazione alla vita sociale e istituzionale e l’esercizio dei diritti politici da parte degli immigrati (lettera b). Analoghi obiettivi sono fissati quali compiti dei Comuni dall’art. 6, comma 1, lette re a) e b) (recte: lettere b e c), della legge regionale n. 32 del 2009.

Il citato art. 10 disciplina l’assistenza sanitaria disponendo, al comma 5, che «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno».

L’art. 13 della legge in esame, concernente la formazione professionale, dispone che «gli immigrati, compresi i richiedenti asilo, hanno diritto alla formazione professionale in condizioni di parità con gli altri cittadini», mentre l’art. 14 prevedrebbe analogo diritto in riferimento all’inserimento lavorativo.

L’art. 15 della legge regionale n. 32 del 2009, avente ad oggetto le politiche di inclusione sociale, stabilisce che la Regione Puglia «si impegna a riservare, all’interno del piano regionale delle politiche sociali, specifica attenzione alle condizioni di vita e alle opportunità di integrazione e di inclusione sociale per gli immigrati».

Secondo il ricorrente, siffatte norme prevedono una serie di interventi volti, tra l’altro, a garantire l’accesso ai servizi, socio-assistenziali, socio-sanitari, all’abitazione, all’istruzione, alla formazione professionale, nonché il diritto di difesa, garantendo altresì la partecipazione alla vita pubblica locale, indicando i destinatari degli stessi, in modo generico, negli «immigrati» (art. 2 comma 1), ovvero nei «cittadini immigrati presenti sul territorio regionale» (art. 1 comma 1), oppure negli stranieri «presenti a qualunque titolo sul territorio della regione» (art. 1, comma 3, lettere a) ed h).

La lettera delle disposizioni, in considerazione della genericità delle locuzioni adottate e della circostanza che altre norme della legge regionale in esame (quali, ad esempio, gli artt. 10, commi 2 e 3; 14, comma 1; e 17, comma 1) si riferiscono espressamente ai «cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nella regione», indurrebbe a ritenere che detti interventi riguardino anche gli immigrati privi di regolare permesso di soggiorno. Tuttavia, l’ingresso, la permanenza e l’espulsione dei cittadini stranieri sono stati compiutamente disciplinati dal d.lgs. n. 286 del 1998 e, quindi, le norme regionali impugnate si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali da questo stabiliti, in particolare, negli artt. 4, 5, 10, 11, 13 e 14, concernenti l’illegittimità del soggiorno degli immigrati irregolari e la disciplina del respingimento, dell’espulsione e della detenzione nei centri di identificazione ed espulsione, nonch é con l’art. 10-bis (introdotto dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica»), il quale configura come reato la condotta dello straniero che faccia ingresso o si trattenga nel territorio dello Stato, in violazione delle norme di detto decreto legislativo.

Dunque, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, le norme regionali impugnate violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in relazione alle materie «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini non appartenenti all’Unione Europea» e dell’«immigrazione», nonché lettere h) e l), Cost., poiché «disciplinano e in qualche modo agevolano la permanenza sul territorio nazionale di cittadini extracomunitari», i quali «non solo non avrebbero titolo a soggiornare ma, una volta sul territorio nazionale, dovrebbero essere perseguiti penalmente». Peraltro, gli artt. 19 e 35 del d.lgs. n. 286 del 1998 prevedono alcune deroghe a detta disciplina che, costituendo misure eccezionali, sarebbero tassative ed insuscettibili di applicazione per analogia.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la Regione non potrebbe emanare norme in detti ambiti e, comunque, non potrebbe prevedere interventi diretti al riconoscimento, ovvero all’estensione di diritti in favore dell’immigrato irregolare o in attesa di regolarizzazione e neppure stabilire, mediante «regimi di deroga non previsti dalla normativa statale, casi diversi ed ulteriori di non operatività della regola generale ovvero la condizione di illegittimità e di autore di reato dell’immigrato irregolare». Il d.lgs. n. 286 del 1998 attribuisce, infatti, alcuni compiti alle Regioni, ferma la competenza esclusiva dello Stato per tutto quanto attiene al controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, con la conseguenza che la Regione non potrebbe emanare norme che, agevolando il soggiorno sul territorio nazionale da parte di immigrati irregolari, influiscono su detti profili.

2.1.- Il ricorrente deduce, inoltre, distintamente, l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge regionale in esame, il quale, disponendo che le norme della stessa «si applicano, qualora più favorevoli, anche ai cittadini neocomunitari», disciplinerebbe una materia attribuita alla competenza dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., concernente i «rapporti dello Stato con l’Unione europea».

La previsione della norma impugnata era, infatti, già contenuta nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, sostituito dall’art. 37, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il quale ora dispone: «Il presente testo unico non si applica ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, salvo quanto previsto dalle norme di attuazione dell’ordinamento comunitario».

2.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., l’art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale in esame, avente ad oggetto la disciplina dell’assistenza sanitaria, esponendo che il comma 5 dispone che «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno»; il comma 6 stabilisce che «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative».

Ad avviso del ricorrente, siffatta norma si porrebbe in contrasto con il principio stabilito dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, in virtù del quale «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate» unicamente «le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva».

La disposizione in esame violerebbe, quindi, la competenza regionale in materia di tutela della salute, nella parte in cui fa riferimento a prestazioni sanitarie ulteriori rispetto a quelle strettamente essenziali, indicate dalla disciplina statale, quali, ad esempio, l’erogazione dell’assistenza farmaceutica con oneri a carico del Servizio sanitario nazionale (SSN) e la previsione della libera scelta del medico di base (art. 10, comma 5, lettere b e c).

2.3.- Il ricorrente censura, altresì, l’art. 15, comma 3, della legge regionale in esame, il quale stabilisce che, «d’intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Regione programma interventi diretti a rimuovere gli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti previsti dall’ordinamento in alternativa o in sostituzione della pena detentiva, nonché ai permessi premio ex articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come inserito dall’articolo 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 e da ultimo modificato dall’articolo 2, comma 27, lettera b), della legge 15 luglio 2009, n. 94».

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, non sarebbe chiaro cosa debba intendersi per «interventi diretti alla rimozione degli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti» sopra indicati e, comunque, la norma concernerebbe l’ordinamento penitenziario, riconducibile all’ordinamento penale, materia di competenza dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera 1), Cost., disciplinata dalla legge n. 354 del 1975.

2.4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri deduce, infine, l’illegittimità costituzionale del citato art. 1, comma 2, lettera h), il quale dispone che la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, concorre all’attuazione, in particolare, dei principi espressi «dalla Convenzione internazionale per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie, approvata il 18 dicembre 1990 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 1° luglio 2003».

A suo avviso, poiché tale Convenzione non è stata ancora ratificata dallo Stato, detta norma violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la materia «politica estera e rapporti internazionali».

3.- Nel giudizio si è costituita la Regione Puglia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro-tempore, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, che le questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.

La Regione, dopo avere sintetizzato il contenuto delle norme impugnate e delle censure proposte dal ricorrente, sostiene che la legge regionale in esame non attribuirebbe agli stranieri, in particolare a quelli irregolarmente presenti nel nostro Paese, diritti incompatibili con la condizione giuridica fissata dal legislatore statale, ma sarebbe diretta ad agevolare la realizzazione dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione e dalle leggi statali, stabilendo finalità che concernono anche detti stranieri «solo se e nella misura in cui […] possono realizzarsi nel rispetto della vigente disciplina migratoria», come è reso chiaro dalla clausola di compatibilità recata dall’art. 2, comma 4, di detta legge. Le norme impugnate mirano, quindi, a coordinare interventi riconducibili a materie di competenza regionale (istruzione, tutela della salute, tutela e sicurezza del lavoro, promozione ed attività culturale), che possono riguar dare anche cittadini non italiani.

In riferimento ai richiedenti asilo, dopo avere sintetizzato la relativa disciplina, la Regione deduce che gli interventi che li riguardano concernerebbero esclusivamente quelli di essi che sono titolari di un permesso che permette lo svolgimento di attività lavorativa, mentre interventi in favore degli stranieri sono previsti anche dalla legge regionale n. 19 del 2006, che non ha costituito oggetto d’impugnazione.

Ad avviso della Regione, la competenza dello Stato nelle materie «condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» ed «immigrazione» non escluderebbe il potere delle Regioni di emanare norme che, in ambiti riservati alla loro competenza, possono avere quali destinatari anche cittadini non italiani. D’altronde, l’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilendo che nelle materie attribuite alla competenza delle Regioni le disposizioni di detto decreto legislativo costituiscono «principi fondamentali», conforterebbe siffatta conclusione, peraltro affermata anche da questa Corte (sentenze n. 300 del 2005 e n. 379 del 2004).

3.1.- Secondo la resistente, l’esame delle singole censure deve tenere conto che la legge regionale di cui si tratta richiama i diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione (art. 1, comma 1), dispone che la Regione Puglia opera nell’osservanza delle proprie competenze (art. 1, comma 2), ed è stata emanata all’esito di una lunga ed articolata concertazione con le altre istituzioni, con le parti sociali e con le organizzazioni sindacali. A suo avviso, molte delle attività previste dalle norme impugnate, quali «quelle connesse alle prestazioni sanitarie, quelle connesse all’area penale esterna, quelle afferenti all’area della formazione professionale», sarebbero strumentali alle competenze regionali, tenuto conto anche che nei centri di permanenza e negli istituti penitenziari sono svolte attività non riconducibili soltanto all’ordine pubblico o alla sicurezza, in relazione alle quali sussis te almeno un «interesse regionale», riconosciuto dall’art. 118, terzo comma, Cost., che demanda ad una legge dello Stato la previsione di «forme di coordinamento» per queste materie.

La legge regionale in esame costituirebbe lo strumento per il recepimento delle modifiche introdotte nel d.lgs. n. 286 del 1998 e, appunto per questo, l’art. 2, comma 4, della medesima, dispone che «gli interventi regionali sono attuati in conformità al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», con previsione rilevante nell’interpretazione delle disposizioni in essa contenute.

In riferimento alla denunciata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost., l’infondatezza delle censure conseguirebbe alla circostanza che la tutela dei diritti fondamentali, sino a quando non siano attuati il respingimento o l’espulsione, non comporta un’agevolazione della permanenza irregolare.

La Regione Puglia si sofferma, poi, ad esaminare l’ipotesi di reato prevista dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 e deduce che «l’obbligo di persecuzione penale non è affatto indefettibile» e che la norma prevedrebbe «una pena priva di effettività». In ogni caso, a suo avviso, le misure di tutela previste dalle disposizioni impugnate con il primo motivo «non esonerano dall’obbligo di denuncia dell’ipotesi di reato e quindi non sono incompatibili con la persecuzione penale». La resistente prospetta, infine, che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 violerebbe gli artt. 3, 25 e 27 Cost., chiedendo che, qualora detta norma sia ritenuta rilevante ai fini della decisione delle censure, la Corte ne sollevi davanti a sé questione di legittimità costituzionale, nella parte in cui, in violazione di detti parametri costituzionali, prevede come reato l’ingresso ed il soggiorno illegale dello stranie ro nel territorio dello Stato.

3.2.- In riferimento alle censure concernenti specificamente il comma 1 dell’art. 2 della legge regionale in esame, la resistente deduce che detta norma avrebbe «inteso evitare “discriminazioni a rovescio”», e la diminuzione delle garanzie in favore dei cittadini comunitari, di cui questi godevano come cittadini extracomunitari, che sarebbe stata, invece, realizzata dall’art. 37, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che ha modificato l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, il quale ora stabilisce che «il presente testo unico non si applica ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, salvo quanto previsto dalle norme di attuazione dell’ordinamento comunitario», ha abrogato quella che era «una vera e propria clausola di protezione».

