Deposito del 11/11/2010 (dalla 313 alla 323)

 
S.313/2010 del 03/11/2010
Udienza Pubblica del 05/10/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 1, c. 1°, 10, c. 2°, e 11, c. 4°, della legge della Regione Toscana 23/11/2009, n. 71, che inserisce gli artt. 3, 16, c. 3°, e 17, c. 1° quater, della legge della Regione Toscana 24/02/2005, n. 39.

Oggetto: Energia - Norme della Regione Toscana - Prevista autorizzazione regionale per "linee ed impianti di trasmissione, trasformazione, distribuzione di energia elettrica di tensione nominale superiore a 100 mila volt qualora assoggettati a procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) regionale" - Lamentato in tervento sulla rete nazionale ad alta tensione in contrasto con i principi fondamentali fissati dallo Stato; Impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili - Applicazione della disciplina della denuncia di inizio attività (DIA) agli impianti la cui capacità di generazione sia inferiore alle soglie di 100 kw per l'eolica e di 200 kw per la solare fotovoltaica - Contrasto con la legislazione statale, costituente principio fondamentale, che fissa le soglie rispettivamente di 60kw e di 20 kw; Installazione di pannelli solari fotovoltaici di potenza nominale uguale o inferiore a 1 megawatt, installazione di impianti eolici di potenza nominale uguale o inferiore a 1 megawatt, installazione di impianti a fonte idraulica di potenza nominale uguale o inferiore a 200 chilowatt - Esonero dal "titolo abilitativo" (DIA) quando "la Regione e gli enti locali siano soggetti responsabili" degli interventi, realizzati tenendo conto delle condizioni fissa te dal PIER.

Dispositivo: illegittimi tà costituzionale - illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza
Atti decisi: ric. 11/2010
S.314/2010 del 03/11/2010
Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 1, 9 e 10 della legge della Regione Toscana 09/11/2009, n. 66.

Oggetto: Porti e aeroporti - Opere pubbliche - Norme della Regione Toscana - Riserva alla Regione delle funzioni per la "valutazione dell'idoneità tecnica dei progetti relativi alle opere realizzate nei porti di interesse regionale ivi compresi i progetti relativi alle opere di grande infrastrutturazione portuale" - Lamentata attribuzione della attività v alutativa esclusivamente agli uffici regionali, laddove le norme statali affermano l'obbligatorietà del parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici in materia di "Piani regolatori portuali" e realizzazione delle relative opere - Mancato rispetto di principio fondamentale in materia di porti e aeroporti civili;
Previsione che la struttura regionale competente debba esprimere parere obbligatorio e vincolante sull'idoneità tecnica delle previsioni contenute nel piano regolatore portuale, entro sessanta giorni dalla trasmissione del piano.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 4/2010
S.315/2010 del 03/11/2010
Udienza Pubblica del 19/10/2010, Presid ente DE SIERVO, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 25, c. 18°, della legge della Regione Liguria 01/07/1994, n. 29.

Oggetto: Caccia - Norme della Regione Liguria - Esercizio venatorio, nelle aree contigue ai parchi individuate dalla Regione ai sensi dell'art. 3, comma 2, della legge 6 dicembre 1991, n. 394, riservato ai cacciatori aventi diritto all'accesso negli Ambiti territoriali di caccia e dei comprensori alpini su cui insiste l'area contigua naturale protetta.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 134/2010
S.316/2010 del 03/11/2010
Udienza Pubblica del 05/10/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MAZZELLA


Norme i mpugnate: Art. 1, c. 19°, della legge 24/12/2007, n. 247.

Oggetto: Previdenza - Trattamenti pensionistici superiori ad otto volte il trattamento minimo INPS - Previsione, per l'anno 2008, del blocco della perequazione automatica.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 205/2009
O.317/2010 del 03/11/2010
Camera di Consiglio del 22/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Artt. 2 e 3 della legge 16/07/1997, n. 234.

Oggetto: Processo penale - Giudizio a seguito di opposizione al decreto penale di condanna - Decreto di citazione a giudizio emesso d al giudice per le indagini preliminari - Mancata previsione, a pena di nullità, del previo invito a presentarsi per rendere interrogatorio ai sensi dell'art. 375, comma 3, cod. proc. pen.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 122/2010
O.318/2010 del 03/11/2010
Camera di Consiglio del 20/10/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 10 bis del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 1, c. 16°, lett. a), della legge 15/07/2009, n. 94

Oggetto: Straniero - Reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Mancata previsione dell'assenza di un giustificato motivo come elemento costitutivo del reato.

< strong>Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 13, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 73, 78 e 114/2010
O.319/2010 del 03/11/2010
Camera di Consiglio del 20/10/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 10 ter del decreto legislativo 10/03/2000, n. 74, aggiunto dall'art. 35, c. 7°, del decreto legge 04/07/2006, n. 223, convertito con modificazioni in legge 04/08/2006, n. 248.

Oggetto: Reati tributari - Omesso pagamento dell'imposta sul valore aggiunto (I.V.A.), dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo - Pre visione, a seguito del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, della sanz ione della reclusione da sei mesi a due anni - Denunciata applicazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della nuova normativa.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 81/2010
O.320/2010 del 03/11/2010
Camera di Consiglio del 20/10/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 10 bis del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 1, c. 16°, lett. a), della legge 15/07/2009, n. 94.

Oggetto: Straniero - Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Configurazione della fattispecie come reato.

Dispositivo: manife sta inammissibilità
Atti decisi: ord. 129/2010
O.321/2010 del 03/11/2010
Camera di Consiglio del 20/10/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 10 bis del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 1, c. 16°, lett. a), della legge 15/07/2009, n. 94.

Oggetto: Straniero - Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Configurazione della fattispecie come reato.

Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 130, 131, 132 e 135/2010
O.322/2010 del 03/11/2010
Camera di Consiglio del 20/10/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Artt. 709, c. 4°, e 709 ter del codice di procedura civile.

Oggetto: Separazione personale dei coniugi - Procedimento di separazione giudiziale - Ordinanze del giudice istruttore che revocano o modificano i provvedimenti temporanei e urgenti emessi dal presidente del tribunale nell'interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell'art. 708, terzo comma, c.p.c. - Reclamabilità davanti al tribunale in composizione collegiale - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 126 e 137/2010
O.323/2010 del 03/11/2010
Camera di Consiglio del 20/10/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Art. 27 della legge della Regione Liguria 25/11/2009, n. 57.

Oggetto: Tutela della salute - Iniziativa economica privata - Norme della Regione Liguria - Norme in materia di autorizzazione, vigilanza e accreditamento per i presidi sanitari e socio-sanitari, pubblici e privati - Esclusione dal regime dell'autorizzazione per gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie, condotti da sanitari in forma singola o associata, fino all'emanazione dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'art. 8 ter, comma 4, del d.lgs. n. 502/92 - Contrasto con la normativa statale di riferimento a tutela dei livelli essenziali di sicurezza del paziente e di qualità delle prestazioni, ingiustificato favore per gli operatori sanitari della Re gione, pregiudizio per la salute dei cittadini in assenza di opportuni controlli.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 17/2010

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pronuncia successiva

SENTENZA N. 313

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, 10, comma 2 e 11, comma 4, della legge della Regione Toscana 23 novembre 2009, n. 71 (Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 39 – Disposizioni in materia di energia), che inserisce gli artt. 3, 16, comma 3, 17, comma 1-quater, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 39, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 26-29 gennaio 2010, depositato in cancelleria il 28 gennaio 2010 ed iscritto al n. 11 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;

udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi l’avvocato dello Stato Massimo Santoro per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Lucia Bora per la Regione Toscana.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato alla Regione Toscana il 26 gennaio 2010 e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 28 gennaio 2010 (reg. ric. n. 11 del 2010), il Presidente del Consiglio dei Ministri ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, 10, comma 2 e 11, comma 4, della legge della Regione Toscana 23 novembre 2009 n. 71 (Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 39 – Disposizioni in materia di energia), per violazione, da parte di tutte e tre le norme, dell’art. 117, terzo comma, Cost., e, da parte dell’ultima, anche degli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera e), Cost.

1.1.– L’art. 1 della legge della Regione Toscana n. 71 del 2009, che sostituisce l’art. 3 comma 1, lettera d), della legge 24 febbraio 2005, n. 39 (Disposizioni in materia di energia), nel prevedere l’autorizzazione regionale per «linee ed impianti di trasmissione, trasformazione, distribuzione di energia elettrica di tensione nominale superiore a 100 mila volt qualora assoggettati a procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) regionale», interferirebbe – secondo il ricorrente – sulla rete nazionale ad alta tensione, in contrasto con i principi fondamentali fissati in materia dalla legge dello Stato, così violando l’art. 117, terzo comma, Cost.

Il ricorrente rileva che l’art. 1-sexies del decreto legge 29 agosto 2003, n. 239 (Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 ottobre 2003, n. 290, al comma 1, ha confermato l’autorizzazione unica ministeriale – già prevista dall’art. 1, comma 1, del decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 9 aprile 2002, n. 55 – per la costruzione e l’esercizio degli elettrodotti «facenti parte delle rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica», definita dall’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), come «il complesso delle stazioni di trasformazione e delle linee elettriche di trasmissione ad alta tensione sul territorio nazionale gestite unitariamente». La legittimità costituzionale dell’art. 1-sexies è stata riconosciuta dalla Corte con la sentenza n. 383 del 2005. Con la sentenza n. 282 del 2009 (come già con la sentenza n. 364 del 2006) è stato, poi, confermato che nell’art. 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità) si trovano enunciati i principi fondamentali della materia.

Osserva, poi, il ricorrente, che riguardo alla costruzione e all’esercizio degli elettrodotti, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto «l’attribuzione di rilevanti responsabilità ad organi statali e quindi la parallela disciplina legislativa da parte dello Stato di settori che di norma dovrebbero essere di competenza regionale ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.» (sentenza n. 383 del 2005), e, a proposito dell’autorizzazione unica ministeriale, ha affermato che «la stessa finalità per la quale tale disciplina è stata posta verrebbe frustrata da un assetto delle competenze amministrative diverso da quello da essa stabilito, anche in considerazione delle necessaria celerità con cui – al fine di evitare il pericolo della interruzione della fornitura di energia su tutto il territorio nazionale – le funzioni amministrative concernenti la costruzione o il ripotenziamento di impianti di energi a elettrica di particolare rilievo devono essere svolte» (sentenza n. 6 del 2004).

La legittimità costituzionale della norma impugnata, aggiunge il ricorrente, non può essere dedotta dalla limitazione dell’intervento regionale alle linee ed impianti «assoggettati a procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) regionale ai sensi della legge regionale 3 novembre 1998, n. 79»: gli interessi energetici sono diversi da quelli ambientali, non potendo incidere i secondi sulle competenze per la tutela dei primi.

La irrazionalità di tale accostamento sarebbe evidente anche da un diverso punto di vista: gli interessi energetici nazionali vanno presi in considerazione già nella fase di progettazione delle linee e degli impianti. Solo successivamente i progetti sono soggetti a VIA. Oltre che singolare, sarebbe irragionevole che, in sede di progettazione, si dovesse tenere conto della competenza a valutare in futuro progetti per fini diversi e territorialmente limitati, per estenderla alla interpretazione di interessi preliminari, di portata nazionale, che sono del tutto diversi da quelli tutelati dalla VIA, rispetto ai quali deve ricorrere solo la compatibilità.

1.2.– Con l’art. 10, comma 2, della legge regionale, è stato riscritto il terzo comma dell’art. 16 della precedente legge regionale n. 39 del 2005. Con la lettera f), nonostante il richiamo del d.lgs. n. 387 del 2003, sono state introdotte modifiche rilevanti, che il ricorrente ritiene non consentite. L’art. 12, comma 5, del citato decreto legislativo, dispone che si applica la disciplina della denuncia di inizio dell’attività (DIA) agli impianti la cui capacità di generazione sia inferiore alle soglie individuate nella Tabella A allegata, che sono di 60 kW per l’energia eolica e di 20 kW per l’energia solare fotovoltaica.

La norma, che attiene alla funzionalità della rete nazionale, esprimerebbe principi fondamentali, necessariamente uniformi su tutto il territorio nazionale. Basti solo considerare – sottolinea il ricorrente – i rischi ai quali verrebbe sottoposta la funzionalità della rete se ogni Regione avesse la possibilità di elevare a propria discrezione le soglie, al di sotto delle quali la DIA non è richiesta.

Contrariamente alla finalità della norma di principio, la Regione Toscana ha innalzato le soglie per le quali è ammessa la DIA, per gli impianti eolici da 60 a 100 kW (art. 10, comma 2, lettera f, n. 1) e per i fotovoltaici da 20 a 200 kW (art.10, comma 2, lettera f, n. 2).

La norma, pertanto, sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

1.3.– L’art. 11, comma 4, della legge regionale n. 71 del 2009, inserendo il comma 1-quater dopo il comma 1-ter dell’art. 17 della precedente legge regionale n. 39 del 2005, esenta da titolo abilitativo alcuni interventi realizzati tenendo conto delle condizioni fissate dal piano energetico regionale e dai provvedimenti attuativi dello stesso, di cui la Regione e gli enti locali siano i soggetti responsabili (installazione di pannelli solari fotovoltaici di potenza nominale uguale o inferiore a 1 megawatt; installazione di impianti eolici di potenza nominale uguale o inferiore a 1 megawatt; installazione di impianti a fonte idraulica di potenza nominale uguale o inferiore a 200 chilowatt).

L’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, in cui, come detto, sono enunciati i principi fondamentali della materia, non prevede però alcun trattamento differenziato in favore delle Regioni e degli enti locali, sotto il profilo della non necessità del «titolo abilitativo» (costituito dalla DIA: art. 10, comma 1), quando «la Regione e gli enti locali siano soggetti responsabili».

Non è dato individuare, d’altro canto, la ragione per la quale la DIA perderebbe la sua utilità in funzione della natura, anche se pubblica, dei soggetti responsabili, la cui «responsabilità» attiene solo all’esercizio e per questo non può essere considerata automaticamente rilevante anche nella fase preliminare della costruzione.