La Regione Puglia, «in via incidentale e ad ulteriore supporto della legittimità costituzionale», della norma regionale in esame, «solleva questione di legittimità costituzionale» del citato art. 37, comma 2, in riferimento al principio di ragionevolezza» (art. 3 Cost.).

3.3.- La Regione, nell’esaminare le censure concernenti il citato art. 10, commi 5 e 6, svolge un’ampia esposizione relativa anche a norme non impugnate dal ricorrente.

In particolare, in relazione ai commi 1 e 2 di detta norma, la Regione deduce che gli artt. 34 e 35 del d.lgs. n. 286 del 1998 e gli artt. 42 e 43 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) disciplinano l’assistenza sanitaria in favore dei cittadini non italiani che soggiornano nel territorio dello Stato – prevista anche a garanzia della collettività e dell’incolumità dei cittadini italiani – distinguendo tra quelli iscritti e non iscritti al SSN, ovvero che fanno ingresso nel nostro Paese per ragioni di cura. In riferimento all’art. 10, comma 3, della legge regionale in esame, avente ad oggetto l’iscrizione volontaria al Servizio sanitario re gionale (SSR), ricorda che le norme statali prevedono che gli stranieri non obbligatoriamente iscritti al Servizio sanitario nazionale (SSN) sono tenuti ad assicurarsi contro il rischio di malattia ed infortunio e per la maternità (art. 34, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, art. 42, comma 6, del d.P.R. n. 394 del 1999).

Il citato art. 10, comma 5, individua, invece, «le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno»; il comma 6, dispone che «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative attraverso l’attribuzione del codice ENI (europeo non in regola)», prevedendo che «le modalità per l’attribuzione del codice ENI e per l’accesso alle prestazioni, sono le medesime innanzi individuate per gli STP».

Gli artt. 35, commi 3, 4, 5 e 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 43, commi 2, 3, 4, 5 ed 8 del d.P.R. n. 394 del 1999 disciplinano l’assistenza sanitaria in favore degli stranieri non in regola con le norme in materia di ingresso e soggiorno, ai quali sono, altresì, applicabili le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

Secondo la Regione Puglia, l’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 394 del 1999 dispone che, in sede di prima erogazione dell’assistenza, la prescrizione e la registrazione delle prestazioni sono effettuate, assegnando un codice regionale, identificato con la sigla STP (straniero temporaneamente presente), mentre l’art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilisce che l’accesso alle strutture del SSN da parte dello straniero non in regola con la disciplina in materia di ingresso e soggiorno in Italia non deve comportare nessuna segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza, salvo i casi nei quali sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano, divieto di segnalazione non abrogato a seguito dell’introduzione del reato dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998. Infine, a suo avviso, la disposizione relativa all’attribuzione del codice ENI (europeo non in regola) sareb be stata introdotta per ottemperare alle indicazioni fornite dal Ministero della salute con nota del 19 febbraio 2008, che richiedeva la definizione di idonee procedure dirette a garantire le «cure essenziali» anche ai cittadini europei presenti sul territorio.

3.4.- Secondo la resistente, le censure concernenti l’art. 15, comma 3, della legge regionale in esame, sarebbero infondate, poiché tale norma non interferirebbe nella materia «ordinamento penale», ma prevedrebbe soltanto «che la Regione, nell’ambito dei propri poteri d’indirizzo e nei limiti delle proprie competenze programmatorie, individua, d’intesa con le autorità competenti sul territorio, le modalità organizzative più idonee alla gestione di alcuni servizi sul territorio».

3.5.- La Regione Puglia deduce, infine, l’infondatezza delle censure riferite all’art. 1, comma 2, lettera h), della legge regionale n. 32 del 2009, osservando, in primo luogo, che tale norma fa «espresso riferimento al limite della competenza regionale»; in secondo luogo, che la Convenzione oggetto della medesima non è richiamata dettagliatamente, dato che la disposizione si limita a fare riferimento ai «principi» nella stessa contenuti, già recepiti nel nostro ordinamento, sia in quanto compresi nel diritto internazionale consuetudinario, oggetto di adattamento automatico, ai sensi dell’art. 10 Cost., sia in quanto coincidono «con altri obblighi internazionali convenzionali e, in particolare, con la Convenzione OIL» e con il protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico dei migranti, sottoscritta a Palermo il 12-15 dicembre 2000. In pa rticolare, l’art. 16 di detto protocollo obbliga gli Stati a fornire un’assistenza adeguata ai migranti la cui vita o incolumità è in pericolo, in quanto oggetto delle condotte dell’art. 6. In definitiva, l’obbligo di fornire tale assistenza sarebbe conforme all’art. 117, primo comma, Cost., che impone alle Regione di esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, come sarebbe accaduto nel caso in esame.

3.6.- La Regione Puglia, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica ha reiterato le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione, deducendo, altresì, che questa Corte, con la sentenza n. 269 del 2010 ha dichiarato in parte inammissibili, in parte infondate, le censure aventi ad oggetto alcune norme della legge della Regione Toscana 9 giugno 2009, n. 29 (Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana), sostanzialmente coincidenti con quelle in esame.

A suo avviso, la legge regionale in esame non attribuisce agli stranieri, tantomeno a quelli irregolari, diritti incompatibili con la condizione giuridica loro delineata dal legislatore statale, ma mira soltanto ad agevolare la realizzazione dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione e dalle altre norme statali. Le finalità stabilite dalle norme censurate sono, quindi, riferibili agli stranieri irregolari soltanto nella misura in cui i relativi interventi siano realizzabili nel rispetto della disciplina in materia di immigrazione, come risulta dall’art. 2, comma 4, della legge regionale, in esame, in virtù del quale «gli interventi regionali sono attuati in conformità al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modifiche».

4.- All’udienza pubblica, il ricorrente e la resistente hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 5/11 febbraio 2010, depositato l’11 febbraio 2010, ha promosso, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), della Costituzione, ed in relazione agli articoli 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1, 2, lettera h), e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 10, commi 5 e 6; 13; 14 e 15, comma 3, della legge della Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia del 7 dicembre 2009, n. 196.

2.- Il ricorrente, con un primo gruppo di censure, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 10, comma 5; 13 e 14 della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009 (benché siano menzionati anche l’art. 10, comma 5, e l’art. 15, tuttavia, la prima norma, unitamente al comma 6, è stata impugnata specificamente soltanto con le distinte censure sintetizzate di seguito nel paragrafo 2.1.; la seconda ha, invece, costituito oggetto di impugnazione limitatamente al comma 3, con le censure esaminate infra, nel paragrafo 4.1.).

In linea preliminare, il Presidente del Consiglio dei ministri sintetizza il contenuto delle norme e deduce che, in virtù del citato art. 1, la Regione: «concorre alla tutela dei diritti dei cittadini immigrati presenti sul territorio regionale, attivandosi per l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutte le persone» (comma 1); realizza politiche regionali finalizzate a garantire i diritti inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale e, tra l’altro, a «a) garantire i diritti umani inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale», «c) garantire l’accoglienza e l’effettiva inclusione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati nel territorio regionale», «d) garantire pari opportunità di accesso e fruibilità dei servizi socio-assistenziali, socio-sanitari, di conciliazione e dell’istruzione, per la qualità della vita», «e) promuovere la partecipazione alla vita pubblica locale», «h) garantire la tutela legale, in particolare l’effettività del diritto di difesa, agli immigrati presenti a qualunque titolo sul territorio della Regione» (comma 3).

A suo avviso, l’art. 2 indica genericamente gli «immigrati», quali destinatari degli interventi previsti dalla legge regionale, mentre l’art. 3 stabilisce che, allo scopo di perseguire le finalità di cui all’art. 1, comma 3, la Regione promuove «la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per la piena integrazione degli immigrati in Puglia». L’art. 4, comma 4, attribuisce, poi, alla Giunta Regionale le funzioni attinenti, tra l’altro: alla promozione di programmi in materia di protezione e inclusione sociale (lettera a); alla promozione di programmi di intervento per l’alfabetizzazione e l’accesso ai servizi educativi, per l’istruzione e la formazione professionale, per l’inserimento lavorativo e il sostegno ad attività autonome imprenditoriali, favorendo la piena integrazione istituzionale, programmatica, finanziaria e organizzativa per la realizzazione di tali interventi a livello regionale (lettera c); alla promozione di iniziative di sostegno alla realizzazione dei progetti di vita degli immigrati (lettera e).

Il citato art. 5, comma 1, lettere a) e b), disciplina i compiti delle Province, ai fini dell’inserimento sociale degli immigrati, disponendo che esse svolgono le seguenti funzioni: partecipare alla definizione e attuazione dei piani di zona previsti dalla legge Regione Puglia 10 luglio 2006, n. 19 (Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini in Puglia), in materia di interventi sociali rivolti ai cittadini stranieri immigrati, con compiti di coordinamento, monitoraggio e supporto ai Comuni per la definizione di specifici interventi sovra-ambito di valenza provinciale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri (lettera a); favorire la consultazione e la partecipazione alla vita sociale e istituzionale e l’esercizio dei diritti politici da parte degli immigrati (lettera b).

L’art. 6, comma 1, lettere a) e b) (recte: art. 6, comma 1, lettere b) e c), giacché, nonostante il riferimento nella parte motiva del ricorso alle lettere a) e b), le prime sono indicate nella premessa di tale atto ed è a queste che il ricorrente ha chiaramente inteso fare riferimento, in armonia con l’indicazione contenuta in tal senso nella delibera del Consiglio dei ministri, che ha disposto l’impugnazione), della legge regionale in esame disciplina i compiti affidati ai Comuni al fine di favorire la consultazione e la partecipazione alla vita sociale e istituzionale e l’esercizio dei diritti politici, in ambito comunale o zonale, da parte degli immigrati, e di programmare e realizzare progetti di integrazione dei medesimi.

L’impugnato art. 10 disciplina l’assistenza sanitaria disponendo, al comma 5, che «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno»; l’art. 13, concernente la formazione professionale, stabilisce, invece, che «gli immigrati, compresi i richiedenti asilo, hanno diritto alla formazione professionale in condizioni di parità con gli altri cittadini» e l’art. 14 prevedrebbe analogo diritto in riferimento all’inserimento lavorativo.

Il ricorrente deduce, infine, che l’art. 15 della legge regionale in esame, avente ad oggetto le politiche di inclusione sociale, dispone che la Regione si impegna a riservare, all’interno del piano regionale delle politiche sociali, specifica attenzione alle condizioni di vita e alle opportunità di integrazione e di inclusione sociale per gli immigrati.

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, dette norme violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., nonché i principi fondamentali enunciati dagli artt. 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35, del d.lgs. n. 286 del 1998. A suo avviso, la formula lessicale, in particolare, dei citati artt. 1, commi 1 e 3, lettere a) ed h), e 2, comma 1, indurrebbe, infatti, a ritenere che gli interventi ivi previsti riguardano anche gli immigrati privi di regolare permesso di soggiorno, poiché «disciplinano e in qualche modo agevolano la permanenza sul territorio nazionale di cittadini extracomunitari», i quali «non solo non avrebbero titolo a soggiornare ma, una volta sul territorio nazionale, dovrebbero essere perseguiti penalmente». Inoltre, la Regione non potrebbe predisporre «interventi volti al riconoscimento o all’estensione di diritti in favore dell’immigrato irregolare o in attesa di regolarizzazione» e ne ppure stabilire, mediante «regimi di deroga non previsti dalla normativa statale, casi diversi ed ulteriori di non operatività della regola generale ovvero la condizione di illegittimità e di autore di reato dell’immigrato irregolare».

2.1.- Il ricorrente impugna, poi, distintamente anche l’art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale in esame, svolgendo censure che vanno esaminate congiuntamente con quelle dianzi sintetizzate.

Siffatta disposizione ha ad oggetto la disciplina dell’assistenza sanitaria e stabilisce: «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno» (comma 5); «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative» (comma 6).

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la norma recherebbe vulnus all’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., ponendosi in contrasto con il principio fissato dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, in virtù del quale «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate» unicamente «le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva». Siffatta disposizione, in violazione della competenza regionale in materia di tutela della salute, farebbe, infatti, riferimento a prestazioni sanitarie ulteriori rispetto a quelle strettamente essenziali, indicate dalla disciplina statale, quali, ad esempio, l’erogazione dell’assistenza farmaceutica con oneri a carico del Servizio sanitario nazionale e la previsione della libera scelta del medico di base.

2.2.- In via preliminare, la sintesi del primo gruppo di censure rende palese che il ricorrente, dopo avere trascritto, in parte, le disposizioni regionali con esse impugnate, ne ha dedotto l’illegittimità costituzionale esclusivamente in quanto, a suo avviso, esse sarebbero applicabili (soprattutto in virtù della formula lessicale dei citati artt. 1, commi 1 e 3, lettere a ed h e 2, comma 1) «anche ai cittadini stranieri privi di regolare permesso di soggiorno», i quali «non solo non avrebbero titolo a soggiornare, ma, una volta sul territorio nazionale, dovrebbero essere perseguiti penalmente». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, dette norme violerebbero i parametri evocati, poiché «incidono sulla disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli immigrati» e prevedono «interventi volti al riconoscimento o all’estensione di diritti in favore dell’immigrato irregolare o in attesa di regolarizzazione».

Pertanto, benché tali norme regolino molteplici e non omogenei interventi – quali, tra gli altri, quelli diretti a «garantire l’accoglienza e l’inclusione sociale» degli immigrati e la loro «partecipazione alla vita pubblica locale (art. 1, comma 3, lettere c ed e) – riconducibili a differenti ambiti materiali, le uniche specifiche censure proposte riguardano dette disposizioni esclusivamente nella parte in cui sarebbero riferibili agli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, nonché l’art. 1, comma 3, lettera h), e ciò in virtù dell’ampio riferimento al parametro dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.; conseguentemente, è soltanto entro questi termini e limiti che esse possono qui costituire oggetto di scrutinio.

2.2.1.- Identificato l’ambito del sindacato al quale vanno sottoposte le disposizioni impugnate, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve essere riconosciuta la possibilità di interventi legislativi delle Regioni con riguardo al fenomeno dell’immigrazione, per come previsto dall’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, fermo restando che «tale potestà legislativa non può riguardare aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, ma altri ambiti, come il diritto allo studio o all’assistenza sociale, attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle Regioni» (sentenza n. 134 del 2010). L’intervento pubblico concernente gli stranieri non può, infatti, limitarsi al controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stessi sul territorio nazionale, ma deve necessariamente considerare altri ambiti – dall ’assistenza sociale all’istruzione, dalla salute all’abitazione – che coinvolgono molteplici competenze normative, alcune attribuite allo Stato, altre alle Regioni (sentenze n. 156 del 2006, n. 300 del 2005).

Lo straniero è «titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona» (sentenza n. 148 del 2008). Inoltre, esiste «un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto». Quest’ultimo diritto deve perciò essere riconosciuto «anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso» (sentenza n. 252 del 2001).

Il legislatore statale, con il d.lgs. n. 286 del 1998, ha recepito tale impostazione, statuendo, in relazione all’assistenza sanitaria, soprattutto all’art. 35, comma 3, che «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presìdi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva», assicurando altresì la tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane, la tutela della salute del minore, le vaccinazioni, gli interventi di profilassi internazionale, la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive ed eventualmente bonifica dei relativi focolai. L’art. 43, commi da 2 ad 8, del d.P.R. n. 394 del 1999, disciplina, in dettaglio, le modalità di erogazione delle prestazioni previste dal citato art. 35, comma 3, disponendo, al comma 8, che «le regioni individuano le modalità più opportune per garantire che le cure essenziali e continuative previste dall’articolo 35, comma 3, del testo unico, possono essere erogate nell’ambito delle strutture della medicina del territorio o nei presìdi sanitari, pubblici e privati accreditati, strutturati in forma poliambulatoriale od ospedaliera, eventualmente in collaborazione con organismi di volontariato aventi esperienza specifica».

Questa Corte, nello scrutinare le norme di una legge regionale che pure facevano riferimento alla tutela di diritti fondamentali degli immigrati, eventualmente non in regola con il permesso di soggiorno, ha, quindi, escluso che esse rechino vulnus alle competenze legislative dello Stato, poiché, «in attuazione dei principi fondamentali posti dal legislatore statale in tema di tutela della salute», esse provvedono «ad assicurare anche agli stranieri irregolari le fondamentali prestazioni sanitarie ed assistenziali atte a garantire il diritto all’assistenza sanitaria, nell’esercizio della propria competenza legislativa, nel pieno rispetto di quanto stabilito dal legislatore statale in tema di ingresso e soggiorno in Italia dello straniero, anche con riguardo allo straniero dimorante privo di un valido titolo di ingresso» (sentenza n. 269 del 2010).

2.2.2.- Nel quadro di tali principi, la questione concernente il citato art. 1, comma 3, lettera h), è fondata.

La norma stabilisce, infatti, che le politiche della Regione sono finalizzate, tra l’altro, «a garantire la tutela legale, in particolare l’effettività del diritto di difesa, agli immigrati presenti a qualunque titolo sul territorio della regione». Siffatta disposizione contempla, dunque, un intervento che, in considerazione dell’univoco riferimento allo scopo di «garantire la tutela legale» e «l’effettività del diritto di difesa», concerne, all’evidenza, aspetti entrambi riconducibili all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., parametro evocato in modo ampio, ma congruamente, dal ricorrente. Peraltro, questa conclusione si impone anche in riferimento alla disciplina del diritto di difesa dei non abbienti, che le norme statali contemplano in riferimento al processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, garantendolo anche allo straniero e all’a polide residente nello Stato (artt. 74 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia»). Pertanto, neppure in relazione a questo profilo la norma è riconducibile ad un ambito materiale di competenza regionale (in particolare, a quello dei servizi e dell’assistenza sociale), con conseguente illegittimità costituzionale della medesima.

2.2.3.- Le questioni aventi ad oggetto il primo gruppo di censure e le altre norme indicate nel paragrafo 2 non sono fondate.

L’art. 1 della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009 (senza, peraltro, considerare la lettera h), del comma 3, sopra esaminata) è, infatti, la sola di dette disposizioni che, unitamente all’art. 10, comma 5 (esaminato di seguito), contiene un generico richiamo alla «tutela dei diritti dei cittadini immigrati presenti sul territorio regionale» (comma 1) e menziona esplicitamente gli stranieri «presenti a qualunque titolo sul territorio regionale» (comma 3, lettera a), quindi, è univocamente riferibile anche a quelli di essi non in regola con il permesso di soggiorno. Tuttavia, la prima norma fa a questi riferimento allo scopo di stabilire che le politiche della Regione, evidentemente nell’ambito delle proprie competenze, devono «garantire i diritti umani inviolabili» (art. 1, comma 3, lettera a), i quali, come sopra precisato, spettano anche agli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno, sino a quando nei loro confro nti non sia emesso ed eseguito un provvedimento di espulsione, senza che ciò valga a legittimarne la presenza nel territorio dello Stato, oppure ad incidere sull’eventuale esercizio dell’azione penale per il reato di cui all’art. 10-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, qualora ne sussistano i presupposti.

La circostanza che i citati artt. 1, commi 1 e 3, lettera a), e 10, comma 5, sono le uniche disposizioni impugnate a fare univoco riferimento agli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, permette, dunque, di escludere che la generica definizione di «immigrati» contenuta nelle altre norme impugnate le renda ad essi riferibili. Inoltre, la previsione contenuta nell’art. 2, comma 1, della legge regionale in esame, in virtù della quale i «destinatari» della medesima «sono di seguito indicati come immigrati», contrariamente alla deduzione del ricorrente, neppure può dare adito a dubbi. La norma, nello stesso comma, nel periodo immediatamente precedente, esplicita, infatti, quali siano i soggetti cui è riferibile detta accezione e tra questi non sono compresi gli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno; i quali sono, invece, espressamente contemplati dalle disposizioni sopra richiamate. Pertanto, è chiara l̵ 7;infondatezza della sola specifica censura proposta dal ricorrente in relazione a dette norme, concernente l’asserita applicabilità degli interventi dalle stesse previsti anche agli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, oltre quanto eventualmente reso necessario per garantire la tutela dei diritti fondamentali.

2.2.4.- La questione avente ad oggetto l’art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale in esame, proposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., non è fondata.

Il comma 5 garantisce, infatti, «l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno» nell’osservanza dei principi sopra indicati e delle norme statali di principio; peraltro, la disposizione ciò stabilisce, richiamando espressamente l’art. 48, comma 3, del d.P.R. n. 394 del 1999 (comma 5) e chiaramente prevedendo l’erogazione dell’assistenza farmaceutica in relazione appunto a tali prestazioni (lettera b). Inoltre, è immune dai vizi denunciati anche la lettera c) di tale comma, che contempla la facoltà di scelta del «medico di fiducia», poiché, indipendentemente dalla mancata indicazione da parte del ricorrente del principio fondamentale stabilito dalle norme statali in tema di «tutela della salute» che sarebbe leso dalla disposizione, essa, in coerenza con la previsione contenuta nella prima parte del comma 5, deve essere interpretata nel senso che una tale scelta, in ogni caso, non esclude la limitazione dell’accesso dello straniero alle sole cure essenziali e continuative.

Ad identica conclusione deve pervenirsi in ordine al comma 6 di detta norma regionale, il quale dispone: «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative attraverso l’attribuzione del codice ENI (europeo non in regola). Le modalità per l’attribuzione del codice ENI e per l’accesso alle prestazioni, sono le medesime innanzi individuate per gli STP» (comma 6). Al riguardo, va altresì aggiunto che la previsione risulta sostanzialmente conforme all’interpretazione offerta dal Ministero della Salute, il quale, a chiarificazione della disciplina concernente i cittadini comunitari, «che si trovano sul territorio dello Stato, [e] non risultano assistiti dagli Stati di provenienza e non hanno i requisiti per l’iscriz ione al SSN», ha indicato che l’armonizzazione delle norme del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri) «con le norme di principio dell’ordinamento italiano che sanciscono la tutela della salute e garantiscono cure gratuite agli indigenti (art. 32 Cost.)» comporta che «i cittadini comunitari hanno diritto alle prestazioni indifferibili ed urgenti» (nota del 19 febbraio 2008, avente ad oggetto «Precisazioni concernenti l’assistenza sanitaria ai cittadini comunitari dimoranti in Italia»).

In definitiva, la norma impugnata disciplina la materia della tutela della salute, per la parte di competenza della Regione, nel rispetto di quanto stabilito dal legislatore statale in ordine alla situazione dei soggetti sopra indicati.