Sarebbe evidente la violazione anche dell’art. 3 Cost.: tutti coloro che esercitano impianti per energia rinnovabile debbono avere lo stesso trattamento a proposito della loro installazione.

La natura pubblica, del resto, non costituisce, di per sé, nessuna garanzia né giustifica perché uno stesso impianto debba essere soggetto a controllo (e quindi possa incorrere in certe limitazioni) quando è esercitato da soggetti diversi dagli enti territoriali, con la conseguenza che a questi ultimi potrebbero essere consentiti l’installazione e l’esercizio di impianti che altri non potrebbero realizzare.

Se poi si tiene presente che l’uguaglianza in questo caso attiene ad una attività di produzione di energia, destinata ad inserirsi in un mercato concorrenziale, la norma finirebbe per violare anche 1’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla legislazione dello Stato la «tutela della concorrenza» che, com’è noto, può essere realizzata solo assicurando l’uguaglianza tra i soggetti che operano nello stesso mercato.

2.– Si è costituita in giudizio la Regione Toscana, chiedendo dichiararsi l’infondatezza del ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri.

2.1. – Riguardo alla prima censura la Regione osserva che l’art. 1-sexies del d.l. 29 n. 239 del 2003 (norma che secondo il ricorrente sarebbe stata violata dalla disposizione regionale) sancisce il preminente interesse statale riguardo alla costruzione e all’esercizio degli elettrodotti facenti parte della rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica, e per questo li assoggetta all’autorizzazione unica ministeriale.

L’art. 3, lettera d) della legge della Regione Toscana n. 39 del 2005, come sostituito dall’art. 1 della legge n. 71 del 2009, non prevede affatto che la Regione autorizzi gli elettrodotti facenti parte della rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica. L’art. 3 della legge regionale n. 39 del 2005, come sostituito dalla norma in esame, tratta infatti delle competenze regionali, mentre l’art. 3-bis individua le competenze provinciali e l’art. 3-ter individua le competenze comunali; alla lettera d), l’art. 3 prevede che la Regione rilasci le autorizzazioni di cui agli artt. 11 e 13 e le concessioni di cui all’art. 14, per quanto concerne impianti geotermici, impianti eolici di potenza superiore a 1 megawatt, in coerenza con la semplificazione introdotta dall’art. 27, comma 43, lettera b), della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, n onché in materia di energia), nonché linee e impianti di trasmissione, trasformazione, distribuzione di energia elettrica di tensione nominale superiore a 100 mila volt, qualora assoggettati a procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) regionale ai sensi della legge della Regione Toscana 3 novembre 1998, n. 79 (Norme per l’applicazione della valutazione di impatto ambientale) o qualora interessino un ambito territoriale interregionale.

Secondo la Regione Toscana sarebbe evidente che si tratta di una specificazione delle competenze regionali, rispetto alle competenze provinciali e comunali, all’interno dell’insieme di impianti soggetti alle autorizzazioni di cui agli artt. 11 e 13 (e alle concessioni di cui all’art. 14) del Capo III (Disciplina delle attività energetiche) della legge regionale, tutte relative ad impianti non statali.

Che siano esclusi gli impianti di competenza statale lo chiarirebbe l’art. 10, contenente i principi generali dello stesso Capo III: al comma 1 esso precisa che sono soggette ad una autorizzazione unica o a denuncia di inizio dell’attività (DIA), «per ciò che concerne le competenze della Regione e degli enti locali», la costruzione ed esercizio di impianti per produzione, trasporto, trasmissione e distribuzione di energia, di impianti per lavorazione e stoccaggio di idrogeno, oli minerali e gas naturali e liquefatti, in qualunque forma, nonché di impianti di illuminazione esterna.

Il ricorso statale non avrebbe considerato che tutta la disciplina degli impianti di cui al Capo III della legge regionale esclude gli impianti di competenza statale. L’enucleazione «linee e impianti di trasmissione, trasformazione, distribuzione di energia elettrica di tensione nominale superiore a 100 mila volt» individua semplicemente che, all’interno degli impianti energetici di competenza della Regione e degli enti locali, gli elettrodotti e i relativi impianti, sia che distribuiscano energia, sia che la raccolgano, sono di competenza autorizzatoria della Regione qualora di tipologia superiore a determinate soglie (mentre sotto tali soglie l’autorizzazione sarà provinciale) e non rientranti tra gli impianti riservati alla competenza statale perché appartenenti alla rete nazionale ad alta tensione.

2.2.– L’impugnazione dell’art. 10, comma 2, secondo la Regione resistente, sarebbe, invece, inammissibile, per mancata indicazione dei motivi, nei confronti dell’intera disposizione, mentre sarebbe infondata la censura prospettata avverso la lettera f).

La valutazione del ricorrente, secondo cui la norma impugnata avrebbe elevato le soglie per gli impianti eolici e fotovoltaici, rispetto a quelle previste nella tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003, non terrebbe conto che l’art. 123 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) assimila alla manutenzione straordinaria gli interventi di utilizzo delle fonti di energia di cui all’art. 1 della legge 9 gennaio 1991, n. 10 (Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia), in edifici ed impianti industriali, così sottraendoli all’obbligo di autorizzazione specifica.

Nell’intento, poi, di semplificare e razionalizzare le procedure amministrative e regolamentari, l’art. 11 del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115 (Attuazione della direttiva 2006/32/CE relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE), al comma 3, richiama la disposizione da ultimo citata, stabilendo tipologie di impianti da fonte rinnovabile che sono assimilate a manutenzione ordinaria (quindi non necessitanti né di autorizzazione unica né di DIA) e al comma 4 dichiara che tale disciplina trova applicazione fino all’emanazione di apposita normativa regionale che renda operativi i principi di esenzione minima ivi contenuti.

I principi dettati dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 e dall’art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008 sono principi di semplificazione amministrativa per il perseguimento degli obiettivi indicati dall’Unione Europea (direttiva 27 settembre 2001, n. 2001/77/CE, Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), cui deve conformarsi il legislatore regionale.

Sostiene, quindi, la Regione, che l’individuazione in ambito nazionale, operata con la tabella A del d.lgs. n. 387 del 2003, di alcune tipologie di impianti che sicuramente accedono alla DIA, è una individuazione minima, ma non esaustiva, tanto che il citato art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008 prevede che si applichi la DIA anche per gli interventi di utilizzo delle fonti rinnovabili in edifici ed impianti industriali.

La Regione, nell’esercizio della propria competenza legislativa e secondo la sua politica di governo del territorio, proprio perseguendo i principi di semplificazione dettati dalle norme comunitarie e statali, può anche, nel proprio ambito territoriale, individuare impianti a fonte rinnovabile realizzabili con DIA al di fuori di quelli indicati dalla Tabella A (di cui deve rispettare le soglie minime), se opera secondo le logiche date dalla stessa tabella (impianti con dimensioni analoghe), nel rispetto dell’art. 123 del d.P.R. n. 380 del 2003 (utilizzo dell’energia rinnovabile negli edifici) e dell’art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008 (semplificazione per modalità di installazione meno impattanti).

Ne conseguirebbe la piena legittimità della disposizione contestata. Essa richiede per tutti gli impianti il rispetto degli strumenti urbanistici (modalità di installazione meno impattanti); individua per l’eolico una soglia di 100 chilowatt, che rispetto ad un impianto di 60 chilowatt si risolve in un rotore del 10% più grande; individua per il fotovoltaico la soglia di 200 chilowatt invece di 20 chilowatt: l’aumento è qui più rilevante ma asseconda il forte impulso di semplificazione dato dal d.lgs. n. 115 del 2008 su tale fonte rinnovabile, nel senso di qualificare tutte le installazioni di impianti fotovoltaici integrati come interventi di manutenzione ordinaria, e rispetta le nuove soglie individuate dal Decreto ministeriale 18 dicembre 2008 (Incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, ai sensi dell’art. 2, comma 150, della legge 24 dicembre 2007, n. 244) per la disciplina dello «s cambio sul posto» (portate appunto da 20 chilowatt a 200 chilowatt).

2.3.– La censura concernente l’art. 11, comma 4, ai sensi del quale, nelle aree non soggette ai vincoli paesaggistici, non necessitano di titolo abilitativo gli interventi indicati alle lettere a, b e c, realizzati tenendo conto delle condizioni fissate dal piano energetico regionale e dai provvedimenti attuativi dello stesso, di cui la Regione e gli enti locali siano soggetti responsabili, sarebbe infondata.

La norma regionale ha inteso perseguire l’obiettivo della massima semplificazione degli adempimenti per la costruzione degli impianti di produzione di energia elettrica da energie rinnovabili, indicato dalle norme europee di riferimento (direttive 2001/77/CE, cit., e 23 aprile 2009, n. 2009/28/CE, Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE) considerando che, nel rispetto delle necessarie tutele dei territori interessati dagli impianti, ove si tratti di impianti di energie rinnovabili di cui sono responsabili la Regione e gli enti locali, la valutazione di compatibilità urbanistica è stata effettuata a monte, in sede di approvazione del piano energetico e dei relativi atti attuativi.

Tale elemento, unito alla natura dei soggetti responsabili, che sono appunto gli stessi enti territoriali che hanno adottato gli atti di pianificazione e programmazione ove sono previsti quegli impianti, rende osservato il principio posto dal legislatore nazionale (che è quello del controllo della compatibilità urbanistica degli impianti), unitamente a quello della semplificazione procedurale volta ad incentivare l’uso delle energie rinnovabili.

La norma in oggetto non rappresenta dunque una disposizione di favore per gli enti territoriali (che accertano sempre la conformità urbanistica dei progetti di impianti), ma semplifica le procedure, evitando che quello stesso accertamento sia ripetuto in diverse fasi.

Il riscontro di legittimità della disposizione potrebbe rinvenirsi nell’art. 2, comma 173, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2008), che ha stabilito che gli impianti fotovoltaici, i cui soggetti responsabili sono Enti locali, rientrano nella tipologia di impianto integrato, indipendentemente dalle effettive caratteristiche architettoniche dell’installazione: essi quindi accedono alla massima tariffa incentivante fra quelle previste dal Decreto ministeriale 19 febbraio 2007 (Criteri e modalità per incentivare la produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte solare, in attuazione dell’art. 7 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387).

Non vi è quindi disparità di trattamento, perché questa si può ipotizzare a fronte di identità di situazioni, mentre nel caso in esame, è differente, per le competenze istituzionali, la posizione dell’ente territoriale rispetto a quella dell’operatore privato, in quanto il primo valuta direttamente la conformità urbanistica dell’impianto in sede di esercizio dei propri compiti al momento dell’adozione degli atti di governo del territorio.

E nemmeno può ravvisarsi la violazione della tutela della concorrenza, perché la norma, lungi dall’incidere sugli aspetti afferenti alla gestione della rete energetica, è volta a fissare criteri per la disciplina urbanistica e limita la propria operatività ai soli profili di impatto sul territorio, senza intaccare la competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

3.– Nell’imminenza dell’udienza, sia il Presidente del Consiglio dei ministri, che la Regione Toscana hanno presentato memorie, con cui ampliano le proprie argomentazioni difensive, in particolare la Regione avallandole alla luce dell’evoluzione normativa più recente.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna gli artt. 1, comma 1, 10, comma 2, e 11, comma 4, della legge della Regione Toscana 23 novembre 2009 n. 71 (Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 39 – Disposizioni in materia di energia), per violazione, da parte di tutte e tre le norme, dell’art. 117, terzo comma, Cost., e da parte dell’ultima anche degli artt. 3 e 117, secondo comma, lett. e), Cost.

Il ricorso, pur omettendo ogni premessa in ordine alla natura della legge oggetto di censura, esamina direttamente le specifiche disposizioni impugnate, e all’interno della prima censura, elenca sinteticamente ma sufficientemente gli interventi della Corte costituzionale che hanno configurato le competenze statali in materia (sulla cui connotazione non s’intrattiene, dandola per scontata).

2.– L’art. 1, comma 1, della legge della Regione Toscana n. 71 del 2009, sostituendo l’art. 3, comma 1, lettera d), della precedente legge regionale n. 39 del 2005, che prevede, tra le funzioni della Regione in materia di energia, il rilascio dell’autorizzazione per quanto concerne, tra l’altro, «linee ed impianti di trasmissione, trasformazione, distribuzione di energia elettrica di tensione nominale superiore a 100 mila volt qualora assoggettati a procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) regionale», è censurato per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto detterebbe regole concernenti la rete nazionale ad alta tensione, in contrasto con i principi fondamentali fissati in materia dalla legge dello Stato.

2.1.– La questione non è fondata.

2.2.– La disposizione impugnata va infatti interpretata come riferita esclusivamente agli impianti non appartenenti alla rete nazionale.

Si verte, indubbiamente, nella materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” rientrante nella competenza legislativa concorrente (sentenze n. 364 del 2006 e n. 383 del 2005), in cui lo Stato detta i principi fondamentali (sentenze nn. 124 e 168 del 2010, n. 282 del 2009). Ragioni di uniformità, inoltre, determinano la chiamata in sussidiarietà, in capo ad organi dello Stato, di funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello nazionale (sentenze n. 103 del 2006, n. 6 del 2004).

Il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), agli artt. 29, comma 2, lettera g), 30 e 31, comma 2, prevede, in generale, che la competenza autorizzatoria relativa agli elettrodotti con tensione non superiore a 150 chilovolts spetti a Regioni e Province. Successivamente, il comma 1 dell’art. 1-sexies del decreto-legge n. 239 del 2003 (Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2003, n. 290, e modificato dall’art. 1, comma 26, della legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), abbandonando il criterio della potenza, ha previsto il rilascio di un’autorizzazione unica da parte del Ministro delle attività produttive per tutti gli impianti appartenenti alla «rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica».

Quanto alla individuazione della consistenza della rete nazionale, il sistema prevede una serie di «adeguati strumenti di codecisione paritaria tra lo Stato ed il sistema delle autonomie regionali» (sentenza n. 383 del 2005).

È evidente, pertanto, che non può spettare alla Regione alcun potere di autorizzazione con riguardo agli impianti costituenti parte della rete nazionale.

Nulla, però, consente di concludere che la disposizione impugnata non possa avere per oggetto soltanto le linee, e le relative opere, di potenza non superiore a 150 chilovolts, che non siano state incluse nella rete nazionale, per le quali necessita la competenza autorizzatoria regionale: la giurisprudenza costituzionale, del resto, ha dichiarato l’infondatezza della questione quando la norma regionale è suscettibile di una interpretazione tale da non determinare una lesione della competenza legislativa statale (sentenze n. 248 del 2006, n. 8 del 2004, n. 246 del 2006). Ciò risulta avvalorato dal contesto in cui s’inserisce la disposizione impugnata, essendo seguito l’art. 3, sostituito dalla disposizione oggetto di censura, dagli artt. 3-bis e 3-ter, rispettivamente attribuenti le funzioni amministrative alle Province ed ai Comuni, sicché alla norma impugnata può riconoscersi lo scopo di specificare le competenze re gionali, rispetto alle competenze provinciali e comunali, all’interno del sistema autorizzatorio di cui agli artt. 11 e 13 (e delle concessioni di cui all’art. 14) del Capo III della legge regionale, per definizione relativo ad impianti non rientranti nella competenza statale.

Del resto, l’art. 10 della legge regionale, contenente i principi generali dello stesso Capo III, precisa, al comma 1, che sono soggette ad autorizzazione unica o a denuncia di inizio dell’attività, «per ciò che concerne le competenze della Regione e degli enti locali», la costruzione ed esercizio di impianti per produzione, trasporto, trasmissione e distribuzione di energia, di impianti per lavorazione e stoccaggio di idrogeno, oli minerali e gas naturali e liquefatti, in qualunque forma, nonché di impianti di illuminazione esterna, così implicitamente escludendo gli impianti di competenza statale.

La precisazione della competenza autorizzatoria regionale per linee e impianti «qualora assoggettati a procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) regionale», va posta in relazione con l’intento di ripartire la competenza all’interno delle autonomie locali: in linea generale, discende dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) e dalle elencazioni di cui all’allegato III alla parte II dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006, che alla Regione spetta la valutazione d’impatto ambientale per gli «elettrodotti aerei esterni per il trasporto di energia elettrica con tensione nominale superiore a 100 chilovolts e con tracciato di lunghezza superiore a 3 km.», mentre allo Stato spetta la valutazione d’impatto ambientale per gli «elettrodotti aerei con tensione nominale di esercizio superiore a 150 chilovolts e con tracciato di lunghezza superiore a 15 km ed elettrodotti in cavo interrato in corrente alternata, con tracciato di lunghezza superiore a 40 chilometri» (art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 e all. II alla parte II).

E’ evidente che la competenza autorizzatoria attribuita alla Regione dalla norma censurata riguarda gli impianti con tensione (a partire da 100 chilovolts) comunque contenuta entro i 150 chilovolts, e non appartenenti alla rete nazionale, e, all’interno di questo ambito, quelli per i quali la normativa regionale (art. 7 della legge della Regione Toscana 3 novembre 1998, n. 79, recante «Norme per l’applicazione della valutazione di impatto ambientale») attribuisce alla Regione la VIA, mentre la competenza delle Province è residuale (art. 3-bis, comma 1, lettera c, della legge regionale n. 39 del 2005, aggiunto dall’art. 2 della legge regionale n. 71 del 2009): conformemente, del resto, all’esigenza indicata dalla norma statale (art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006), di coordinamento delle procedure di VIA e di rilascio dell’autorizzazione (sentenza n. 225 del 2009).

Conseguentemente, essendo la norma impugnata suscettibile di una interpretazione conforme a Costituzione, la questione non è fondata.

3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri censura, altresì, l’art. 10, comma 2, della citata legge regionale n. 71 del 2009, che sostituendo l’art. 16, comma 3, lettera f) della legge regionale n. 39 del 2005, avrebbe innalzato le soglie per le quali i principi della legislazione statale ammettono la denuncia di inizio attività (DIA), per gli impianti eolici da 60 a 100 chilowatt (lettera f, n. 1) e per i fotovoltaici da 20 a 200 chilowatt (lettera f, n. 2).

3.1.– La questione è fondata.

3.2.– L’installazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili di energia è regolata dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, il quale prevede, ai commi 3 e 4, una disciplina generale caratterizzata da un procedimento che si conclude con il rilascio di una autorizzazione unica. A tale disciplina fanno eccezione determinati impianti che, se producono energia in misura inferiore a quella indicata dalla tabella allegata allo stesso d.lgs. n. 387 del 2003, sono sottoposti alla disciplina della denuncia di inizio attività (art. 12, comma 5). In particolare, la indicata tabella distingue i suddetti impianti in base alla tipologia di fonte che utilizzano (eolica, soglia 60 chilowatt; solare, soglia 20 chilowatt; etc). Sempre l’indicato art. 12, comma 5, prevede che «con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono essere individuate maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione per i quali si procede con la medesima disciplina della denuncia di inizio attività».

L’art. 10, comma 2, della legge della Regione Toscana n. 71 del 2009 – la cui censura è agevolmente riferibile alla lettera f) del comma 3, dell’art. 16, della legge regionale n. 39 del 2005, e dovendosi dunque disattendere l’eccezione della difesa regionale di inammissibilità per indeterminatezza – prevede l’applicazione della disciplina della DIA agli impianti la cui capacità di generazione sia inferiore alle soglie di 100 chilowatt per l’energia eolica e di 200 chilowatt per quella solare fotovoltaica.

L’aumento della soglia di potenza per la quale, innalzando la capacità, rispetto ai limiti di cui alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003, la costruzione dell’impianto risulta subordinata a procedure semplificate, è illegittimo, in quanto maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione, per i quali si proceda con diversa disciplina, possono essere individuate solo con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata, senza che la Regione possa provvedervi autonomamente (sentenze nn. 119, 124 e 194 del 2010).

La norma censurata finisce per incidere sulla disciplina amministrativa di impianti, costruiti nel territorio regionale, destinati alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, per i quali l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, attesa la capacità di generazione degli stessi, superiore a determinati valori di soglia, prevede un’autorizzazione unica, mirata al vaglio dei molteplici interessi coinvolti.

Le norme statali di riferimento, citate dalla Regione resistente a giustificazione del proprio intervento, attengono al limitato settore della disciplina edilizia (decreto Presidente della Repubblica 6 giugno 2001 n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia»), nella parte in cui essa persegue il contenimento del consumo di energia nelle costruzioni, incentivando l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile, e stabilendo che gli interventi a ciò finalizzati negli edifici e negli impianti industriali, sono equiparati alle opere di manutenzione straordinaria (art. 123). La difesa regionale richiama anche l’art. 11 del d.lgs. 30 maggio 2008, n. 115 (Attuazione della direttiva 2006/32/CE relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE), che nell’ottica di semplificazione delle procedure autorizzatorie, classif ica come opera di manutenzione ordinaria l’installazione di piccoli generatori eolici e di impianti solari termici o fotovoltaici sui tetti degli edifici.

Le norme citate non appaiono richiamate a proposito: la diversa categoria concettuale, fatta palese dall’oggetto di sistemi normativi del tutto autonomi – la produzione dell’energia elettrica da inserire in rete, e dunque finalizzata al mercato, da un lato, l’utilizzo delle fonti alternative mediante apparecchi omogenei agli edifici, anche industriali, per l’autoconsumo, dall’altro – è inequivocabilmente confermata dalle descrizione delle opere, che l’art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008, limita nelle dimensioni (generatori eolici con altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro) e nella forma (impianti solari termici o fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli edifici stessi), considerando evidentemente l’irrilevanza funzionale di queste o pere nel sistema di produzione dell’energia elettrica.

La stessa legge regionale, di cui è impugnato l’art. 10, comma 2, modificando, all’art. 11, comma 2, l’art. 17 della precedente legge n. 39 del 2005, cui aggiunge un comma 1-bis, mostra di considerare separatamente il fenomeno dell’utilizzo diretto dell’energia alternativa, di cui dimensiona i supporti tecnologici con riproduzione delle caratteristiche prescritte dall’art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008, al fine di esentarli, come la normativa statale, dalla necessità del titolo abilitativo. Che gli impianti di utilizzo dell’energia rinnovabile costituiscano categoria a sé, rilevante ai soli effetti della disciplina urbanistica, in cui, a seconda dei casi, sono assoggettati alla disciplina della DIA, quando non costituiscono attività libera, è fatto palese dal linguaggio legislativo impiegato dalla stessa norma regionale impugnata, che, invece, richiama l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 200 3, e significativamente ne ripete la formulazione, nel riferimento alla costruzione e all’esercizio «degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili», senza ulteriore connotazione (e dunque diversi dagli impianti tecnologici di edifici abitativi e industriali), per i quali illegittimamente oltrepassa le soglie che la normativa statale ha imposto all’ambito del regime semplificato della DIA.

In conclusione, ciò che rileva ai fini della questione in esame, è che prevedendo soglie diverse di capacità generatrice degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti alternative, agli effetti del titolo abilitativo, la norma regionale è illegittima, con la conseguenza che ne va dichiarata l’incostituzionalità limitatamente ai numeri 1 e 2 della lettera f) (impianti eolici e impianti solari fotovoltaici), posto che, per i numeri 3, 4 e 5 della stessa lettera f), le soglie della legge regionale coincidono con quelle dell’all. A del d.lgs. n. 387 del 2003.

3.3.– La più recente normativa in tema energetico, citata dalla Regione nella memoria integrativa, non sembra portare ad un mutamento della conclusione che precede, essendo sempre presente il differente regime tra gli interventi assimilabili alla disciplina edilizia, e gli interventi di produzione dell’energia in senso stretto (vedi in particolare l’art. 6 novellato del d.P.R. n. 380 del 2001).

Anche l’art. 1-quater del decreto-legge n. 105 del 2010, inserito dalla legge di conversione n. 129 del 2010, che fa salvi gli effetti relativi alle procedure di denuncia di inizio attività per la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, che risultino avviate in conformità a disposizioni regionali recanti soglie superiori a quelle di cui alla tabella A del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, introduce, nel quadro della decretazione d’urgenza nel settore dell’energia, una sanatoria limitata nel tempo, tanto da porre la condizione «che gli impianti siano entrati in esercizio entro centocinquanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Il proposito è chiaro nel senso di non pregiudicare i limiti di principio contenuti nella tabella allegata al d.lgs. n. 387 del 2003.

L’apertura verso una ulteriore liberalizzazione del regime autorizzatorio per la costruzione e l’esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, si coglie semmai nella recente legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2009), che delega il governo ad attuare la Direttiva 2009/28/CE, estendendo il regime della DIA alla realizzazione degli impianti per la produzione di energia elettrica con capacità di generazione non superiore ad 1 megawatt elettrico (art. 17). Il recepimento della direttiva spetta allo Stato (entro il 5 dicembre 2010), per ragioni di uniformità sul territorio nazionale, legate alla funzionalità della rete, e non è consentito alla Regione derogare frattanto ai limiti vigenti, sia pure anticipando il recepimento della normativa comunitaria.

4.– Il Presidente del Consiglio dei Ministri si duole, infine, che con l’art. 11, comma 4, della legge regionale n. 71 del 2009, che inserisce un comma 1-quater nell’art. 16 della legge regionale n. 39 del 2005, si siano individuati alcuni interventi che, per esserne “soggetti responsabili” la Regione o gli enti locali, costituirebbero “attività libera”, ovvero sottratta all’obbligo di DIA.

La norma impugnata esonera dal titolo abilitativo (identificato dal ricorrente nella DIA) l’installazione di alcuni tipi di impianti (pannelli solari fotovoltaici di potenza nominale uguale o inferiore a 1 megawatt, impianti eolici di potenza nominale uguale o inferiore a 1 megawatt, impianti a fonte idraulica di potenza nominale uguale o inferiore a 200 chilowatt), quando la Regione e gli enti locali siano soggetti responsabili degli interventi, realizzati tenendo conto delle condizioni fissate dal piano di indirizzo energetico regionale (PIER).

4.1.– La questione è fondata.

4.2.– Nell’individuazione del contrasto con la disciplina statale, costituita dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, pur se il ricorso denuncia la creazione, da parte del legislatore, di categorie di interventi che sarebbero sottratti al titolo abilitativo costituito dalla DIA di cui all’art. 10, comma 1, la tipologia degli interventi, indicati alle lettere a), b) e c) della norma sospettata d’incostituzionalità, li fa considerare in gran parte assoggettati all’ambito di applicazione dell’autorizzazione unica regionale, e non della semplice DIA. Resta a maggior ragione valida la doglianza del ricorrente per il fatto che la norma regionale ha liberalizzato attività comunque soggette a controllo. La questione riguarda in particolare l’ammissibilità di un regime deregolamentato, ove responsabili degli interventi siano la Regione e gli enti locali.

Va considerato che la titolarità dell’intervento non toglie che nella realizzazione di un impianto di generazione di energia da fonti rinnovabili, come di qualsiasi opera pubblica, sia necessaria la compartecipazione di tutti i soggetti portatori di interessi (ambientale, culturale, urbanistico, sanitario) coinvolti nella realizzazione dell’opera. La finalità di composizione degli interessi coinvolti è perseguita dalla previsione dell’autorizzazione unica (sentenza n. 249 del 2009), che, pur attribuita alla competenza regionale, è il risultato di una conferenza di servizi, che assume, nell’intento della semplificazione e accelerazione dell’azione amministrativa, la funzione di coordinamento e mediazione degli interessi in gioco al fine di individuare, mediante il contestuale confronto degli interessi dei soggetti che li rappresentano, l’interesse pubblico primario e prevalente.

La precisazione contenuta nella norma impugnata, che fa salva la necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica nelle aree vincolate, non esaurisce la valutazione degli interessi variegati di cui l’autorizzazione unica è la risultante, e per la tutela dei quali sono chiamati a partecipare alla conferenza di servizi soggetti diversi dai responsabili dell’istallazione degli impianti. Escludendo dal procedimento di codecisione tali soggetti, la legge regionale fuoriesce dal modello procedimentale individuato, per ragioni di uniformità, dalla legge statale (sentenze n. 62 del 2008 e n. 383 del 2005).