Le censure riferite all’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost., con riguardo alle materie «ordine pubblico e sicurezza» ed «ordinamento penale», sono, infine, inammissibili, in quanto l’impugnazione, in relazione a tali parametri, non è suffragata da alcuna argomentazione (tra le più recenti, sentenza n. 200 del 2010).

2.2.5.- L’infondatezza delle censure comporta, indipendentemente da ogni altra considerazione, l’irrilevanza nel presente giudizio della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (e ciò anche in relazione alla questione che è stata accolta per la violazione di un parametro rispetto al quale tale norma non assume rilievo), proposta in linea subordinata dalla Regione, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 Cost.; quindi, difettano i presupposti, perché questa Corte possa eventualmente sollevarla davanti a se stessa.

3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, inoltre, distintamente, della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, nella parte in cui stabilisce che le norme di detta legge «si applicano, qualora più favorevoli, anche ai cittadini neocomunitari». A suo avviso, la disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., poiché la disciplina della condizione giuridica del cittadino comunitario sarebbe riconducibile alla materia «rapporti dello Stato con l’Unione europea», di competenza esclusiva dello Stato. Inoltre, essa si porrebbe in contrasto con il principio stabilito dall’art. 1, comma 2, del d.l.gs. n. 286 del 1998 che, nel testo modificato dall’art. 37 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pu bblica e la perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n.133, stabilisce: «Il presente testo unico non si applica ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, salvo quanto previsto dalle norme di attuazione dell’ordinamento comunitario».

3.1.- La questione proposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., non è fondata.

Il legislatore statale, con il d.lgs. n. 30 del 2007, ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento CEE n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE), concernente il diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari, stabilendo i criteri relativi al diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea, relativi al riconoscimento in favore dei medesimi di una serie di prestazioni relative a diritti civili e sociali. Siffatti criteri devono essere armonizzati con le norme dell’ordinamento costituzionale italiano che garantiscono la tutela della s alute, assicurano cure gratuite agli indigenti, l’esercizio del diritto all’istruzione, ed attengono a prestazioni concernenti la tutela di diritti fondamentali, spettanti ai cittadini neocomunitari in base all’art. 18 del TFUE (già art. 12 del Trattato CE), che impone sia garantita, ai cittadini comunitari che si trovino in una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione europea, la parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro.

Alla luce di detto principio, questa Corte, nello scrutinare le censure mosse ad una norma regionale avente contenuto sostanzialmente identico a quella in esame, ha, quindi, escluso che essa violi la competenza legislativa statale in materia di rapporti con l’Unione europea (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.), in quanto si limita «ad assicurare anche ai cittadini neocomunitari quelle prestazioni ad essi dovute nell’osservanza di obblighi comunitari e riguardanti settori di propria competenza, concorrente o residuale, riconducibili al settore sanitario, dell’istruzione, dell’accesso al lavoro ed all’edilizia abitativa e della formazione professionale» (sentenza n. 269 del 2010).

La disposizione impugnata è, quindi, immune dai vizi denunciati, poiché si inserisce in un quadro normativo volto a favorire la piena integrazione anche dei cittadini neocomunitari, presupposto imprescindibile per l’attuazione delle disposizioni comunitarie in materia di cittadinanza europea.

Le censure riferite all’art. 117, secondo comma, lettere b), h) ed l), Cost., sono, infine, inammissibili, in quanto, in relazione a tali parametri, l’impugnazione non è suffragata da alcuna argomentazione.

L’infondatezza delle censure concernenti il citato art. 2, comma 1, comporta il difetto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, nel testo modificato dal d.lgs. n. 112 del 1998, proposta in linea subordinata dalla Regione, in riferimento all’art. 3 Cost., con conseguente insussistenza dei presupposti affinché questa Corte possa eventualmente sollevarla davanti a se stessa.

4.- Il ricorrente impugna poi l’art. 15, comma 3, della legge regionale in esame, in virtù del quale, «d’intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Regione programma interventi diretti a rimuovere gli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti previsti dall’ordinamento in alternativa o in sostituzione della pena detentiva, nonché ai permessi premio ex articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come inserito dall’articolo 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 e da ultimo modificato dall’articolo 2, comma 27, lettera b), della legge 15 luglio 2009, n. 94».

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, detta norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera 1), Cost., in quanto non sarebbe chiaro cosa debba intendersi per «interventi diretti alla rimozione degli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti» sopra indicati e, in ogni caso, la norma eccederebbe le competenze regionali, poiché concernerebbe l’ordinamento penitenziario, riconducibile all’ordinamento penale, materia di competenza dello Stato, disciplinata dalla legge n. 354 del 1975.

4.1.- La questione non è fondata.

Il ricorrente desume dall’asserita oscurità dell’inciso sopra riportato la possibile incidenza della norma regionale sulla materia «ordinamento penale». La formula lessicale del comma impugnato e la considerazione che il citato art. 15 ha ad oggetto, come espressamente indicato dalla rubrica, le «politiche di inclusione sociale», rendono, invece, palese che tale disposizione prevede – univocamente ed esclusivamente – che la Regione, nell’ambito dell’assistenza e dei servizi sociali, spettante alla competenza legislativa residuale della medesima (sentenza n. 10 del 2010), può approntare le misure assistenziali materiali, strumentali a garantire le condizioni necessarie (quali, esemplificativamente, la disponibilità di un alloggio), affinché gli immigrati possano accedere alle misure alternative alla detenzione che, a seguito della dichiarazione parziale di illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge n. 354 del 1975 (sentenza n. 78 del 2007), possono, eventualmente, essere concesse anche agli stranieri extracomunitari entrati illegalmente nel territorio dello Stato, ovvero privi del permesso di soggiorno.

La norma non interviene in nessun punto e modo sulla disciplina e sui presupposti di dette misure. Inoltre, stabilisce che la stessa programmazione degli interventi necessari per rimuovere le condizioni che potrebbero impedire l’accesso alle medesime deve essere effettuata d’intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e, quindi, dispone che la Regione debba conformarsi alle esigenze di tale organo, senza neppure prevedere alcun onere di collaborazione a carico di quest’ultimo.

5.- Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, infine, della illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera h), della legge Regione Puglia n. 32 del 2009, il quale dispone che la «Regione concorre, nell’ambito delle proprie competenze, all’attuazione, in particolare, dei principi espressi», tra l’altro, «dalla Convenzione internazionale per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie, approvata il 18 dicembre 1990 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 1° luglio 2003». A suo avviso, poiché detta Convenzione non è stata ancora ratificata dall’Italia, la norma impugnata violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., il quale attribuisce la materia «politica estera e rapporti internazionali» alla competenza esclusiva dello Stato.

5.1.- La questione è fondata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’attività delle Regioni volta all’attuazione ed all’esecuzione di accordi internazionali deve muoversi all’interno del quadro normativo contrassegnato dall’art. 117, quinto comma, Cost., e dalle norme della legge 5 giugno 2003, n. 131, recante «Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3» (sentenza n. 12 del 2006; siffatto parametro è stato implicitamente, ma chiaramente evocato dal ricorrente). I «rapporti internazionali» e la «politica estera» (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) sono, poi, rispettivamente, «riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento» ed alla «attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità ed al suo indirizzo» (sentenze n. 258 e n. 131 del 2008; n. 211 del 2006 ). Inoltre, le Regioni, nelle materie di propria competenza, «provvedono direttamente all’attuazione ed all’esecuzione degli accordi internazionali», nel rispetto delle norme di procedura stabilite dall’art. 3 della legge n. 131 del 2003.

Questa Corte ha anche già affermato che le Regioni non possono dare esecuzione ad accordi internazionali indipendentemente dalla legge di ratifica, quando sia «necessaria ai sensi dell’art. 80 della Costituzione, anche perché in tal caso l’accordo internazionale è certamente privo di efficacia per l’ordinamento italiano», e nel caso in cui non siano riconducibili a quelli stipulati in forma semplificata e che intervengano in materia regionale (sentenza n. 379 del 2004), riguardando invece, come nella specie, molteplici profili eccedenti le competenze delle Regioni. Ed è questo quanto stabilisce la norma in esame, la quale, in violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, prevede di dare esecuzione alla citata Convenzione, benché non sia stata ancora ratificata.

La lettera della disposizione impugnata e l’ampio – generico e sostanzialmente indefinito – riferimento all’attuazione dei principi espressi dalla Convenzione, «alla luce del generale canone ermeneutico del “legislatore non ridondante”» (sentenza n. 226 del 2010), rendono, infine, palese che, contrariamente alla deduzione della Regione, neppure è possibile offrirne un’interpretazione restrittiva, ritenendo che essa renderebbe applicabili esclusivamente le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, primo comma, Cost.), con conseguente illegittimità costituzionale della medesima.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 2, lettera h), e 3, lettera h), della legge della Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia);

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere b), h) ed l), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10, commi 5 e 6, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere h) ed l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 3, lettere da a) a g) e da i) ad l); 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 13 e 14 della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposte, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), della Costituzione, ed in relazione agli articoli 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10, commi 5 e 6, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a) e b), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 15, comma 3, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 300

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’intera legge della Regione Basilicata 13 novembre 2009, n. 37 (Norme in materia di riconoscimento della figura professionale di autista soccorritore), e, in particolare, degli artt. 1, comma l, lettera e), 2, 4, 5, e degli allegati A, B e C, della medesima promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso spedito per la notifica il 14 gennaio 2010, depositato in cancelleria il 19 gennaio 2010 ed iscritto al n. 7 del registro ricorsi 2010.

Udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

udito l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 14 gennaio 2010 e depositato il successivo 19 gennaio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’intera legge della Regione Basilicata 13 novembre 2009, n. 37 (Norme in materia di riconoscimento della figura professionale di autista soccorritore), e, in particolare, degli artt. 1, comma l, lettera e), 2, 4, 5, e degli allegati A, B e C, della medesima, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Il ricorrente, al fine di motivare la richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale dell’intera legge citata, ritiene necessario, in primo luogo, descriverne il contenuto.

La Regione Basilicata, con la legge n. 37 del 2009, ha inteso disciplinare la figura professionale di autista soccorritore. In particolare, l’art. 1 descrive l’autista soccorritore come l’operatore tecnico che, a seguito di specifica formazione professionale, provvede alle attività di conduzione dei mezzi di soccorso sanitario, manutenzione del veicolo di soccorso, conoscenza di tutti i presidi sanitari a bordo, esperienza di comunicazione radio, collaborazione nell’intervento di emergenza sanitaria sul territorio e attuazione delle procedure e norme di sicurezza.

Il successivo art. 2 prevede che la formazione professionale dell’autista soccorritore sia di competenza della Regione e che, sulla base del fabbisogno del servizio sanitario regionale, siano dalla Giunta regionale stabiliti i corsi di formazione professionale, i requisiti per l’accesso, l’organizzazione didattica, le materie di insegnamento ed il tirocinio per ottenere l’attestato di qualifica, come specificato nell’allegato C della legge.

L’art. 3 dispone che l’autista soccorritore presti la propria attività sul terreno regionale alle dipendenze delle aziende sanitarie ed ospedaliere o di enti pubblici o privati, oltre che a favore delle associazioni di volontariato.

L’art. 4, rubricato «contesto relazionale», specifica che l’autista soccorritore svolge la propria attività in collaborazione con gli altri operatori sanitari.

I1 successivo art. 5 specifica le attività e le competenze dell’autista soccorritore, rimandando, per una più compiuta descrizione, agli allegati A e B, da considerare parte integrante della legge.