Il riconosciuto contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., assorbe gli ulteriori profili di doglianza (artt. 3 e 117, secondo comma, lettera e, Cost.).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, della legge della Regione Toscana 23 novembre 2009 n. 71 (Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 39 – Disposizioni in materia di energia), nella parte in cui, sostituendo il comma 3 dell’art. 16, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 39 (Disposizioni in materia di energia), ha inserito i numeri 1 e 2 della lettera f);

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge della Regione Toscana n. 71 del 2009;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 10, comma 2, per il resto, della legge della Regione Toscana n. 71 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

SENTENZA N. 314

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 9 e 10 della legge della Regione Toscana 9 novembre 2009, n. 66, recante «Modifiche alla legge regionale 1° dicembre 1998, n. 88 (Attribuzione agli enti locali e disciplina generale delle funzioni amministrative e dei compiti in materia di urbanistica e pianificazione territoriale, protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, risorse idriche e difesa del suolo, energia e risorse geotermiche, opere pubbliche, viabilità e trasporti conferite alla Regione dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112), alla legge regionale 11 dicembre 1998, n. 91 (Norme per la difesa del suolo) e alla legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), in materia di porti di interesse regionale, navigazione interna, controlli sulla sicurezza sismica delle opere e delle infrastrutture di competenza statale», promosso d al Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 5-11 gennaio 2010, depositato in cancelleria il 12 gennaio 2010 ed iscritto al n. 4 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;

udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi l’avvocato dello Stato Pierluigi Di Palma per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Nicoletta Gervasi per la Regione Toscana.

Ritenuto in fatto.

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso del 4 gennaio 2010, depositato in cancelleria il 12 gennaio 2010, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 9 e 10 della legge della Regione Toscana 9 novembre 2009, n. 66, recante «Modifiche alla legge regionale 1° dicembre 1998, n. 88 (Attribuzione agli enti locali e disciplina generale delle funzioni amministrative e dei compiti in materia di urbanistica e pianificazione territoriale, protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, risorse idriche e difesa del suolo, energia e risorse geotermiche, opere pubbliche, viabilità e trasporti conferite alla Regione dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112), alla legge regionale 11 dicembre 1998, n. 91 (Norme per la difesa del suolo) e alla legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), in materia di porti di inter esse regionale, navigazione interna, controlli sulla sicurezza sismica delle opere e delle infrastrutture di competenza statale», per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, che riserva alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni la materia «porti e aeroporti civili».

Le norme impugnate secondo lo Stato sarebbero censurabili per i seguenti motivi:

a) l’art. 1, nel sostituire l’art. 25 della legge regionale 1° dicembre 1998, n. 88, ai commi 1 e 2, in particolare, riserva alla Regione le funzioni per la «valutazione dell’idoneità tecnica dei progetti relativi alle opere realizzate nei porti di interesse regionale ivi compresi i progetti relativi alle opere di grande infrastrutturazione portuale» (art. 25, comma 1, lett. b). A tale fine sono considerate opere di grande infrastrutturazione le costruzioni di canali marittimi, di dighe foranee di difesa, di darsene, di bacini e di banchine attrezzate, nonché l’escavazione e l’approfondimento dei fondali;

b) l’art. 9, nel sostituire l’art. 47-ter della legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1, al comma 3, prevede espressamente che la struttura regionale competente debba esprimere parere obbligatorio e vincolante sull’idoneità tecnica delle previsioni contenute nel piano regolatore portuale, entro sessanta giorni dalla trasmissione del piano;

c) l’art. 10, nell’introdurre l’art. 47-quater all’interno della stessa legge regionale n. 1 del 2005, dispone che tutti i progetti delle opere dei porti di interesse regionale siano conformi al piano regolatore portuale e siano approvati dal comune di interesse, previa valutazione positiva dell’idoneità tecnica effettuata dalla struttura regionale competente ai sensi dell’articolo 25, comma 1, lett. b), come modificato ai sensi del citato articolo 1 della legge regionale in esame.

Dette norme, così come esplicitato al punto 11 del «Considerato» del preambolo della legge regionale, che della legge stessa costituisce parte integrante, disciplinano la funzione concernente la valutazione dell’idoneità tecnica dei progetti relativi alle opere dei porti regionali, individuando una struttura regionale che opera detta valutazione, attività svolta in precedenza dal Consiglio superiore dei lavori pubblici.

Le predette norme regionali, attribuendo la prevista attività valutativa esclusivamente agli uffici regionali, si pongono in contrasto con il complesso di disposizioni statali che affermano l’obbligatorietà del parere – peraltro non vincolante – del Consiglio superiore dei lavori pubblici in materia di «Piani regolatori portuali» e realizzazione delle relative opere.

Infatti, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, ai sensi dell’art. 127 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) e dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 2006, n. 204 (Regolamento di riordino del Consiglio superiore dei lavori pubblici), esercita funzioni consultive ed esprime pareri, tra l’altro, di carattere obbligatorio sui progetti definitivi, ovvero, nei casi previsti dalla legge, sui progetti preliminari, di lavori pubblici di competenza statale, o comunque finanziati per almeno il 50 per cento dallo Stato, di importo superiore ai 25 milioni di euro, sui piani portuali, ai sensi dell’articolo 5 della legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale). Si segnala inoltre che l’art. 8, comma 1, n. 6), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Dis posizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile), tra le modifiche alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), volte alla certezza dei tempi in caso di attività consultiva e valutazioni tecniche, ha introdotto una specifica disposizione a salvaguardia della previsione di cui all’articolo 127 del predetto codice dei contratti pubblici.

Rispetto all’obbligatorietà del parere previsto dalla normativa statale di riferimento in materia di «Piani regolatori portuali» e realizzazione delle relative opere in capo al Consiglio superiore dei lavori pubblici, la legge regionale nulla dispone, attribuendo l’attività valutativa esclusivamente agli uffici regionali competenti.

Alla luce del complesso delle disposizioni statali riferite alla materia in oggetto non potrebbe che desumersi che le stesse, nel prevedere il parere obbligatorio del Consiglio superiore dei lavori pubblici, concretizzino un principio fondamentale nella materia di potestà concorrente «porti e aeroporti civili», a garanzia dell’uniformità sul territorio nazionale dei criteri per lo sviluppo coerente ed organico della pianificazione delle aree portuali e che tale principio non possa essere disatteso dal legislatore regionale.

Pertanto, le norme regionali sopra richiamate risulterebbero adottate in violazione dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, considerato il mancato rispetto del principio fondamentale in materia di «porti e aeroporti civili», riferito all’obbligatorietà dell’acquisizione del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici per la realizzazione di opere all’interno di un porto.

2.– Con memoria del 29 gennaio 2010 la regione Toscana ha chiesto che il ricorso sia respinto, rilevando che l’articolo 105 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dall’art. 9 della legge 16 marzo 2001, n. 88 (Nuove disposizioni in materia di investimenti nelle imprese marittime), successivo alla normativa di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale), stabilisce la permanenza in capo allo Stato delle sole funzioni amministrative nei porti finalizzati alla difesa militare ed alla sicurezza dello Stato, nei porti di rilevanza economica nazionale ed internazionale nonché nelle aree di preminente interesse nazionale individuate con l’aggiornamento del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicemb re 1995 (Identificazione delle aree demaniali marittime escluse della delega alle regioni ai sensi dell’art. 59 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), ai sensi di quanto previsto dall’art. 4 della legge n.84 del 1994.

Tale assetto di competenze è stato considerato conforme a Costituzione dalla Corte costituzionale che, nelle sentenze n. 89 del 2006 e n. 344 del 2007, ha chiarito che i porti non classificati come finalizzati alla difesa militare e alla sicurezza dello Stato, né come porti di rilevanza economica internazionale e nazionale, sono di interesse economico regionale, e nel loro ambito le competenze sono regionali; questo per il rispetto del riparto di attribuzioni risultante dall’art. 117 della Costituzione nelle materie del governo del territorio, porti ed aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, turismo, industria alberghiera e lavori pubblici.

In sostanza, il Consiglio superiore dei lavori pubblici esprime il suo parere tecnico sulle opere e sui piani regolatori relativi ai porti di competenza statale e non anche a quelli di rilievo regionale. Infatti l’art. 105 del d.lgs. n. 112 del 1998 non ha posto alcuna eccezione in ordine alle funzioni consultive mantenute in capo ad un organo consultivo statale, ma ha chiaramente stabilito che tutte le funzioni sono trasferite alle Regioni e, in particolare, quelle relative alla programmazione, pianificazione, progettazione ed esecuzione degli interventi di costruzione, bonifica e manutenzione dei porti di rilievo regionale ed interregionale e delle opere edilizie a servizio dell’attività portuale.

L’art. 127 del d.lgs. n. 163 del 2006 chiarisce, poi, in modo inequivocabile che il Consiglio superiore dei lavori pubblici è il massimo organo tecnico consultivo dello Stato. Non si rinviene dunque, nell’ordinamento vigente, il principio alla luce del quale detto organo debba esprimere un parere obbligatorio su tutti i piani regolatori dei porti di rilievo regionale. Tale norma inoltre prevede che il Consiglio superiore dei lavori pubblici esprime parere obbligatorio sui progetti definitivi dei lavori pubblici di competenza statale o comunque finanziati per almeno la metà dallo Stato. Dunque, il ruolo consultivo obbligatorio del Consiglio è chiaramente ricondotto alle opere di competenza dello Stato, mentre, come rilevato, per i porti regionali ormai le competenze fanno capo alle Regioni. L’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 2006, n. 204, (Regolamento di riordino del Consiglio superiore dei lavori pu bblici) parimenti fa riferimento al ruolo consultivo del Consiglio superiore dei lavori pubblici per i compiti attribuiti allo Stato e, anzi, aggiunge che ciò avviene «nel rispetto delle prerogative delle Regioni». Ancora, l’art. 5 della legge n. 84 del 1994 deve essere letto alla luce del trasferimento di competenze operato dal richiamato art. 105 del d.lgs. n. 112 del 1998. Infine, l’art. 8, comma 6-bis, della legge n. 69 del 2009 dispone che resta fermo quanto previsto dall’art. 127 del d.lgs. n. 163 del 2006 e successive modificazioni, con la conseguenza che, per le Amministrazioni diverse dallo Stato, il Consiglio superiore rilascia i propri pareri su richiesta delle Amministrazioni stesse. Le norme regionali non violerebbero dunque alcun principio posto dalla normativa statale.

3.– Nell’imminenza della discussione la Regione Toscana ha depositato memoria con la quale ha ribadito le argomentazioni contenute nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale degli articoli 1, 9 e 10 della legge della Regione Toscana 9 novembre 2009, n. 66, recante «Modifiche alla legge regionale 1° dicembre 1998, n. 88 (Attribuzione agli enti locali e disciplina generale delle funzioni amministrative e dei compiti in materia di urbanistica e pianificazione territoriale, protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, risorse idriche e difesa del suolo, energia e risorse geotermiche, opere pubbliche, viabilità e trasporti conferite alla Regione dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112), alla legge regionale 11 dicembre 1998, n. 91 (Norme per la difesa del suolo) e alla legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), in materia di porti di interesse regionale, navigazione interna, controlli sulla sicurezza sismica delle opere e dell e infrastrutture di competenza statale», per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, che riserva alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni la materia «porti e aeroporti civili», in quanto, attribuendo la valutazione dell’idoneità tecnica dei progetti relativi alle opere realizzate nei porti regionali esclusivamente agli uffici regionali, le norme impugnate si porrebbero in contrasto con il complesso di disposizioni statali che affermano l’obbligatorietà del parere – peraltro non vincolante – del Consiglio superiore dei lavori pubblici in materia di «Piani regolatori portuali».

A queste conclusioni si oppone la Regione, la quale sostiene che, dopo l’entrata in vigore dell’articolo 105 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dall’articolo 9 della legge 16 marzo 2001, n. 88, (Nuove disposizioni in materia di investimenti nelle imprese marittime), successivo alla normativa di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84, (Riordino della legislazione in materia portuale), sono rimaste allo Stato solo le funzioni amministrative nei porti finalizzati alla difesa militare ed alla sicurezza dello Stato, nei porti di rilevanza economica nazionale ed internazionale nonché nelle aree di preminente interesse nazionale individuate con l’aggiornamento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 dicembre 1995 (Identificazione delle a ree demaniali marittime escluse della delega alle regioni ai sensi dell’art. 59 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), ai sensi di quanto previsto dall’art. 4 della citata legge n. 84 del 1994.

2.– Il ricorso è fondato.

2.1.– È necessario partire dall’esame della legge n. 84 del 1994, il cui art. 4 opera la distinzione tra porti di interesse internazionale, statale e regionale, mentre il successivo art. 5 stabilisce che il piano regolatore portuale è inviato per il parere al Consiglio superiore dei lavori pubblici.

Sulla base delle citate disposizioni lo Stato ritiene che la normativa impugnata, escludendo il parere obbligatorio del Consiglio superiore dei lavori pubblici, violi l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Infatti: l’art. 1, comma 1, lettera b), della Regione Toscana n. 66 del 2009, attribuisce alla Regione la valutazione dell’idoneità tecnica dei progetti relativi alle opere realizzate nei porti di interesse regionale, ivi compresi i progetti relativi alle opere di grande infrastrutturazione portuale; l’art. 9, comma 3, dispone che la struttura regionale competente esprime parere obbligatorio e vincolante sull’idoneità tecnica delle previsioni contenute nel piano regolatore portuale, entro sessanta giorni dalla trasmissione del piano; mentre l’art. 10, comma 1, stabilisce che tutti i progetti delle opere dei porti di interesse regionale sono conformi al piano regolatore portuale e sono approvati dal comune, previa valutazione positiva dell’idoneità tecnica effettuata dalla struttura regionale competente ai sensi dell’articolo 25, comma 1, lettera b), della citata legge regionale 1° dicembre 1998, n. 88.