L’allegato A contiene l’elenco delle principali attività dell’autista soccorritore, articolate in tre categorie generali, a loro volta specificate in una serie di sottopunti, consistenti in: «Conduzione del mezzo di soccorso», «Supporto al personale responsabile della prestazione sanitaria e agli altri operatori dell’equipaggio, in interventi di urgenza-emergenza» e «Supporto gestionale, organizzativo e formativo».

L’allegato B specifica le principali competenze dell’autista soccorritore, mentre l’allegato C indica le materie di insegnamento relative alla figura professionale di autista soccorritore.

L’Avvocatura dello Stato, così descritta la legge regionale, ritiene che la stessa violi l’art. 117, terzo comma, Cost., perché attribuisce all’autista soccorritore funzioni riservate ai professionisti sanitari, ridefinendo, con le attribuzioni delle funzioni di «soccorritore», il profilo professionale dell’autista ed individuando, di fatto, una nuova professione sanitaria non prevista dalla legislazione statale.

Pertanto, a parere del ricorrente, l’intera legge regionale n. 37 del 2009 si porrebbe in contrasto con il principio più volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo il quale l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed i titoli abilitanti, per il suo carattere necessariamente unitario, è riservata allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni solo la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (sono citate le sentenze n. 93 del 2008, n. 300 del 2007, nn. 40, 153, 423, 424 del 2006, nn. 319 e 355 del 2005 e n. 353 del 2003). Principio recepito anche dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della L. 5 giugno 2003, n. 131).

Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche, a dimostrazione del suo assunto, singole disposizioni della legge in esame. In particolare l’art. 1, comma 1, lettera e), che prevede che l’autista soccorritore svolga attività di «collaborazione nell’intervento di emergenza sanitaria sul territorio nelle varie fasi del suo svolgimento», e l’art. 4, che dispone che lo svolgimento di tale attività debba avvenire «in collegamento funzionale e in collaborazione con gli altri operatori sanitari professionalmente preposti all’intervento di soccorso». A parere dell’Avvocatura dello Stato, le citate disposizioni illegittimamente equiparano l’autista soccorritore ai professionisti sanitari.

Il medesimo motivo di censura è rivolto al combinato disposto dell’art. 5 e dell’allegato A, punto 1, lettere e) ed f), della legge regionale n. 37 del 2009, che prevede, tra le attività e le competenze dell’autista soccorritore, la possibilità che egli si occupi del «mantenimento delle funzioni vitali» e ponga in essere le «procedure diagnostiche e la stabilizzazione del paziente», di fatto autorizzando detto operatore a porre in essere attività a carattere sanitario che esulano dai compiti attribuiti alla figura professionale dell’autista e afferiscono in maniera inequivocabile alle competenze delle professioni sanitarie.

Il ricorrente lamenta anche che lo stesso Allegato A, al punto 2), stabilisca, che, in assenza di personale sanitario, l’autista soccorritore «svolge anche funzioni di capo equipaggio». In tal modo la legge regionale legittimerebbe la possibilità che, in situazioni di emergenza caratterizzate dalla necessità di prestare soccorso, sia inviata una squadra diretta dall’autista soccorritore.

Anche il combinato disposto dell’Allegato B, lettera i), e dell’art. 5 della legge regionale n. 37 del 2009 attribuirebbe all’autista soccorritore competenze proprie dei professionisti sanitari, prevedendo che egli debba riconoscere «le principali alterazioni delle funzioni vitali attraverso la rilevazione di sintomi e segni fisiologici».

Infine, il combinato disposto dell’Allegato C e dell’art. 2 della legge regionale n. 37 del 2009, disciplinando la formazione dell’autista soccorritore, ricomprende tra le materie di insegnamento «principi di anatomia e fisiologia del sistema nervoso, degli apparati respiratori, locomotorio e cardiocircolatorio; elementi di patologia generale [...] traumatologia e trattamento delle lesioni da trauma ed elementi di tossicologia».

A parere della parte ricorrente, l’insegnamento di tali materie di studio, seppure utile a fini di cultura generale, sarebbe ultroneo ai fini della formazione dell’autista soccorritore, al quale non può essere attribuita alcuna competenza in merito.

Sulla base di tali considerazioni la difesa del Presidente del Consiglio ritiene che l’intera legge regionale n. 37 del 2009 ecceda dalla competenza concorrente attribuita dall’art. 117, terzo comma, Cost., alla Regione in materia di «professioni» e di «tutela della salute», perché definisce il profilo professionale dell’autista-soccorritore ed individua, di fatto, una nuova professione sanitaria, in contrasto con i principi più volte affermati dalla Corte costituzionale.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’intera legge della Regione Basilicata 13 novembre 2009, n. 37 (Norme in materia di riconoscimento della figura professionale di autista soccorritore), soffermandosi, in particolare, sul contenuto degli artt. 1, comma l, lettera e), 2, 4, 5, e degli allegati A, B e C, della medesima, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Secondo il ricorrente, la legge impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto, disciplinando ex novo la figura professionale dell’autista soccorritore, non prevista dalla legislazione statale, e attribuendo a tale figura funzioni riservate ai professionisti sanitari, eccederebbe i limiti della competenza regionale nella materia delle professioni, di competenza concorrente, violando i principi fondamentali previsti dalla normativa statale. In subordine, la medesima censura è rivolta alle singole disposizioni sopra citate.

2.– In via preliminare, va riconosciuta l’ammissibilità della presente questione, benché la stessa abbia per oggetto l’intera legge regionale.

La legge in esame, infatti, consta di sette articoli (il settimo, peraltro, meramente accessorio essendo relativo alla pubblicazione sul bollettino regionale) tutti aventi un oggetto omogeneo: vale a dire la regolamentazione della figura professionale dell’autista soccorritore.

Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale «è inammissibile l’impugnativa di una intera legge ove ciò comporti la genericità delle censure che non consenta la individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità, mentre ammissibili sono le impugnative contro intere leggi caratterizzate da normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure» (da ultimo, si vedano le sentenze n. 201 del 2008, n. 238 e n. 22 del 2006, n. 359 del 2003).

3.– La questione è fondata.

Questa Corte ha più volte affermato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera dei singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale. Da ciò deriva che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali» (sentenza n. 153 del 2006, nonché, ex plurimis, sentenze n. 57 del 2007 e n. 424 del 2006).

La legge in esame istituisce la figura professionale dell’autista soccorritore (art. 1) e ne disciplina il percorso di formazione, rimettendo ad un regolamento della Giunta regionale la regolamentazione e l’organizzazione dei corsi di formazione professionale per ottenere il titolo abilitativo (art. 2).

Inoltre, tra i compiti e le funzioni attribuiti alla nuova figura professionale ve ne sono alcuni riconducibili direttamente allo svolgimento di professioni sanitarie, come la «capacità di riconoscere le principali alterazioni alle funzioni vitali attraverso la rilevazione di sintomi e di segni fisiologici», e «la conoscenza delle procedure da adottare in caso di TSO (trattamento sanitario obbligatorio)» (allegato B e art. 5), o come il supporto al personale responsabile della prestazione sanitaria e agli altri operatori dell’equipaggio, in caso di interventi di urgenza/emergenza per «la liberazione delle vie aeree, il mantenimento della temperatura corporea, il mantenimento delle funzioni vitali e la defibrillazione effettuata a mezzo DAE (defibrillatore semiautomatico esterno)» o per «le procedure diagnostiche e la stabilizzazione del paziente sul luogo dell’evento» (allegato A e art. 5).

L’art. 1 della legge 1° febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali), prevede che «sono professioni sanitarie infermieristiche, ostetriche, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2001, n. 251 [...] i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione».

Pertanto, la legge regionale censurata, istituendo la figura di autista soccorritore e regolandone il percorso formativo diretto al conseguimento del relativo attestato di qualifica, nonché attribuendole compiti e funzioni riconducibili direttamente allo svolgimento di professioni sanitarie, non rispetta il limite imposto dall’art. 117, terzo comma, Cost. in materia di professioni, secondo il quale l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato (sentenza n. 179 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Basilicata 13 novembre 2009, n. 37 (Norme in materia di riconoscimento della figura professionale di autista soccorritore).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

SENTENZA N. 301

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 19 febbraio 2009 relativa all’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse da Raffaele Iannuzzi, senatore all’epoca dei fatti, nei confronti del dott. Giancarlo Caselli ed altri, promosso dal Tribunale ordinario di Milano – sezione VIII penale, con ricorso notificato il 18 novembre 2009, depositato in cancelleria il 7 dicembre 2009 ed iscritto al n. 5 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2009, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica;

udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

udito l’avvocato Giovanni Pitruzzella per il Senato della Repubblica.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale ordinario di Milano, nel corso di un procedimento penale per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa a carico di Raffaele Iannuzzi, senatore all’epoca dei fatti, con ricorso del 7 aprile 2009, pervenuto nella cancelleria di questa Corte il 16 aprile 2009, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in relazione alla deliberazione adottata il 19 febbraio 2009 (doc. IV-ter, n. 6), con la quale è stato dichiarato, su conforme proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, che i fatti per i quali è in corso l’indicato procedimento debbono ritenersi insindacabili ai sensi dell’articolo 68 della Costituzione, costituendo opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni di parlamentare.

Il ricorrente, nel riportare in premessa i capi di imputazione, rileva che il procedimento penale è sorto a seguito delle querele proposte dai magistrati Giancarlo Caselli, Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato nei confronti dello Iannuzzi, il quale – con due articoli di stampa pubblicati sul quotidiano “Il Giornale”, l’uno, del 2 novembre 2003, dal titolo “Genesi di una persecuzione – Buscetta rinnegò il verbale che aprì il caso Pecorelli”, l’altro, del 19 settembre 2004, dal titolo “Gli intoccabili in toga” – avrebbe offeso la reputazione dei querelanti, affermando: che il processo al senatore Giulio Andreotti sarebbe stato instaurato per finalità politiche; e che i predetti magistrati avrebbero strumentalizzato le dichiarazioni del pentito Buscetta, avrebbero posto in essere una serie di atti tali da determinare il suicidio del maresciallo Lombardo ed avr ebbero, in sostanza, abusato delle rispettive posizioni per impedire che fossero scoperte le tracce del loro operato, anche attraverso un’indebita interferenza nel dibattito parlamentare conseguente all’esito del processo Andreotti.

Il Tribunale esclude che, nella specie, vi sia alcun elemento concreto da cui si possa desumere la sussistenza di una corrispondenza sostanziale tra i contenuti degli articoli oggetto delle querele e le opinioni già espresse dal senatore in specifici atti parlamentari, non essendo sufficiente una mera comunanza di tematiche e un generico riferimento alla rilevanza dei fatti pubblici.

Il giudice ricorrente osserva che tale correlazione funzionale non può derivare dall’interesse costantemente manifestato dal senatore Iannuzzi, nello svolgimento della sua attività politica, per le tematiche della politica giudiziaria in ambito di contrasto all’attività mafiosa.

A suo avviso, l’interpretazione prospettata dalla deliberazione da cui è sorto il conflitto comporterebbe, di fatto, che l’istituto della insindacabilità, previsto dall’art. 68 Cost., si trasformerebbe da esenzione di responsabilità legata alla funzione in privilegio personale, con la conseguenza che le opinioni e le dichiarazioni manifestate da un parlamentare sarebbero, sempre e comunque, sottratte alla verifica giurisdizionale.

La condotta addebitabile all’allora senatore Iannuzzi, astrattamente idonea, nella sua specificità e gravità, ad integrare un illecito, esulerebbe dall’esercizio delle funzioni parlamentari e non presenterebbe oggettivamente alcun legame con atti parlamentari neppure nell’accezione più ampia e, come tale, dovrebbe rientrare nella cognizione riservata al sindacato giurisdizionale.

Stante la dedotta carenza del nesso funzionale, il Tribunale chiede che questa Corte, previa declaratoria di ammissibilità del conflitto, dichiari che non spettava al Senato della Repubblica la valutazione della condotta addebitabile allo Iannuzzi, in quanto estranea alla previsione di cui all’art. 68, primo comma, Cost., e, per l’effetto, annulli la deliberazione del Senato della Repubblica in data 19 febbraio 2009, in quanto lesiva della sfera delle attribuzioni giurisdizionali.

2. - Il conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 288 del 6 novembre 2009.

A seguito di essa, il Tribunale di Milano ha notificato il ricorso e l’ordinanza al Senato della Repubblica in data 18 novembre 2009 ed il successivo 7 dicembre 2009 ha depositato tali atti, con la prova dell’avvenuta notificazione.

3. - Si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica, chiedendo la reiezione del ricorso, con conseguente dichiarazione di spettanza allo stesso Senato di dichiarare insindacabili le opinioni espresse dal senatore Iannuzzi, ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost.

Si sostiene che legittimamente il Senato ha ritenuto che la vicenda e le opinioni espresse dall’allora senatore Iannuzzi sono riconducibili alla situazione di non sindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., in quanto l’intervento che lo stesso fece con gli articoli di denunzia politica pubblicati da “Il Giornale” presentava quel nesso funzionale con le attività svolte nella qualità di senatore, presupposto dell’insindacabilità.

Ad avviso del Senato della Repubblica, il conflitto dì attribuzione fra i poteri dello Stato che si articoli intorno alla previsione di cui all’art. 68, primo comma, Cost. postula che il confine tra i due distinti valori confliggenti – l’autonomia delle Camere e la legalità della giurisdizione – sia posto sotto il controllo della Corte costituzionale, la quale può essere adita dal potere che si ritenga leso o menomato dall’attività dell’altro, in quanto garante di un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all’esercizio della giurisdizione, e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentari sottratti al diritto comune che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà (sono citate le sentenze n. 379 del 1996 e n. 329 del 1999).

4. - Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Senato della Repubblica osserva che il mandato elettorale si esplica in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga il cittadino illustrando la propria posizione – quand’anche ciò avvenga al di fuori dei luoghi deputati all’attività legislativa in senso stretto – attraverso i mezzi di informazione di massa, gli organi di stampa e la televisione.

La vicenda in esame, costituita dalla redazione e pubblicazione di articoli “tematici”, rispecchierebbe le predette modalità di esercizio delle funzioni di parlamentare. Da tali articoli trasparirebbe il chiaro intento divulgativo di opinioni indissolubilmente connesse al mandato parlamentare e, quindi, di queste ultime espressione, in relazione sia all’oggetto degli stessi articoli, sia alla testata giornalistica all’interno della quale è avvenuta la suddetta pubblicazione, notoriamente indirizzata all’approfondimento di problematiche politico-sociali e giudiziarie.

La difesa del Senato della Repubblica sollecita questa Corte ad accedere ad una nozione di “nesso funzionale” più conferente al mutato quadro socio-politico di riferimento e a ritenere coperta dalla garanzia di insindacabilità qualunque attività – sia soggettivamente, sia oggettivamente – riconducibile alla obiettiva esplicazione del mandato parlamentare, anche in relazione agli specifici interessi del parlamentare stesso.

Nella memoria si ricorda che, secondo la giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, la libertà di espressione, sancita dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, rappresenta uno dei valori essenziali di ogni società democratica e una delle condizioni primarie del progresso sociale e del pieno sviluppo delle persone.

Anche in considerazione dello speciale rilievo attribuito dalla Corte europea ai limiti della “critica lecita”, la difesa del Senato rileva l’opportunità di elaborare una nozione di “nesso funzionale” frutto di una lettura coordinata del primo comma dell’art. 68 Cost. con l’art. 10 della Cedu. L’esercizio delle funzioni di parlamentare – cui è connessa la prerogativa dell’insindacabilità – dovrebbe essere interpretato alla luce tanto della tutela del valore supremo della autonomia ed indipendenza del Parlamento, quanto della salvaguardia della libera manifestazione del pensiero, nei modi e nelle forme che si possono ricavare anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Milano contesta che spettasse al Senato della Repubblica deliberare, nella seduta del 19 febbraio 2009 (doc. IV-ter, n. 6), che i fatti per i quali è in corso il processo penale nei confronti di Raffaele Iannuzzi, senatore all’epoca dei fatti, imputato del reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa in danno dei magistrati Giancarlo Caselli, Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato, riguardavano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle funzioni parlamentari ed erano pertanto insindacabili ai sensi del primo comma dell’art. 68 della Costituzione.

2. - Deve, preliminarmente, essere ribadita l’ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi ed oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con l’ordinanza n. 288 del 2009.

3. - Nel merito, il ricorso è fondato.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per l’esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l’espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento – al quale è subordinata la prerogativa dell’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost. – è necessario che tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell’esercizio di attività parlamentare (tra le molte, sentenze n. 420, n. 410, n. 134 e n. 171 del 2008, n. 11 e n. 10 del 2000).

Nella specie, la relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari non indica atti parlamentari tipici anteriori o contestuali alle dichiarazioni in esame, compiuti dallo stesso senatore, ai quali, per il loro contenuto, possano essere riferite le opinioni oggetto di conflitto.

La difesa del Senato della Repubblica sottolinea come il parlamentare abbia sempre incentrato la propria attività parlamentare principalmente sull’analisi delle questioni giudiziarie, dell’attività della criminalità organizzata, delle forme di contrasto alla stessa e delle relative vicende processuali, offrendo il proprio contributo sia alla ricostruzione storica di tali vicende, sia all’adozione di iniziative parlamentari di contrasto al fenomeno mafioso tout court; rileva che dalla pubblicazione degli articoli di stampa in oggetto trasparirebbe il chiaro intento divulgativo di opinioni connesse al mandato parlamentare; e sottolinea l’opportunità di una rielaborazione della nozione di “nesso funzionale” anche in ragione dei confini o dei limiti che la Corte di Strasburgo ha tracciato in ordine alla libertà di manifestazione del pensiero.

Sul punto è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il mero riferimento all’attività parlamentare o comunque all’inerenza a temi di rilievo generale (pur anche dibattuti in Parlamento), entro cui le dichiarazioni si possano collocare, non vale in sé a connotarle quali espressive della funzione, in quanto esse, non costituendo la sostanziale riproduzione di specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell’esercizio delle proprie attribuzioni, sono non già il riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale coperto dall’insindacabilità, a garanzia delle prerogative delle Camere e non di un «privilegio personale [...] conseguente alla mera “qualità” di parlamentare»: sentenza n. 120 del 2004), bensì un’ulteriore e diversa articolazione d i siffatto contributo, elaborata ed offerta alla pubblica opinione nell’esercizio della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall’art. 21 Cost. (sentenze n. 330 del 2008 e n. 135 del 2008, n. 302, n. 166 e n. 152 del 2007).

Conclusivamente, la delibera del Senato della Repubblica ha violato l’art. 68, primo comma, Cost., ledendo le attribuzioni dell’autorità giudiziaria ricorrente, e deve essere annullata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spettava al Senato della Repubblica affermare che le dichiarazioni rese da Raffaele Jannuzzi, senatore all’epoca dei fatti, per le quali pende un processo penale dinanzi al Tribunale di Milano, di cui al ricorso in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

annulla, per l’effetto, la delibera di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 19 febbraio 2009 (doc. IV-ter, n. 6).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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pronuncia precedente

SENTENZA N. 302

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso dal Tribunale di Sanremo, con ordinanza del 5 gennaio 2009, iscritta al numero 229 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione della Living Garden s.r.l. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi gli avvocati Lorenzo Acquarone e Giovanni Acquarone per la Living Garden s.r.l. e l’avvocato dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 5 gennaio 2009, il Tribunale di Sanremo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), per violazione degli artt. 3, 53 e 97 della Costituzione.

1.1. – In punto di fatto, il giudice a quo riferisce di essere investito di un ricorso, proposto dalla Living Garden s.r.l. ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, per ottenere una misura cautelare utile ad evitare il pagamento della somma richiesta da Comune di Sanremo, con atto del 10 ottobre 2007, n. 53894, a seguito del nuovo computo del canone demaniale marittimo dovuto dalla stessa Living Garden per l’anno 2007.

La società ricorrente è titolare di una concessione demaniale marittima per l’occupazione e la conduzione di un bar gelateria su un’area di complessivi mq. 922 (comprendenti un’area scoperta di mq. 259, un’area coperta con opere di facile rimozione di mq. 46, un’area coperta con impianti di difficile rimozione di mq. 142 ed una pertinenza demaniale di circa mq. 475, costituita da un fabbricato incamerato). Per l’intero compendio immobiliare la predetta società ha pagato, fino al 2007, un canone annuo di importo poco superiore a 2.500 euro, periodicamente aggiornato. Per l’anno 2007, il Comune di Sanremo ha richiesto un canone di 2.663,09 euro, oltre all’addizionale regionale del 10% (per un totale di 2.929,40 euro).

Nel giudizio a quo, la società ricorrente ha evidenziato come la norma censurata abbia introdotto nuovi criteri di calcolo dei canoni demaniali (quanto meno per le cosidette pertinenze demaniali), determinando spropositati aumenti degli stessi, addirittura superiori alla misura del 300%, già prevista dal decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 novembre 2003, n. 326.

In particolare, il censurato art. 1, comma 251, della legge n. 296 del 2006 – che ha sostituito il comma 1 dell’art. 03 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 dicembre 1993, n. 494 – ha, tra l’altro, stabilito che «per le concessioni comprensive di pertinenze demaniali marittime si applicano, a decorrere dal 1° gennaio 2007, i seguenti criteri: 2.1) per le pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi, il canone è determinato moltiplicando la superficie complessiva del manufatto per la media dei valori mensili unitari minimi e massimi indicati dall’Osservatorio del mercato immobiliare per la zona di riferimento. L’importo ottenuto è moltiplicato per un coefficiente pari a 6,5. Il c anone annuo così determinato è ulteriormente ridotto delle seguenti percentuali, da applicare per scaglioni progressivi di superficie del manufatto: fino a 200 metri quadrati, 0 per cento; oltre 200 metri quadrati e fino a 500 metri quadrati, 20 per cento; oltre 500 metri quadrati e fino a 1.000 metri quadrati, 40 per cento; oltre 1.000 metri quadrati, 60 per cento. Qualora i valori dell’Osservatorio del mercato immobiliare non siano disponibili, si fa riferimento a quelli del più vicino comune costiero rispetto al manufatto nell’ambito territoriale della medesima regione».

Ai sensi dell’art. 29 del codice della navigazione, sono considerate pertinenze del demanio marittimo «le costruzioni e le altre opere appartenenti allo Stato, che esistono entro i limiti del demanio marittimo e del mare territoriale».

Con il provvedimento impugnato nel giudizio principale il Comune di Sanremo, in applicazione del citato comma 251 dell’art. 1, ha ricalcolato il canone per l’anno 2007 nella misura di 41.878,92 euro ed ha invitato la società ricorrente a provvedere al pagamento delle somme non corrisposte.