Successivamente alla legge n. 84 del 1994, è intervenuto il d.lgs. n. 112 del 1998, il quale, all’art. 104, stabilisce che «1. Sono mantenute allo Stato le funzioni relative: (omissis) s) alla classificazione dei porti; alla pianificazione, programmazione e progettazione degli interventi aventi ad oggetto la costruzione, la gestione, la bonifica e la manutenzione dei porti e delle vie di navigazione, delle opere edilizie a servizio dell’attività portuale, dei bacini di carenaggio, di fari e fanali, nei porti di rilievo nazionale e internazionale»; mentre il successivo art. 105 dispone che «1. Sono conferite alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni non espressamente indicate negli articoli del presente capo e non attribuite alle autorità portuali dalla legge 28 gennaio 1994, n. 84, e successive modificazioni e integrazioni. 2. Tra le funzioni di cui al comma 1 sono, in particolare, conferite alle regioni le funzioni relative : (omissis) e) alla programmazione, pianificazione, progettazione ed esecuzione degli interventi di costruzione, bonifica e manutenzione dei porti di rilievo regionale e interregionale delle opere edilizie a servizio dell’attività portuale».

Da tali norme emerge che residuano allo Stato solo le funzioni concernenti porti internazionali e nazionali, mentre risultano attribuite alla Regione tutte le funzioni concernenti i porti regionali, con esclusione della subordinazione dell’esercizio di tali attività al parere del Consiglio superiore.

A ciò si deve aggiungere che ai sensi dell’art. 127 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) «Il Consiglio superiore dei lavori pubblici esprime parere obbligatorio sui progetti definitivi di lavori pubblici di competenza statale, o comunque finanziati per almeno il 50 per cento dallo Stato, di importo superiore ai 25 milioni di euro, nonché parere sui progetti delle altre stazioni appaltanti che siano pubbliche amministrazioni, sempre superiori a tale importo, ove esse ne facciano richiesta. Per i lavori pubblici di importo inferiore a 25 milioni di euro, le competenze del Consiglio superiore sono esercitate dai comitati tecnici amministrativi presso i servizi integrati infrastrutture e trasporti (SIIT). Qualora il lavoro pubblico di importo inferiore a 25 milioni di euro, presenti elementi di particolare rilevanz a e complessità, il direttore del settore infrastrutture sottopone il progetto, con motivata relazione illustrativa, al parere del Consiglio superiore».

Inoltre, l’art. 1 del d.P.R. 27 aprile 2006, n. 204 (Regolamento di riordino del Consiglio superiore dei lavori pubblici) dispone che «Il Consiglio superiore, nell’ambito dei compiti attribuiti allo Stato e nel rispetto delle prerogative delle regioni e delle province autonome, delle province e dei comuni, esercita funzioni consultive ed esprime pareri: a) di carattere obbligatorio sui progetti definitivi, ovvero, nei casi previsti dalla legge, sui progetti preliminari, di lavori pubblici di competenza statale, o comunque finanziati per almeno il 50 per cento dallo Stato, di importo superiore ai 25 milioni di euro, sui piani portuali, ai sensi dell’articolo 5 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, e inoltre sui progetti di competenza statale o comunque finanziati per almeno il 50 per cento dallo Stato relativi all’informatica ed alle infrastrutture tecnologiche a servizio del trasporto combinato terrestre e marittimo, dei sistemi portuali , degli interporti e della logistica, onde garantire l’interoperabilità delle tecnologie e delle piattaforme software e agevolare l’accesso alle infrastrutture di trasporto».

Infine, l’art. 8, comma 6-bis, della legge n. 69 del 2009 dispone che resta fermo quanto previsto dall’art. 127 d.lgs. n. 163 del 2006 e successive modificazioni.

Dalla successione temporale delle disposizioni richiamate emerge chiaramente che, sulla base degli artt. 4 e 5 della legge n. 84 del 1994, il piano regolatore portuale, adottato nei modi di legge, era inviato per il parere obbligatorio al Consiglio superiore dei lavori pubblici, che si esprimeva entro quarantacinque giorni dal ricevimento dell’atto, intendendosi tale parere reso in senso favorevole dopo l’inutile decorso del predetto termine. A seguito del mutamento del quadro normativo per effetto delle ricordate disposizioni di cui agli artt. 104 e 105 del d.lgs. n. 112 del 1998 e 127 del d.lgs. n. 163 del 2006, la richiesta obbligatoria del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici è esclusa solo con riguardo ai progetti definitivi di opere portuali di competenza regionale che non siano finanziati per almeno il cinquanta per cento dallo Stato, o che siano di importo non superiore a venticinque milioni di euro.

Viceversa il mantenimento del parere obbligatorio del Consiglio superiore dei lavori pubblici per le altre ipotesi costituisce principio fondamentale della materia «porti e aeroporti civili», e pertanto le norme impugnate - le quali invece escludono in ogni caso la richiesta di questo parere - sono costituzionalmente illegittime per contrasto con tale principio fondamentale e, quindi, con l’art. 117, terzo comma, Cost.

Ne consegue che deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 9 e 10 della legge della Regione Toscana n. 66 del 2009, nella parte in cui escludono la richiesta obbligatoria del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici con riguardo ai progetti definitivi di opere portuali di competenza regionale, che siano finanziati per almeno il cinquanta per cento dallo Stato e che siano di importo superiore a venticinque milioni di euro.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 9 e 10 della legge della Regione Toscana 9 novembre 2009, n. 66, recante «Modifiche alla legge regionale 1° dicembre 1998, n. 88 (Attribuzione agli enti locali e disciplina generale delle funzioni amministrative e dei compiti in materia di urbanistica e pianificazione territoriale, protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, risorse idriche e difesa del suolo, energia e risorse geotermiche, opere pubbliche, viabilità e trasporti conferite alla Regione dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112), alla legge regionale 11 dicembre 1998, n. 91 (Norme per la difesa del suolo) e alla legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), in materia di porti di interesse regionale, navigazione interna, controlli sulla sicurezza sismica delle opere e delle infrastrutture di competenza statale», nella parte in cui escludono la richiesta obbligatoria del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici con riguardo ai progetti definitivi di opere portuali di competenza regionale che siano finanziati per almeno il cinquanta per cento dallo Stato e che siano di importo superiore a venticinque milioni di euro.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

SENTENZA N. 315

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 18, della legge della Regione Liguria 1° luglio 1994, n. 29 (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio), promosso dal Tribunale amministrativo della Liguria nel procedimento vertente tra la Onlus Associazione Verdi Ambiente e Società - V.A.S. e la Regione Liguria ed altri, con ordinanza del 9 dicembre 2009, iscritta al numero 134 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di costituzione della Onlus Associazione Verdi Ambiente e Società - V.A.S. e della Regione Liguria;

udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

udito l’avvocato Gigliola Benghi per la Regione Liguria.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 9 dicembre 2009, il Tribunale amministrativo della Liguria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 18, della legge della Regione Liguria 1° luglio 1994, n. 29 (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

1.1. – Il giudice a quo è investito del ricorso proposto dalla Onlus Associazione Verdi Ambiente e Società - V.A.S. contro la Regione Liguria, l’Ente Parco di Portovenere ed il Comune di Portovenere, per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della deliberazione del Consiglio regionale - Assemblea legislativa della Liguria 11 ottobre 2007, n. 38 (Piano del Parco di Portovenere. Articolo 18 legge regionale 22 febbraio 1995 n. 12 – Riordino delle aree protette – e successive modifiche).

1.1.1. – Il rimettente, dopo aver precisato che l’Associazione ricorrente è legittimata ad agire in sede di giurisdizione amministrativa ex art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale), illustra le censure prospettate nel ricorso, relative all’art. 15.2 del piano del parco di Portovenere, concernente l’esercizio della caccia nelle cosiddette aree contigue (AC), ed agli artt. 14.4, lettera C), e 20.6 del medesimo piano, che individuano come centro produttivo speciale (CPS) quello denominato “Cavetta”, consentendovi, sia pure a certe condizioni, l’estrazione di materiale litoide fino alla scadenza dell’autorizzazione all’esercizio di cava (prevista per il 6 agosto 2011).

L’Associazione ricorrente deduce tre motivi di ricorso:

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette); eccesso di potere per difetto del presupposto, per contraddittorietà, illogicità ed irrazionalità manifeste.

In particolare, l’art. 15.2 del piano del parco violerebbe l’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991: a) nella parte in cui attribuisce la facoltà di esercitare l’attività venatoria nell’area contigua a tutti i soggetti abilitati all’esercizio della caccia nel territorio sul quale la detta area insiste, anziché ai soli residenti dei Comuni dell’area naturale protetta e dell’area contigua; b) nella parte in cui non contiene limitazioni di tempo, di luogo e di capi da abbattere, all’attività venatoria esercitabile all’interno dell’area contigua, secondo le modalità della cosiddetta caccia controllata.

2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge n. 394 del 1991; eccesso di potere per difetto del presupposto, per contraddittorietà intrinseca ed illogicità manifeste; sviamento; violazione del principio di ragionevolezza e del principio di proporzionalità degli atti amministrativi; violazione del principio di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.

In proposito, la ricorrente osserva che la facoltà di esercitare la caccia nelle aree contigue, le quali, pur essendo esterne all’area protetta del parco, sono a questa funzionalmente connesse, rischia di compromettere le finalità di difesa della fauna sottese all’istituzione dell’area protetta.

3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della legge n. 394 del 1991; eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione e per contraddittorietà intrinseca ed illogicità manifeste.

La creazione del CPS “Cavetta” introdurrebbe, infatti, una deroga non motivata al divieto di esercizio di cave e miniere nell’ambito delle aree protette, previsto dal citato art. 11, comma 3, lettera b).

1.1.2. – Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria riferisce, altresì, che nel giudizio principale si è costituita la Regione Liguria, chiedendo il rigetto del ricorso.

Quanto ai primi due motivi di ricorso, la Regione ha obiettato che l’art. 15.2 del piano del parco non avrebbe portata innovativa, limitandosi a rinviare sul punto alla disciplina regionale esistente. In particolare, l’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994 stabilisce che «L’esercizio venatorio nelle aree contigue dei parchi individuate dalla Regione ai sensi dell’articolo 3 comma 2 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, si svolge nella forma di caccia controllata riservata ai cacciatori aventi diritto all’accesso negli Ambiti territoriali di caccia e dei Comprensori alpini su cui insiste l’area contigua naturale protetta».

Dunque, a parere della Regione Liguria, il piano del parco si limiterebbe a recepire la normativa regionale in materia, in base alla quale gli aventi diritto all’accesso negli ambiti territoriali di caccia (A.T.C.), su cui insiste l’area contigua, sono non solo i residenti ma anche, «potenzialmente», i cacciatori provenienti da altri A.T.C., da altre Province o, addirittura, da altre Regioni (art. 25, comma 6, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994), entro i limiti di densità venatoria ai quali le Province debbono fare riferimento per la programmazione e per l’individuazione del numero di cacciatori ammessi annualmente ad ogni A.T.C. ex art. 25, comma 1, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994.

In definitiva, l’art. 15.2 del piano del parco, ancorché in contrasto con l’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991, sarebbe conforme all’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994.

1.2. – Dopo aver riassunto le argomentazioni prospettate dalle parti nel giudizio a quo, il Tribunale amministrativo regionale della Liguria illustra le ragioni per le quali ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 25, comma 18, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

1.2.1. – In merito alla rilevanza della questione, il rimettente assume che il giudizio principale non potrebbe essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione, giacché la norma del piano del parco, censurata con i primi due motivi di ricorso (art. 15.2), si limita a recepire sul punto la disciplina della caccia nelle aree contigue stabilita dall’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994.

1.2.2. – La questione sarebbe anche non manifestamente infondata. Al riguardo, il Tribunale amministrativo sottolinea che l’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991 contiene una disposizione di principio, la quale – come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 366 del 1992 – si impone addirittura alla competenza legislativa esclusiva in materia di caccia, riconosciuta alla Regione Sardegna dal proprio statuto speciale.

In particolare, il giudice a quo evidenzia come la Corte costituzionale abbia precisato che «Il divieto della caccia nella zona protetta e la limitazione della stessa nelle zone contigue ineriscono alle finalità essenziali della protezione della natura e, in particolare, a quelle attinenti ai parchi e alle riserve naturali». Da questo assunto il rimettente deduce che siffatta limitazione della caccia costituiva, prima della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, «un principio fondamentale al cui rispetto era vincolata anche la legislazione concorrente precedentemente riconosciuta alle regioni ordinarie in materia di caccia».

Dunque, secondo il Tribunale amministrativo, nel previgente assetto costituzionale, la norma di cui all’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994 si poneva in contrasto con la disposizione di principio dettata dall’art. 32, comma 3, della legge quadro statale n. 394 del 1991.

Sempre secondo il giudice a quo, a seguito della riforma costituzionale del 2001 la disciplina relativa alle aree naturali deve ritenersi «senz’altro compresa nell’ambito dell’ambiente e dell’ecosistema, rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.». Inoltre, in base all’esigenza unitaria espressa dalla norma costituzionale appena citata, la disciplina statale finalizzata alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema può incidere sulla materia “caccia”, riservata alla potestà legislativa regionale, «ove l’intervento statale sia rivolto a garantire standards minimi e uniformi di tutela della fauna, trattandosi di limiti unificanti che rispondono a esigenze riconducibili ad ambiti riservati alla competenza esclusiva dello Stato».

Nel caso di specie, il rimettente ritiene che la norma di cui all’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991, essendo inerente «alle finalità essenziali della protezione della natura e, in particolare, a quelle attinenti ai parchi e alle riserve naturali», sarebbe rivolta a garantire standard minimi e uniformi di tutela della fauna nelle aree contigue e, pertanto, si imporrebbe anche alla legislazione regionale esclusiva in materia di caccia.

Al riguardo, il Tribunale amministrativo richiama quanto disposto dall’art. 1, comma 2, secondo periodo, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), secondo cui «Le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale».

Secondo il giudice a quo, dalla norma appena citata deriverebbe che le disposizioni regionali di dettaglio (nel caso di specie, l’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994) – vigenti in una materia già appartenente alla legislazione regionale concorrente ed ora riferibile alla legislazione esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni statali di dettaglio, salvo che non risultino in contrasto con i principi fondamentali già dettati dalle leggi statali previgenti. In quest’ultimo caso, si imporrebbe la proposizione della questione di legittimità costituzionale.

In conclusione, la norma censurata, nella parte in cui consente la caccia nelle aree contigue anche a soggetti ivi non residenti, si porrebbe in aperto contrasto con la norma di principio di cui all’art. 32, comma 3, della legge quadro statale n. 394 del 1991 sulle aree protette, «la quale, inerendo alle finalità essenziali della protezione della natura e, in particolare, a quelle attinenti ai parchi ed alle riserve naturali, mira a garantire standards minimi e uniformi di tutela della fauna nelle aree contigue, mediante l’apposizione di limiti unificanti che rispondono a esigenze riconducibili ad ambiti oggi riservati alla competenza esclusiva dello Stato».

2. – Nel giudizio si è costituita la Regione Liguria chiedendo che la questione sia dichiarata «inammissibile, improcedibile e comunque sia respinta nel merito, siccome infondata».

2.1. – La difesa regionale ritiene che il percorso argomentativo seguito dal Tribunale rimettente non sia convincente e presenti «gravi lacune nella ricostruzione normativa», tali da indurre ad un’errata interpretazione della disposizione censurata.

In particolare, la Regione sottolinea come la ratio dell’art. 32 della legge n. 394 del 1991 sia quella di limitare il libero accesso nelle aree contigue da parte di cacciatori provenienti da tutto il territorio nazionale; accesso che era invece consentito dalla legge vigente a quel tempo (legge 27 dicembre 1977, n. 968 – Principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia), la quale si limitava a regolare la “caccia controllata” (cioè soggetta a limitazioni di tempo, di luogo e di capi da abbattere) mentre per il resto l’esercizio venatorio era libero su tutto il territorio nazionale.

Successivamente, però, la legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) ha introdotto profonde innovazioni nel sistema. Infatti, al concetto di “caccia controllata” si è sostituito quello di “caccia programmata” (fondato sulla pianificazione faunistico-venatoria, finalizzata alla conservazione delle specie ed al conseguimento della densità ottimale) ed è stato introdotto il criterio della “residenza venatoria”, che collega il cacciatore ad un preciso ambito territoriale.

La difesa regionale precisa altresì come il carattere innovativo della disciplina introdotta nel 1992 sia stato riconosciuto dalla Corte costituzionale, la quale, più volte, ha attribuito alle norme recate dalla legge in questione il carattere di «norme di grande riforma economico-sociale», come tali vincolanti anche per le Regioni speciali.

Secondo la medesima difesa, pertanto, le Regioni non possono non applicare il nuovo sistema delle modalità di caccia, anziché la vecchia rigida norma di cui all’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991, la quale «aveva come obiettivo il mero restringimento della platea dei cacciatori rispetto al potenziale nazionale consentito, ma non permetteva alcuna modulazione proporzionale».

La Regione Liguria ritiene che la normativa censurata abbia attuato il sistema previsto dalla legge n. 157 del 1992, consentendo l’esercizio della caccia entro limiti flessibili dettati dalla valutazione dei dati a disposizione, «in modo da individuare regole aderenti alle reali necessità del territorio». Anzi, le norme sulle aree contigue, recate dalla legge reg. Liguria n. 29 del 1994, conterrebbero «ulteriori cautele ambientali», prevedendo l’obbligatoria intesa fra Province, organi di gestione degli Ambiti territoriali di caccia e organi di gestione dell’area protetta (art. 25, commi 19 e 20).

Secondo la difesa regionale, il rimettente non avrebbe preso in considerazione il contesto normativo in cui si colloca la norma censurata e si sarebbe limitato a richiamare le valenze di carattere ambientale della legge n. 394 del 1991 e la sua prevalenza sulla disciplina regionale in materia di caccia, come sancito dalla sentenza n. 366 del 1992 della Corte costituzionale. Quest’ultima pronunzia, poi, non sarebbe pertinente al caso in esame, sia perché con essa è stata dichiarata la primarietà della normativa ambientale su quella dell’esercizio della caccia e sia perché il relativo giudizio è stato attivato prima dell’entrata in vigore della legge n. 157 del 1992.

In definitiva, per la Regione Liguria il Tribunale rimettente avrebbe omesso di sperimentare una lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata, attraverso l’interposta normativa di tutela dell’ambiente dettata dalla legge n. 157 del 1992. Per questa ragione, la questione sollevata sarebbe inammissibile, ancor prima che infondata.

2.2. – Da ultimo, la difesa regionale rileva come l’ambito di applicazione dell’art. 32 della legge n. 394 del 1991 debba intendersi limitato alle sole zone contigue ad aree protette nazionali. Se così non fosse, infatti, non avrebbe senso la precisazione, contenuta nel comma 2 dell’art. 32, secondo cui i confini delle aree contigue sono determinati dalle Regioni sul cui territorio si trova l’area naturale protetta.

Tale interpretazione sarebbe confortata dalla circostanza che nessuna delle norme dettate dal Titolo III (Aree naturali protette regionali) della legge n. 394 del 1991 contempla le aree contigue.

Così individuato l’ambito di applicazione dell’art. 32 della legge n. 394 del 1991, la prospettata questione di legittimità costituzionale sarebbe infondata in quanto mancherebbe un qualsivoglia «collegamento» fra l’atto impugnato (piano del parco regionale di Portovenere) e la legge reg. Liguria n. 29 del 1994, da un lato, e il citato art. 32, dall’altro.

3. – Nel giudizio si è costituita anche la Onlus Associazione Verdi Ambiente e Società - V.A.S. chiedendo che la questione sia dichiarata fondata o, in subordine, inammissibile per carenza del requisito della rilevanza.

3.1. – L’Associazione ambientalista, dopo aver riassunto il contento dell’ordinanza di rimessione, sottolinea come la questione sollevata sia rilevante e meriti di essere accolta.

3.1.1. – Quanto alla rilevanza, la parte privata evidenzia come la delibera del Consiglio regionale, impugnata nel giudizio a quo, sia applicativa della disciplina contenuta nell’art. 25 della legge reg. Liguria n. 29 del 1994, della cui legittimità costituzionale si dubita. Tale norma, così come la previsione di attuazione contenuta nel piano del parco di Portovenere, permette l’esercizio venatorio nelle aree contigue ai parchi, nella forma della caccia controllata, a tutti i cacciatori aventi a qualsiasi titolo diritto all’accesso negli Ambiti territoriali di caccia e nei Comprensori alpini su cui insiste l’area contigua.

Pertanto, sia la disposizione del piano del parco sia la norma regionale sulla quale si fonda la prima, si porrebbero in contrasto con l’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991, che limita l’accesso con finalità venatoria all’area contigua ai soli cacciatori residenti nella zona contigua medesima, od all’interno dell’area protetta.

La parte costituita esamina, poi, il contesto normativo statale e regionale in cui si colloca la norma censurata, evidenziando come, a seguito della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, la competenza legislativa delle Regioni in materia di caccia si sia trasformata da concorrente a residuale.

Tuttavia – aggiunge l’Associazione – la gran parte delle disposizioni di principio contenute nelle leggi statali ancora vigenti ha assunto, in virtù dell’opera di esegesi della giurisprudenza costituzionale, la nuova veste di standard minimo di tutela della fauna, in quanto parte fondamentale del primario ed assoluto interesse costituzionale alla salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema, attribuito alla competenza piena dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Quindi, la tutela della fauna, come componente dell’unitario valore “ambiente”, è sottoposta ai requisiti minimi di tutela introdotti dal legislatore statale, ai quali le Regioni devono uniformarsi.

Tra i requisiti minimi citati rientrerebbe, sempre secondo l’Associazione ambientalista, la norma di cui all’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991, che limita fortemente l’accesso a fini venatori alle aree contigue ai parchi naturali al fine di proteggere la fauna selvatica ivi stanziata.

Questa ricostruzione troverebbe conferma nell’art. 21, comma 1, lettera b), della legge n. 157 del 1992, secondo cui le Regioni, in ossequio all’esigenza di salvaguardia dell’ambiente e della fauna, provvedono «all’eventuale riperimetrazione dei parchi naturali regionali anche ai fini dell’applicazione dell’articolo 32, comma 3», sopra citato.

Sulla base delle suddette argomentazioni, l’Associazione ambientalista ritiene che il Tribunale rimettente non possa in alcun modo definire il giudizio senza prima sciogliere il dubbio di costituzionalità in ordine all’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994, dal quale la deliberazione impugnata nel giudizio a quo trae il proprio fondamento giuridico, costituendone immediata e diretta attuazione.

3.1.2. – La fondatezza della questione si evincerebbe già dalla semplice interpretazione letterale delle disposizioni coinvolte: infatti, mentre l’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991 stabilisce che l’accesso a fini venatori all’area contigua è consentito «ai soli residenti dei comuni dell’area naturale protetta e dell’area contigua», l’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994 prevede che l’attività venatoria nella zona sia «riservata ai cacciatori aventi diritto all’accesso negli Ambiti territoriali di caccia e dei Comprensori alpini su cui insiste l’area contigua naturale protetta».

Secondo l’Associazione ambientalista, «è di tutta evidenza come la formula utilizzata dal legislatore regionale abbia un ambito di applicazione diverso e più esteso di quella introdotta dal legislatore statale, che, tra tutti i titoli che possono legittimare l’accesso alla zona contigua, ha scelto di privilegiare il solo status di residente ai fini dello svolgimento dell’attività venatoria in loco».

In particolare, l’interpretazione sistematica del censurato comma 18 e degli altri commi (specialmente il comma 6) del censurato art. 25, nonché dell’art. 27 della medesima legge regionale, dimostrerebbe la maggiore ampiezza dell’ambito di applicazione della norma oggetto dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale.

Da quanto appena detto discenderebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994, nella parte in cui, violando lo standard minimo di tutela previsto dal legislatore statale nell’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991, permette l’accesso a fini venatori all’area contigua al parco naturale di Portovenere «ai cacciatori aventi diritto all’accesso», anziché «ai soli residenti dei comuni dell’area naturale protetta e dell’area contigua», per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

3.2. – In subordine, la difesa dell’Associazione costituitasi in giudizio assume che l’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991 sia direttamente applicabile nel giudizio a quo e quindi chiede che la questione sia dichiarata inammissibile in quanto priva di rilevanza.

In particolare, si sostiene che l’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994 goda di «una particolare forza attiva e passiva, in forza del criterio di risoluzione delle antinomie cosiddetto “della competenza”». In ossequio al suddetto criterio, la palese antinomia esistente tra la norma regionale e quella statale e l’«assoluta preminenza del principio della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema rispetto ai frammentari interessi sottesi alla disciplina regionale» avrebbero potuto condurre il giudice a quo «a risolvere la questione in via interpretativa, individuando nella disposizione statale l’unica applicabile al caso di specie».

4. – In prossimità dell’udienza, hanno depositato memorie sia la Onlus Associazione Verdi Ambiente e Società - V.A.S. sia la Regione Liguria, ciascuna insistendo nelle conclusioni già rassegnate nei rispettivi atti di costituzione in giudizio.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo della Liguria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 18, della legge della Regione Liguria 1° luglio 1994, n. 29 (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

2. – La questione è fondata.

2.1. – La norma regionale censurata nel presente giudizio consente l’esercizio venatorio nelle aree contigue dei parchi «nella forma di caccia controllata riservata ai cacciatori aventi diritto all’accesso negli Ambiti territoriali di caccia e dei Comprensori alpini su cui insiste l’area contigua naturale protetta».

Per stabilire quali cacciatori abbiano diritto all’accesso, in base alla norma citata, negli Ambiti territoriali di caccia, occorre fare riferimento agli altri commi dell’art. 25 della legge reg. Liguria n. 29 del 1994.

In particolare, secondo il comma 2, «La Provincia comunica annualmente agli organismi di gestione il numero dei cacciatori che possono essere ammessi in ogni Ambito territoriale di caccia tenuto conto degli indici di cui al comma 1». Il comma 4 prevede: «Il cacciatore ha diritto di accesso all’Ambito territoriale di caccia o al Comprensorio alpino dove ha la residenza anagrafica o dove ha domicilio per motivi di pubblico servizio». I commi 5 e 6 prevedono la possibilità di accesso all’ambito territoriale anche per cacciatori che non abbiano in esso la residenza . In particolare, il comma 5 dispone che, nel caso in cui il numero dei «cacciatori residenti» sia superiore a quello dei «cacciatori ammissibili», «la Provincia provvede a destinare i cacciatori in esubero in altri Ambiti territoriali o Comprensori alpini»; il comma 6, a sua volta, prevede che possano essere ammessi, per i posti disponibili, dopo le iscrizioni compiute secondo le moda lità di cui ai commi precedenti, soggetti residenti nella Regione (lettera d), soggetti non residenti che svolgono l’attività lavorativa principale nella Regione (lettera e) e infine soggetti residenti in altre Regioni (lettera f). Inoltre il comma 8 stabilisce: «Il cacciatore che sia titolare dell’autorizzazione alla costituzione di un appostamento fisso di caccia con o senza l’uso di richiami vivi ha diritto ad essere iscritto all’Ambito o Comprensorio in cui è compreso l’appostamento». Ed ancora, il comma 9 dispone: «Limitatamente alla caccia alla selvaggina migratoria ed al cinghiale gli Ambiti territoriali di caccia e/o i Comprensori alpini possono consentire l’accesso sui territori di competenza e per un numero di giornate prestabilite ad altri cacciatori residenti in altri A.T.C. o C.A. della stessa provincia o di altre province pur ricadenti in altre regioni, anche oltre il limite di densità venatoria».

2.2. – L’art. 32, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), invocato dal rimettente quale norma interposta, stabilisce: «All’interno delle aree contigue le regioni possono disciplinare l’esercizio della caccia, in deroga al terzo comma dell’art. 15 della legge 27 dicembre 1977, n. 968, soltanto nella forma della caccia controllata, riservata ai soli residenti dei comuni dell’area naturale protetta e dell’area contigua, gestita in base al secondo comma dello stesso articolo 15 della medesima legge».

3. – Dal raffronto tra le norme regionali e la norma statale prima riportate si deduce agevolmente il contrasto tra esse, giacché quelle regionali ammettono, a vario titolo e sulla base di diversi presupposti, l’esercizio venatorio anche per soggetti che non siano residenti nei Comuni dell’area protetta o delle aree contigue, come stabilito invece tassativamente dalla norma statale. L’esito dell’odierno giudizio dipende pertanto dalla possibilità di riconoscere all’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991 efficacia vincolante nei confronti della Regione, che, come è noto, è titolare di competenza legislativa residuale in materia di caccia, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.

3.1. – Le norme contenute nella legge n. 394 del 1991, nella vigenza del testo originario del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, costituivano principi fondamentali, ai fini dell’esercizio della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di caccia.

A seguito della riforma costituzionale del 2001, la trasformazione della competenza legislativa regionale in materia da concorrente a residuale non ha fatto venir meno la forza vincolante delle suddette norme statali, le quali oggi assumono la veste di standard minimi uniformi, previsti dalla legislazione statale, nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Con riferimento alla questione in oggetto, la Regione pertanto non può prevedere soglie inferiori di tutela, mentre può, nell’esercizio di una sua diversa potestà legislativa, prevedere livelli maggiori, che implicano logicamente il rispetto degli standard adeguati ed uniformi fissati nelle leggi statali (sentenze n. 193 del 2010 e n. 61 del 2009).

Già sotto l’impero del precedente testo dell’art. 117 Cost., questa Corte, con riferimento alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni a statuto speciale, aveva precisato che il vincolo derivante dalla norma statale prima citata «non dipende da una determinata qualificazione della norma che ne esplicita la consistenza, ma dalla stessa previsione costituzionale della tutela della natura attraverso lo strumento delle aree naturali protette» (sentenza n. 366 del 1992).

Dopo la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, questa Corte ha riconosciuto, come si accennava sopra, con giurisprudenza costante, la competenza legislativa piena dello Stato in materia di aree naturali protette (ex plurimis, sentenze n. 272 del 2009, n. 387 del 2008, n. 108 del 2005, n. 422 del 2002).

4. – Devono essere ritenute prive di fondamento le ricostruzioni prospettate dalla difesa regionale, la quale lamenta il mancato esperimento, da parte del giudice a quo, di un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata. In particolare, secondo la Regione Liguria, il rimettente non avrebbe tenuto conto del mutamento del contesto normativo operato dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), che si ispirerebbe al principio della “caccia programmata”, al posto del precedente criterio della “caccia controllata”, cui invece si ispiravano la legge 27 dicembre 1977, n. 968 (Principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia) e la legge n. 394 del 1991.

Sul punto si deve chiarire che l’oggetto delle leggi n. 394 del 1991, relativa alle aree protette, e n. 157 del 1992, relativa invece alla protezione della fauna e al prelievo venatorio, è diverso. La prima si occupa soltanto del prelievo venatorio nelle aree protette e nelle zone contigue e presenta pertanto carattere di specialità rispetto alla seconda.

Inoltre, il tenore letterale della disposizione censurata non consente un’interpretazione conforme a Costituzione, vale a dire alla normativa statale interposta, che, per il criterio di specialità, è la legge n. 394 del 1991 e non, come affermato dalla difesa regionale, la legge n. 157 del 1992.

Non può neppure essere accolto il rilievo della Regione Liguria, secondo cui l’art. 32 della legge n. 394 del 1991 non riguarderebbe le aree naturali protette regionali, ma solo quelle statali. Si deve notare, in senso contrario, che l’art. 21, comma 1, lettera b), della legge n. 157 del 1992, richiamata dalla stessa difesa regionale quale normativa interposta, prevede espressamente l’applicazione dell’art. 32, comma 3, della legge n. 394 del 1991 ai parchi naturali regionali.

Peraltro, lo stesso legislatore ligure ha esplicitamente riconosciuto l’applicabilità del citato art. 32 anche alle aree naturali protette regionali (art. 17, comma 3, della legge della Regione Liguria 22 febbraio 1995, n. 12 – Riordino delle aree protette).

5. – Deve essere disattesa infine la richiesta, avanzata in via subordinata rispetto alla domanda principale di accoglimento, dalla interveniente Onlus Associazione Verdi Ambiente e Società - V.A.S., tendente alla dichiarazione di inammissibilità della questione, in quanto il giudice rimettente avrebbe dovuto applicare direttamente la norma statale interposta, anche alla luce della primarietà del valore della tutela dell’ambiente.

L’assunto è infondato, perché il rapporto tra norme regionali e norme statali interposte non può essere confuso con quello tra norme statali e norme comunitarie, che, come è noto, legittima il giudice comune a non applicare la norma interna contrastante con quella comunitaria ad efficacia diretta.

6. – Per le considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 18, della legge reg. Liguria n. 29 del 1994, proposta dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria, deve essere accolta, nei limiti di cui al dispositivo della presente sentenza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 18, della legge della Regione Liguria 1° luglio 1994, n. 29 (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio), nella parte in cui consente la caccia nelle cosiddette aree contigue anche a soggetti non residenti nelle aree medesime.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

SENTENZA N. 316

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), promosso dal Tribunale di Vicenza nel procedimento vertente tra P.A. E. ed altro e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) con ordinanza del 17 aprile 2009, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione di P.A. E. ed altro e dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi gli avvocati Mattia Persiani per P.A. E. ed altro, Mauro Ricci per l’INPS e l’avvocato dello Stato Massimo Santoro per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Vicenza, con ordinanza del 17 aprile 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 38, secondo comma, 36 e 3 della Costituzione, dell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale).

Tale norma stabilisce che per le pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo INPS non venga concessa per l’anno 2008 alcuna perequazione automatica.

1.1. – Riferisce il giudice rimettente che P.A. E. e R. T., titolari di pensioni INPS eccedenti otto volte il trattamento minimo, anche per effetto della perequazione automatica per legge, avevano contestato la decisione dell’INPS di non perequare automaticamente tale emolumento a partire dal gennaio 2008 in applicazione dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, lamentando la perdita del potere d’acquisto conseguentemente determinatasi, con effetti destinati a prodursi anche in futuro, incidenti definitivamente sull’ammontare della pensione stessa.

1.2. – Secondo il Tribunale di Vicenza, la questione di legittimità costituzionale sarebbe, innanzitutto, rilevante, perché la chiara ed univoca lettera della norma censurata non ne consentirebbe una interpretazione diversa da quella che univocamente conduce all’esclusione dell’applicabilità del beneficio della perequazione.

1.3. – La questione sarebbe, inoltre, non manifestamente infondata, perché, anche in attuazione dell’art. 38, secondo comma, Cost., il legislatore ha previsto la perequazione automatica delle pensioni erogate in tutti i regimi, compresi quelli integrativi, nonché delle forme di previdenza complementare, secondo una disciplina improntata alla copertura integrale delle pensioni economicamente più contenute e parziale per altre tipologie di pensioni più elevate (con l’unica eccezione di cui all’art. 59, comma 13, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica). Con la norma censurata, invece, è stato disposto il blocco totale (temporaneo, ma con riflessi permanenti) della perequazione automatica, con una valutazione che il giudice a quo sospetta non essere rispettosa dell’art. 38 Cost. e del principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost., in quanto, n el bilanciamento tra principi di uguale rango costituzionale (quello dell’art. 38 Cost. e quello della solidarietà sociale sotteso alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del sistema previdenziale), sarebbe stato inciso totalmente uno di questi – il diritto a che lo Stato assicuri i mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori pensionati – e tutelato integralmente l’altro.

Il giudice rimettente ritiene altresì che la pensione totalmente non perequata, con effetti non solo nell’immediato, ma anche per il futuro (in difetto di qualunque previsione di recupero per gli anni successivi), non risponda al canone della adeguatezza sancito, per le prestazioni previdenziali, dall’art. 38, secondo comma, della Costituzione.

La mancata rivalutazione automatica delle pensioni superiori ad un certo importo, oltre ad impedire la conservazione nel tempo del valore del trattamento di quiescenza, andrebbe altresì a pregiudicare la proporzionalità tra pensione e retribuzione goduta nel corso dell’attività lavorativa, tutelata dagli artt. 38 e 36 Cost., discriminando irragionevolmente i percettori di pensioni medio-alte rispetto ai percettori di pensioni meno elevate; i primi esposti globalmente al rischio inflattivo, i secondi protetti integralmente da esso.

Secondo il Tribunale di Vicenza, infine, il principio di solidarietà, cui si raccordano le esigenze di contenimento della spesa pubblica, di salvaguardia del bilancio dello Stato, di tenuta finanziaria del sistema previdenziale, giustificherebbe soltanto meccanismi normativi di rivalutazione parziale e non anche la radicale esclusione della perequazione per certune tipologie pensionistiche, foriera di nette ed irragionevoli disparità di trattamento tra pensionati.

2. – Con memoria depositata in data 2 settembre 2009 si sono costituiti in giudizio i ricorrenti nel giudizio principale, instando per la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione legislativa censurata, in relazione all’art. 38, secondo comma, Cost. ( o allo stesso articolo in combinazione con l’art. 36 Cost. ( e all’art. 3 della Costituzione.

Pur non ignorando l’insegnamento reso dalla Corte con l’ordinanza n. 256 del 2001, la quale ha escluso la illegittimità costituzionale del meccanismo di temporanea sospensione della perequazione automatica di cui all’art. 59, comma 13, della legge n. 449 del 1997, i pensionati interessati evidenziano che tutti i provvedimenti di blocco della perequazione automatica, anche se temporanei, hanno prodotto, e producono tuttora, un danno economico sui livelli delle pensioni di importo più elevato e che dunque non si dovrebbe continuare a legittimare, anche per il futuro, l’esistenza di quel danno.

A loro giudizio la mancata rivalutazione automatica, sia pure con riguardo alle pensioni di un certo importo, pregiudicherebbe la realizzazione della “adeguatezza” delle prestazioni previdenziali e impedirebbe, o almeno concorrerebbe ad impedire, la realizzazione della proporzionalità tra pensione e retribuzione goduta nel corso dell’attività lavorativa.

Sotto il profilo della ragionevolezza viene, infine, osservato che i titolari di pensioni superiori ad otto volte il trattamento minimo INPS sarebbero stati privati della perequazione automatica senza una giustificazione adeguata, non ricavabile neppure dal principio di solidarietà.

2.1. – Con memoria illustrativa depositata il 10 settembre 2010 la difesa dei ricorrenti in via principale ha ribadito e ulteriormente sviluppato le argomentazioni già svolte nell’atto di costituzione a sostegno dell’illegittimità costituzionale della norma impugnata.

3. – Con atto depositato il 15 settembre 2009 si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Vicenza con l’ordinanza sopra specificata sia dichiarata inammissibile o infondata e richiamando l’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui «appartiene alla discrezionalità del legislatore, con il solo limite della palese irrazionalità, stabilire la misura dei trattamenti di quiescenza e le variazioni dell’ammontare delle prestazioni» (ordinanza n. 256 del 2001).

La misura dei trattamenti interessati dall’intervento normativo sarebbe tale da escludere a priori la paventata lesione dell’art. 38 Cost., tanto meno potendo risultarne sacrificate le «esigenze minime di protezione della persona».

La ragionevolezza e tollerabilità della sospensione della perequazione automatica, per il solo 2008, delle pensioni superiori ad otto volte il trattamento minimo dipenderebbe dal fatto che essa è limitata nel tempo ed incide su fasce di reddito elevate.

Non sarebbe, inoltre, ravvisabile alcun contrasto con gli artt. 36 e 38 Cost., avendo il legislatore, alla luce delle esigenze fondamentali di politica economica, discrezionalmente bilanciato i contrapposti interessi secondo criteri non arbitrari o illogici.

Rispetto al canone dell’art. 3 Cost., infine, la norma avrebbe regolato situazioni fra loro disomogenee e perciò non comparabili.

4. – Con atto depositato il 15 settembre 2009 è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per la dichiarazione di manifesta infondatezza – o, comunque, di inammissibilità – della questione sollevata dal Tribunale di Vicenza con l’ordinanza succitata, poiché non motivata con argomenti nuovi rispetto all’analoga questione decisa dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 256 del 2001.

Con specifico riferimento alla norma censurata, la sua conformità alla Costituzione troverebbe ampio riscontro nella giurisprudenza di questa Corte, univocamente attestata sui principi dell’inesistenza di un vincolo costituzionale di automatico adeguamento delle pensioni agli stipendi (sentenza n. 62 del 1999); dell’appartenenza alla discrezionalità del legislatore, con il solo limite della palese irrazionalità, dei modi, delle misure e delle variazioni dei trattamenti di pensione, attraverso il contemperamento delle esigenze di vita dei beneficiari con le concrete disponibilità finanziarie e le esigenze di bilancio (sentenza n. 372 del 1998), discrezionalità peraltro destinata a manifestarsi specificamente nella modulazione in concreto dei meccanismi di perequazione (sentenze n. 241 del 2002 e n. 439 del 2001).

Considerato in diritto

1. – Viene all’esame di questa Corte la questione di legittimità costituzionale sollevata, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dal Tribunale di Vicenza, relativamente all’articolo 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale).

2. – Il Tribunale di Vicenza sospetta che la norma, nella parte in cui, per l’anno 2008, prevede il blocco integrale della perequazione automatica delle pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo, violi l’art. 38, secondo comma, anche in combinato disposto con l’art. 36, e l’art. 3 della Costituzione.

Il giudice rimettente dubita, in primo luogo, che la pensione totalmente non perequata, con evidenti effetti nell’immediato (“per l’anno 2008”), ma pure con inevitabili riflessi permanenti (non essendo stato previsto alcun recupero per gli anni successivi), risponda al canone della adeguatezza sancito, per la prestazione previdenziale, dall’art. 38, secondo comma, Cost., avendo temporaneamente reso inefficace l’unico istituto posto a tutela della conservazione nel tempo del valore del trattamento pensionistico.