A fronte della nuova quantificazione del canone annuo, la Living Garden s.r.l. ha adito il Tribunale di Sanremo chiedendo l’adozione di una misura cautelare idonea, come accennato, a ricondurre il canone demaniale al precedente importo o comunque ad un livello ragionevole, «tale da consentire la prosecuzione dell’attività».

Nel giudizio a quo, la società ricorrente ha dedotto, in primo luogo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 251, della legge n. 296 del 2006, in quanto la pertinenza demaniale in concessione alla Living Garden s.r.l. non rientrerebbe nelle categorie di destinazione soggette al disposto aumento, trattandosi di un fabbricato destinato ad attività di bar gelateria. In subordine, è stata dedotta l’illegittimità costituzionale del richiamato comma 251, in quanto il nuovo criterio di quantificazione del canone demaniale marittimo violerebbe gli artt. 3, 41 e 97 Cost.

1.2. – Il giudice rimettente ha escluso il fondamento della proposta distinzione tra gli esercizi di ristorazione e di somministrazione di alimenti e bevande e le altre attività commerciali, ed ha invece ritenuto non manifestamente infondata, oltre che rilevante, la prospettata questione di legittimità costituzionale.

Per quanto riguarda la rilevanza, il Tribunale assume che la stessa sarebbe in re ipsa, in quanto il provvedimento impugnato costituirebbe «pedissequa applicazione delle nuove norme che regolano i contestati canoni demaniali».

In merito alla non manifesta infondatezza, il rimettente sottolinea come l’«ampia discrezionalità», di cui gode il legislatore nell’adottare norme modificatrici dei rapporti giuridici di durata, sia censurabile ogni qual volta «emergano profili di manifesta irragionevolezza tali da ledere il buon andamento della pubblica amministrazione o da determinare situazioni di disuguaglianza».

Nel caso di specie, la lesione del principio di ragionevolezza e di uguaglianza sarebbe ravvisabile nel fatto che le nuove norme «determinano immotivate discriminazioni all’interno della medesima categoria delle pertinenze demaniali», assoggettando al nuovo criterio di calcolo dei canoni le sole pertinenze adibite a specifiche destinazioni («attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi») e non anche le altre.

Ad avviso del giudice a quo, il nuovo criterio di calcolo, oltre che discriminatorio, risulterebbe «in netta contraddizione» con i provvedimenti legislativi che, al fine di ricondurre il canone ad una misura equa e ragionevole, avevano dapprima rinviato l’entrata in vigore dell’incremento del canone del 300%, previsto dal d.l. n. 269 del 2003 per le concessioni turistico-balneari, e quindi successivamente abrogato le norme che lo avevano istituito.

Il Tribunale di Sanremo richiama, a sostegno delle proprie argomentazioni, la sentenza della Corte costituzionale n. 264 del 2005, secondo cui «nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione). Unica condizione essenziale è che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto».

Secondo il rimettente, i dubbi non manifestamente infondati circa la compatibilità della disciplina censurata con il principio di ragionevolezza si risolverebbero, per se stessi, anche in dubbi riguardo alla piena osservanza del canone di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

Ancora, le norme censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 53 Cost., in quanto il canone demaniale non sarebbe predeterminato con atto legislativo ma rimesso alle valutazioni dell’Osservatorio del mercato immobiliare (OMI), così violando il principio costituzionale di capacità contributiva.

Il Tribunale di Sanremo, inoltre, facendo proprie le censure prospettate dalla società ricorrente nel giudizio principale, sottolinea come l’importo del canone delle pertinenze sia di fatto equiparato al valore di mercato del canone di locazione di un corrispondente immobile di proprietà privata. Ciò risulterebbe irragionevole e non conforme ai principi dell’art. 3 Cost., visto che sussisterebbero «plurimi motivi» per escludere siffatta equiparazione. In particolare, il concessionario demaniale, oltre a non poter disporre dell’immobile «per natura incommerciabile e dunque fuori mercato», sarebbe svantaggiato rispetto al conduttore di immobili privati in quanto: è soggetto al pagamento integrale dell’ICI; non ha garanzie di durata del rapporto, che è soggetto a risoluzione in qualsiasi momento, senza necessità di giusta causa ma «per ragioni di interesse pubblico difficilmente sindacabili» (ex art. 42 cod. nav.); è soggetto all’obbligo della manutenzione anche straordinaria dell’immobile demaniale e, secondo le norme censurate, le spese e gli investimenti sostenuti non possono essere computati al fine della determinazione del canone; è soggetto all’assicurazione obbligatoria dell’immobile per il valore commerciale ed al versamento di una cauzione maggiore di quella richiesta al conduttore di un immobile privato (tre mensilità invece di due).

Il giudice a quo aggiunge che, proprio in considerazione di tali elementi, i canoni demaniali sono sempre risultati inferiori rispetto ai canoni di locazione degli immobili di proprietà privata.

Un ulteriore motivo di illegittimità della norma impugnata è individuato nel fatto che quest’ultima assoggetterebbe «del tutto illogicamente» a diverso canone demaniale pertinenze di identico valore, come ad esempio immobili su aree confinanti di uno stesso lungomare ricadenti però nel territorio di Comuni diversi e quindi aventi diverso valore immobiliare medio.

Per le anzidette ragioni il Tribunale di Sanremo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 251, della legge n. 296 del 2006, «nella parte in cui prevede un immotivato incremento (di oltre il 300%) del canone demaniale delle pertinenze demaniali».

2. – Nel giudizio si è costituita la Living Garden s.r.l. chiedendo l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale.

In particolare la società interveniente, dopo aver riassunto il quadro normativo in materia, svolge le medesime argomentazioni già sviluppate dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione, sottolineando l’irragionevolezza della norma censurata che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto perseguire gli obiettivi di equità e di razionalità nella determinazione dei canoni delle pertinenze demaniali marittime.

Quanto all’asserita violazione dell’art. 97 Cost., la Living Garden s.r.l., oltre a riprendere il contenuto dell’atto introduttivo del presente giudizio, richiama le sentenze n. 393 del 2000 e n. 264 del 2005 della Corte costituzionale e la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 29 aprile 2004, in cause C-487/01 e C-7/02.

In merito alla censura prospettata in relazione all’art. 53 Cost., la società interveniente osserva che la determinazione dei canoni sulla base delle valutazioni di mercato affidate all’OMI, «anziché su criteri fissati normativamente», darebbe luogo all’«assegnazione di un canone astratto e virtuale, destinato a discostarsi, ed anche in larga misura come nel caso di specie, dalle possibilità reddituali del concessionario».

3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

3.1. – La difesa statale sottolinea come la norma denunciata si inserisca in «un complesso percorso legislativo finalizzato alla tutela e alla valorizzazione di tutti i beni di proprietà statale». Questo percorso è iniziato con la legge 3 aprile 1997, n. 94 (Modifiche alla legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni e integrazioni, recante norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio. Delega al Governo per l’individuazione delle unità previsionali di base del bilancio dello Stato) ed è proseguito con il decreto legislativo 7 agosto 1997, n. 279 (Individuazione delle unità previsionali di base del bilancio dello Stato, riordino del sistema di tesoreria unica e ristrutturazione del rendiconto generale dello Stato). Entrambi i citati provvedimenti, nell’ambito della revisione generale del sistema di bilancio e del rendiconto generale, hanno previsto nel conto la rappresentazione del patrimonio pubblico, con una sua valutazione di mercato comprensiva del demanio, in precedenza escluso.

Siffatta evoluzione legislativa avrebbe interessato, tra l’altro, il demanio marittimo, ormai considerato come uno strumento da valorizzare e da preservare, non solo dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma anche da quello relativo alla sua idoneità a produrre reddito. La ratio della norma censurata sarebbe proprio quella di consentire il superamento del precedente regime tabellare di quantificazione del canone, prima considerato quale corrispettivo riferito al mero utilizzo del bene, senza alcun legame con la tipologia di attività effettivamente svolta dal concessionario e con la redditività economica della stessa.

Pertanto, il peculiare trattamento riservato alle concessioni comprensive di pertinenze demaniali marittime (cioè di opere inamovibili divenute di proprietà dello Stato alla scadenza naturale della concessione), destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi, troverebbe fondamento nella loro capacità di produrre reddito.

D’altra parte, l’introduzione di nuovi criteri di determinazione del canone con riguardo alle sole pertinenze demaniali marittime aventi la specifica destinazione sopra descritta sarebbe giustificabile in ragione della loro maggiore idoneità, rispetto ad altri beni di proprietà statale, a produrre un reddito. In merito, l’Avvocatura generale evidenzia come esclusivamente nei casi in questione (trattandosi di opere non amovibili) lo Stato possa legittimamente pretendere un canone relativo anche al manufatto e non soltanto al suolo. Al contrario, ove le opere insistenti sul suolo risultino suscettibili di rimozione al termine della stagione balneare e quindi non di proprietà dello Stato, il canone viene applicato secondo parametri tabellari diversi, che prendono in considerazione esclusivamente il suolo e non già i manufatti (rimossi).

Le suesposte considerazioni inducono la difesa statale a ritenere la norma censurata del tutto ragionevole, in quanto finalizzata alla valorizzazione di un bene pubblico produttivo di entrate per l’erario, e priva dei denunciati profili discriminatori rispetto alle altre concessioni demaniali, che hanno una differente potenzialità economica e caratteristiche diverse.

3.2. – L’Avvocatura generale ritiene, poi, destituite di fondamento le censure relative all’eccessiva onerosità dei canoni e alla loro riconducibilità ai corrispettivi praticati in regime di libero mercato.

Secondo la difesa statale, la norma denunciata, ancorando il canone alla redditività economica del bene oggetto di concessione, «non poteva non avere l’effetto di un aumento (anche considerevole, a fronte degli importi irrisori precedenti) del canone da corrispondere».

Peraltro, osserva l’Avvocatura, i nuovi canoni sono comunque ben lontani dai corrispettivi praticati nel libero mercato. Infatti, l’art. 1, comma 251, della legge n. 296 del 2006 prevede, per un verso, che si tenga conto nel calcolo della «media dei valori mensili unitari minimi e massimi indicati dall’osservatorio del mercato immobiliare per la zona di riferimento»; per altro verso, l’importo così ottenuto è «oggetto di una serie di temperamenti e abbattimenti» riferiti, da un lato, alla superficie del manufatto, dall’altro, al carattere stagionale (e non continuativo) dell’attività ed ai lavori di manutenzione straordinaria a carico del concessionario. Di conseguenza, l’importo del canone non potrebbe ritenersi equiparato al valore di mercato della locazione di un corrispondente immobile di proprietà privata.

Sul punto, la difesa statale precisa che l’utilizzazione di parametri tecnico-estimativi elaborati dall’osservatorio del mercato immobiliare, cioè da un «organismo super partes gestito dall’Agenzia del Territorio, avente specifica competenza nel campo dei processi estimali riferiti al mercato immobiliare», garantisce «la sostanziale equità dei criteri di determinazione dei canoni in questione ed una definizione sufficientemente equilibrata della redditività del bene pubblico».

3.3. – In definitiva, la norma censurata risulterebbe ragionevole, rispettosa dei principi costituzionali evocati dal giudice a quo e «correttamente attuativa del principio di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost.», in quanto valorizzerebbe la redditività di beni demaniali dai quali il concessionario trae un profitto commerciale.

L’entità del canone sarebbe, poi, determinata con una «procedura trasparente ed oggettiva, ancorata ai valori di mercato», e potrebbe essere «inglobata nel prezzo del servizio fornito all’utenza», sicché non sarebbero violati gli artt. 3 e 53 Cost.