A suo avviso, inoltre, la mancata rivalutazione automatica delle pensioni superiori ad un certo importo contribuirebbe a precludere la proporzionalità tra pensione e retribuzione goduta nel corso dell’attività lavorativa, tutelata dagli artt. 38 e 36 Cost., discriminando irragionevolmente i percettori di pensioni medio-alte rispetto ai percettori di pensioni meno elevate; i primi esposti globalmente al rischio inflattivo, i secondi protetti integralmente da esso.

La norma impugnata, infine, contrasterebbe con l’art. 38 Cost., e con il principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost., per avere totalmente sacrificato il diritto all’assicurazione da parte dello Stato di mezzi adeguati ai bisogni di vita dei lavoratori pensionati alla solidarietà sociale sottesa alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del sistema previdenziale, evitando qualunque forma di bilanciamento tra valori di pari rango costituzionale, quale avrebbe potuto essere realizzata con interventi più calibrati di attenuazione della dinamica perequativa.

3. – La questione non è fondata.

L’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 – disponendo il blocco della perequazione automatica, per il solo anno 2008, delle pensioni con importo superiore a otto volte il trattamento minimo INPS – ha lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge.

In particolare, la mancata rivalutazione dei predetti trattamenti ha concorso a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni, a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), e l’introduzione, in sua vece, di un sistema più graduale e flessibile delle “uscite”, basato sul raggiungimento di quote risultanti dall’età anagrafica e dall’anzianità contributiva.

3.1. – Così ricostruitane la ratio, la norma impugnata è immune da tutti i vizi denunciati.

L’art. 38, secondo comma, Cost. impone che al lavoratore siano garantiti «mezzi adeguati» alle esigenze di vita in presenza di determinate situazioni che richiedono tutela. La mancata perequazione per un solo anno della pensione non tocca il problema della sua adeguatezza.

Dal principio enunciato nell’art. 38 Cost., infatti, non può farsi discendere, come conseguenza costituzionalmente necessitata, quella dell’adeguamento con cadenza annuale di tutti i trattamenti pensionistici. E ciò, soprattutto ove si consideri che le pensioni incise dalla norma impugnata, per il loro importo piuttosto elevato, presentano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo. L’esigenza di una rivalutazione sistematica del correlativo valore monetario è, dunque, per esse meno pressante di quanto non sia per quelle di più basso importo.

3.2. – Anche rispetto al principio di proporzionalità delle pensioni alle retribuzioni, contenuto nell’art. 36 Cost., la lesione ipotizzata dal giudice rimettente non sussiste. In relazione all’adeguatezza dei trattamenti di quiescenza alle esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, questa Corte ha ripetutamente affermato che tale principio non impone un aggancio costante dei trattamenti pensionistici agli stipendi (ex plurimis, sentenza n. 62 del 1999 e ordinanza n. 531 del 2002).

Spetta, infatti, al legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona (per tutte, sentenza n. 30 del 2004). Esigenze, queste, che il livello economico dei trattamenti previsti dalla norma impugnata non scalfisce, per i suoi effetti limitati al 2008.

3.3. – Quanto poi all’irragionevole sperequazione ascritta dal giudice rimettente all’intervento normativo censurato, questa Corte – proprio nell’affrontare un’analoga questione di legittimità costituzionale riguardante altra norma (art. 59, comma 13, della legge n. 449 del 1997) che pure escludeva per un anno (1998) la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici allora superiori a cinque volte il minimo INPS – ha ribadito che «appartiene alla discrezionalità del legislatore, col solo limite della palese irrazionalità, stabilire la misura dei trattamenti di quiescenza e le variazioni dell’ammontare delle prestazioni, attraverso un bilanciamento dei valori contrapposti che tenga conto, accanto alle esigenze di vita dei beneficiari, anche delle concrete disponibilità finanziarie e delle esigenze di bilancio» (ordinanza n. 256 del 2001; nello stesso senso, sentenza n. 372 del 1998).

Allo stesso modo, anche in questo caso dev’essere riconosciuta al legislatore – all’interno di un disegno complessivo di razionalizzazione della precedente riforma previdenziale – la libertà di adottare misure, come quella denunciata, di concorso solidaristico al finanziamento di un riassetto progressivo delle pensioni di anzianità, onde riequilibrare il sistema a costo invariato.

3.4. – In tale prospettiva, neppure può ritenersi violato il principio di eguaglianza, perché il blocco della perequazione automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizza un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste. E che si tratti di situazioni disomogenee trova conferma nella stessa disciplina “a regime” della perequazione automatica, la quale prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione.

Inoltre, la chiara finalità solidaristica dell’intervento, in contrappeso all’espansione della spesa pensionistica dovuta alla graduazione dell’entrata in vigore di nuovi più rigorosi criteri di accesso al pensionamento di anzianità, offre una giustificazione ragionevole alla soppressione annuale della rivalutazione automatica prevista a scapito dei titolari dei trattamenti medio-alti. Il loro sacrificio, infatti, serve ad attuare la scelta non arbitraria del legislatore di soddisfare – cancellando la brusca elevazione dell’età minima pensionabile – le aspettative maturate dai lavoratori, i quali, in base alla più favorevole disciplina previgente, erano prossimi al raggiungimento del prescritto requisito anagrafico.

La norma impugnata si sottrae, infine, a censure di palese irragionevolezza, perché, limitandosi a rallentare la dinamica perequativa delle pensioni di valore più cospicuo, non determina alcuna riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento. Essa così finisce per imporre ai relativi percettori un costo contenuto, sia pure tenendo conto dei riflessi futuri del mancato adeguamento circoscritto al 2008.

4. – Va, in definitiva, riaffermato che la garanzia costituzionale della adeguatezza e della proporzionalità del trattamento pensionistico, cui lo strumento della perequazione automatica è certamente finalizzato, incontra il limite delle risorse disponibili. A tale limite il Governo e il Parlamento devono uniformare la legislazione di spesa, con particolare rigore a presidio degli equilibri del sistema previdenziale.

Dev’essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità (su cui, nella materia dei trattamenti di quiescenza, v. sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985), perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), sollevata, in riferimento agli articoli 38, secondo comma, 36 e 3 della Costituzione, dal Tribunale di Vicenza con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

ORDINANZA N. 317

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’articolo 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), promosso dal Pretore di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, nel procedimento penale a carico di F. G. con ordinanza del 22 marzo 1999, iscritta al n. 122 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 settembre 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza del 22 marzo 1999, trasmessa dalla cancelleria, dopo oltre dieci anni, il 18 gennaio 2010 e pervenuta a questa Corte il 23 marzo 2010 (r.o. n. 122 del 2010), il Pretore di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’articolo 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), nella parte in cui non prevedono che il decreto di citazione a giudizio, emesso dal giudice per le indagini preliminari in seguito ad opposizione a decreto penale di condanna, debba essere preceduto, a pena di nullità, dall’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio, ai sensi dell’art. 375, comma 3, cod. proc. pen.;

che, ad avviso del giudice a quo, la mancata previsione di detto invito e la conseguente negazione all’imputato della possibilità di contestare anticipatamente il fondamento dell’accusa in sede di interrogatorio comporterebbero una violazione del principio di eguaglianza;

che l’opponente a decreto di condanna verrebbe trattato, infatti, in modo ingiustificatamente deteriore rispetto all’imputato nei cui confronti si procede nei modi ordinari e, in particolare, tramite citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 555 cod. proc. pen. (ipotesi nella quale – per effetto delle modifiche introdotte dalle norme censurate – il decreto di citazione deve essere invece preceduto, a pena di nullità, dall’invito in questione);

che se pure, all’origine, non vi è identità di posizione processuale tra chi, all’esito delle indagini preliminari, viene citato a giudizio e chi è direttamente condannato con decreto, le due posizioni diverrebbero, nondimeno, pienamente assimilabili una volta che sia presentata opposizione al decreto di condanna, senza che con essa vengano richiesti il patteggiamento, il giudizio abbreviato o l’oblazione;

che in questo caso, infatti, l’opposizione è diretta a «recuperare le “vie ordinarie” del processo», esprimendo «un deciso dissenso dalle conclusioni accusatorie»;

che mentre, però, con l’interrogatorio che deve precedere il decreto di citazione a giudizio di cui all’art. 555 cod. proc. pen., l’imputato ha la possibilità di difendersi in via preliminare dalle accuse mosse nei suoi confronti – potendo addirittura indurre il pubblico ministero a presentare richiesta di archiviazione – assai più ridotte risulterebbero le possibilità di difesa dell’opponente, citato a giudizio ai sensi degli artt. 464 e 456 cod. proc. pen.;

che quest’ultimo non sarebbe, infatti, in grado né di «rimuovere preliminarmente» l’imputazione formulata dal pubblico ministero, né di prospettare elementi atti a «far vacillare il castello accusatorio già dalle prime battute del processo futuro» (ciò, tenuto conto del fatto che il proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. può essere invocato da entrambe le parti, e non solo dall’imputato, col risultato di evitare un inutile e dispendioso dibattimento);

che la denunciata disparità di trattamento ridonderebbe, inevitabilmente, anche in un pregiudizio del diritto di difesa: diritto che, rispetto all’imputato opponente a decreto penale di condanna, risulterebbe «fortemente compresso, anzi escluso, nella fase investigativa», per poi «riespandersi» quando ormai, a seguito della valutazione discrezionale del pubblico ministero, «il fatto è stato ritenuto abbastanza fondato da meritare l’instaurazione del processo»;

che la questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo, essendo il rimettente chiamato a trattare il giudizio dibattimentale conseguente alla rituale opposizione dell’imputato a un decreto penale di condanna a lire 975.000 di ammenda, emesso dal Giudice per le indagini preliminari della Pretura di Salerno per la contravvenzione prevista dall’art. 5, lettera b), della legge 30 aprile 1962, n. 283 (Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande): così che l’accoglimento della questione comporterebbe la nullità del decreto di citazione a giudizio emesso dal medesimo giudice a seguito dell’opposizione, in quanto non preceduto dall’invito di cui si tratta;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

Considerato che il Pretore di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, censura come contraria agli artt. 3 e 24 della Costituzione la mancata previsione, in rapporto al procedimento per decreto, di una disciplina corrispondente a quella introdotta per il procedimento ordinario a seguito delle modifiche operate dalla legge n. 234 del 1997: disciplina in forza della quale la richiesta di citazione a giudizio (nel procedimento con udienza preliminare) e il decreto di citazione a giudizio (nel procedimento a citazione diretta) debbono essere preceduti, a pena di nullità, dalla notificazione all’indagato dell’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio, ai sensi dell’art. 375, comma 3, cod. proc. pen. (artt. 416, comma 1, e 555, comma 2, cod. proc. pen., come novellati dall’art. 2 della citata legge n. 234 del 1997, attenendo il successivo art. 3 ai profili di diritto transitorio);

che, in tale ottica, il rimettente chiede che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate nella parte in cui non prevedono che anche il decreto di citazione a giudizio, emesso dal giudice per le indagini preliminari a seguito dell’opposizione a decreto penale di condanna (artt. 464 e 456 cod. proc. pen.), debba essere preceduto, a pena di nullità, dal predetto invito;

che questa Corte si è, peraltro, già più volte pronunciata su analoghe questioni, sollevate in rapporto ai medesimi parametri costituzionali, dichiarandone la manifesta infondatezza (ordinanze n. 458 e n. 325 del 1999; nonché, con riguardo a questioni affini, volte ad introdurre l’obbligo del previo interrogatorio, o dell’invito a renderlo, quale condizione di validità della richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto penale di condanna, ordinanze n. 326 del 1999 e n. 432 del 1998);

che, con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è in particolare rilevato come l’asserita esigenza di prevedere una anticipazione del contraddittorio, nelle forme suddette, sulla base di un raffronto con la disciplina del rito ordinario risulti «contraddetta dalle caratteristiche del procedimento per decreto penale, che, per la sua struttura di rito a contraddittorio eventuale e differito, improntato a criteri di economia processuale e di speditezza, non è comparabile, come tale, con gli altri modelli delineati dalla […] disciplina del processo penale» (ordinanza n. 326 del 1999): e ciò, neppure alla stregua delle innovazioni introdotte dalla legge n. 234 del 1997, poiché nel procedimento per decreto l’esigenza di garantire la conoscenza dell’indagine si trasferisce sulla fase processuale, conseguente all’opposizione;

che quanto, poi, all’ipotizzata lesione dell’art. 24 Cost., si è osservato che nel procedimento per decreto l’esperimento dei mezzi di difesa, con la stessa ampiezza dei procedimenti ordinari, si colloca parimenti nella fase susseguente all’opposizione: rimanendo escluso, al tempo stesso, che «alla previsione di un contraddittorio antecedente l’esercizio dell’azione penale» possa «assegnarsi il carattere di necessario svolgimento della garanzia costituzionale della difesa, garanzia che si esercita nel processo e che – tanto più nel quadro del processo di tipo accusatorio – postula primariamente, come interlocutore dell’interessato, il giudice e non la parte pubblica» (ordinanza n. 326 del 1999);

che, in aggiunta a ciò, l’introduzione dell’obbligo del previo invito a presentarsi per l’interrogatorio, quale condizione di validità del decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice per le indagini preliminari a seguito dell’opposizione (e, dunque, successivamente all’esercizio dell’azione penale), lungi dal riportare ad unità la disciplina dei diversi riti, «comporterebbe l’atipica collocazione di un atto, proprio della fase delle indagini preliminari, nell’ambito della fase del giudizio»: collocazione «oltretutto inidonea a garantire quelle finalità – di conoscenza […] dell’indagine, e di possibilità di instaurare un contraddittorio con l’organo di accusa in funzione dell’esito dell’indagine stessa, cioè dell’alternativa […] tra passaggio al giudizio e archiviazione – che […] con la riforma del 1997 il legislator e ha inteso perseguire» (ordinanza n. 325 del 1999; analogamente, ordinanza n. 458 del 1999);

che, peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione – trasmessa a questa Corte, come già rimarcato, con patologico ritardo – è intervenuta la legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), la quale, nell’ambito di una più generale revisione del procedimento penale dinanzi al tribunale, anche in composizione monocratica, ha modificato la disciplina introdotta dalle norme censurate, che il rimettente evoca come termine di raffronto;

che, in particolare, per effetto della