4. – In prossimità dell’udienza il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria con la quale ribadisce le argomentazioni già sviluppate nell’atto di intervento, soffermandosi ampiamente sulla sentenza n. 264 del 2005 della Corte costituzionale.

4.1. – La difesa statale precisa inoltre come la norma censurata sia rispettosa anche del principio comunitario della concorrenza, inteso nella sua accezione dinamica; in particolare, l’adeguamento dei canoni di concessione dei beni demaniali in questione realizzerebbe quell’intervento dinamico nel mercato imposto dai precetti comunitari. Al contrario, il pagamento di canoni di concessione (relativamente a pertinenze demaniali marittime) notevolmente inferiori a quelli correnti nel mercato delle locazioni private potrebbe essere censurato dalla Commissione europea come misura di effetto equivalente ad un aiuto di Stato.

4.2. – Quanto all’art. 53 Cost., che il rimettente ha compreso tra le norme costituzionali violate dalla disciplina in esame, la difesa statale ritiene che esso sia stato «malamente» evocato, in quanto, nel caso di specie, non si tratta di imposte o di tasse ma di meri corrispettivi dell’uso di un bene. Peraltro, aggiunge l’Avvocatura generale, la norma censurata stabilisce compiutamente i criteri da seguire per l’aggiornamento dei canoni ed individua nell’osservatorio del mercato immobiliare l’organismo pubblico cui è demandato l’accertamento di fatto.

In proposito, l’interveniente evidenzia come l’osservatorio del mercato immobiliare, istituito presso l’Agenzia del territorio, abbia il duplice obiettivo di concorrere alla trasparenza del mercato immobiliare e di fornire elementi informativi per le attività della stessa Agenzia nel campo dei processi estimali, mediante la gestione di una banca dati delle quotazioni immobiliari e la realizzazione di analisi e di studi di settore. Questa attività di rilevazione e di elaborazione di informazioni relative ai valori immobiliari è, inoltre, pubblicata con cadenza semestrale.

La difesa statale ritiene, pertanto, assolutamente condivisibile la scelta del legislatore di affidare ad un siffatto organismo pubblico la rilevazione dei valori immobiliari medi cui parametrare i nuovi canoni di concessione demaniale.

4.3. – L’Avvocatura generale contesta, ancora, le affermazioni contenute nell’ordinanza di rimessione secondo cui i concessionari pubblici sarebbero gravati di maggiori oneri economici rispetto ai locatari di immobili privati, ed il loro rapporto non godrebbe di adeguate garanzie di durata.

Quanto al primo aspetto, si osserva come la norma censurata preveda una serie di meccanismi riduttivi dei valori rilevati dall’Osservatorio del mercato immobiliare, tali da compensare i maggiori oneri. Quanto al secondo aspetto, la difesa statale precisa che la durata delle concessioni demaniali non è affatto minore di quella delle locazioni private ed è anzi sorretta da maggiori garanzie di rinnovo.

4.4. – Infine, in merito alla denunciata violazione del principio dell’affidamento in conseguenza della modifica delle condizioni economiche del rapporto concessorio, l’interveniente osserva che, in generale, l’adeguamento dei relativi canoni ai valori di mercato è in corso da circa venti anni e che, comunque, un aumento dei canoni in parola era stato già disposto dal d.l. n. 269 del 2003. Inoltre, stante la decorrenza dell’aumento del canone di concessione dal 1° gennaio 2007, i concessionari avrebbero ben potuto adeguare i prezzi delle attività da offrire al pubblico al sopravvenuto incremento del canone medesimo.

L’Avvocatura generale conclude richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee sul principio dell’affidamento e sottolineando come siffatto principio non possa certo giustificare la permanenza di una situazione illegittima, sia sotto il profilo del sinallagma contrattuale con la pubblica amministrazione sia sotto quello del rispetto del principio di libera concorrenza con gli altri operatori commerciali del settore.

Considerato in diritto

1. – Con ordinanza del 5 gennaio 2009, il Tribunale di Sanremo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), per violazione degli artt. 3, 53 e 97 della Costituzione.

2. – Preliminarmente si deve precisare che il giudice rimettente ha motivato in modo non implausibile la rilevanza della questione nel processo principale. Difatti il Tribunale ha ritenuto che la disposizione censurata si applichi anche agli esercizi di ristorazione e di somministrazione di alimenti e bevande, da considerarsi compresi nelle attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi, cui la stessa disposizione esplicitamente si riferisce. In coerenza con tale interpretazione, il giudice a quo ha operato una «previa declaratoria di infondatezza del vizio dedotto con il primo motivo del ricorso», basato appunto sulla asserita non applicabilità della norma di cui sopra alla fattispecie oggetto del suo esame.

3. – La questione non è fondata.

3.1. – Innanzitutto si deve prendere in esame la censura basata sulla presunta lesione dell’affidamento dei cittadini nella sicurezza dei rapporti giuridici, che deriverebbe dall’incidenza sui rapporti in corso dei nuovi criteri di determinazione dei canoni concessori. A tal proposito, giova ricordare come questa Corte abbia chiarito che «nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione). Unica condizione essenziale è che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi preceden ti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto» (sentenza n. 264 del 2005; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 236 e n. 206 del 2009).

Nel caso oggetto del presente giudizio, la variazione dei criteri di calcolo dei canoni dovuti dai concessionari di beni demaniali, in particolare di beni appartenenti al demanio marittimo, non è frutto di una decisione improvvisa ed arbitraria del legislatore, ma si inserisce in una precisa linea evolutiva della disciplina dell’utilizzazione dei beni demaniali. Alla vecchia concezione, statica e legata ad una valutazione tabellare e astratta del valore del bene, si è progressivamente sostituita un’altra, tendente ad avvicinare i valori di tali beni a quelli di mercato, sulla base cioè delle potenzialità degli stessi di produrre reddito in un contesto specifico.

Tale processo evolutivo è in corso da diversi decenni ed ha indotto questa Corte ad osservare che gli interventi legislativi, volti ad adeguare i canoni di godimento dei beni pubblici, hanno lo scopo, conforme agli artt. 3 e 97 Cost., di consentire allo Stato una maggiorazione delle entrate e di rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli pagati in favore di locatori privati (sentenza n. 88 del 1997).

Del resto, un consistente aumento dei canoni in questione era già stato disposto dall’art. 32, commi 21, 22 e 23, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 novembre 2003, n. 326. La concreta applicazione degli aumenti disposti dalle norme citate è stata successivamente rinviata sino a quando la legge finanziaria del 2007 (art. 1, comma 256) ha disposto la loro abrogazione, mentre contestualmente introduceva i nuovi criteri di calcolo. Questi ultimi hanno sostituito gli aumenti generalizzati dei canoni annui per concessioni demaniali marittime, disposti con il citato d.l. n. 269 del 2003, con un nuovo meccanismo, che incide soprattutto sulle aree maggiormente produttive di reddito, cioè quelle su cui insistono pertinenze destinate ad attività commerciali , terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi.

Non si può dire pertanto che l’aumento dei canoni, disposto dalla previsione legislativa censurata, sia giunto inaspettato, giacché esso si è sostituito ad un precedente aumento, di notevole entità, non applicato per effetto di successive proroghe, ma rimasto tuttavia in vigore sino ad essere rimosso, a favore di quello vigente, dalla norma oggetto di censura. Né l’incremento può essere considerato frutto di irragionevole arbitrio del legislatore, tale da indurre questa Corte a sindacare una scelta di indirizzo politico-economico, che sfugge, in via generale, ad una valutazione di legittimità costituzionale. Si tratta infatti di una linea di valorizzazione dei beni pubblici, che mira ad una loro maggiore redditività per lo Stato, vale a dire per la generalità dei cittadini, diminuendo proporzionalmente i vantaggi dei soggetti particolari che assumono la veste di concessionari.

Si deve ricordare in proposito la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, laddove sottolinea che una mutazione dei rapporti di durata deve ritenersi illegittima quando incide sugli stessi «in modo improvviso e imprevedibile», senza che lo scopo perseguito dal legislatore ne imponesse l’intervento (sentenza 29 aprile 2004, in cause C-487/01 e C-7/02). Per i motivi illustrati sopra, l’intervento del legislatore non è stato né improvviso e imprevedibile, né ingiustificato rispetto allo scopo perseguito di assicurare maggiori entrate all’erario e di perequare le situazioni dei soggetti che svolgono attività commerciali, avvalendosi di beni pubblici, e quelle di altri soggetti che svolgono le identiche attività, ma assoggettati ai prezzi di mercato relativi all’utilizzazione di beni di proprietà privata.

3.2. – Quanto detto al paragrafo precedente porta alla logica conseguenza che non si può accogliere la censura basata su una presunta discriminazione tra utilizzatori di pertinenze demaniali marittime e soggetti locatari di aree di proprietà privata. Non solo non vi è discriminazione nel tendenziale avvicinamento delle due situazioni, dal punto di vista del costo dell’utilizzazione, ma si deve riconoscere che l’intervenuto aumento dei canoni riduce l’ingiustificata posizione di vantaggio di chi possa, nel medesimo contesto territoriale, usufruire di concessioni demaniali rispetto a chi, invece, sia costretto a rivolgersi al mercato immobiliare.

Né vale mettere in rilievo – come fanno il rimettente e la parte privata interveniente – che sul concessionario pesano alcuni oneri che non gravano sui locatari privati, giacché la norma censurata prevede un metodo di calcolo dei canoni che non fa coincidere, puramente e semplicemente, i canoni stessi ed i prezzi praticati nel mercato. Infatti «il canone è determinato moltiplicando la superficie complessiva del manufatto per la media dei valori mensili unitari minimi e massimi indicati dall’Osservatorio del mercato immobiliare per la zona di riferimento. L’importo ottenuto è moltiplicato per un coefficiente pari a 6,5». Il canone annuo così ottenuto è ulteriormente ridotto in misura inversamente proporzionale alla superficie del manufatto. Le due situazioni sono da ritenersi pertanto equilibrate; anzi, può dirsi che viene posto rimedio ad un precedente squilibrio, senza tuttavia arrivare ad una comple ta parificazione.

3.3. – Non è condivisibile neppure l’osservazione, formulata dal rimettente e dalla parte privata, che vi sarebbe una discriminazione tra concessionari di pertinenze demaniali marittime destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi e concessionari di beni pubblici dello stesso tipo destinati ad altre utilizzazioni, ad esempio abitative.

La differenza di trattamento trova giustificazione nella diversa attitudine dei beni pubblici a produrre reddito per i concessionari, che certamente è maggiore se gli stessi vengono destinati alle attività considerate dalla norma censurata, piuttosto che a destinazioni diverse, che ne implicano il mero godimento, senza un attivo sfruttamento economico.

3.4. – Occorre infine rimarcare che la determinazione del canone per le pertinenze demaniali marittime è affidata alle stime dell’Osservatorio del mercato immobiliare, organismo tecnico, gestito dall’Agenzia del territorio, ai sensi dell’art. 64, comma 3, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), che offre le necessarie garanzie di obiettività.

4. – La censura riferita all’art. 53 Cost., contenuta sia nell’atto introduttivo del giudizio, sia nella memoria della parte privata interveniente, è del tutto infondata, giacché i canoni demaniali marittimi non hanno natura tributaria, ma sono corrispettivi dell’uso di un bene di proprietà dello Stato e costituiscono quindi un prezzo pubblico calcolato in base a criteri stabiliti dalla legge (ex plurimis, sentenze n. 174 del 1998 e n. 311 del 1995).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53 e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Sanremo con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA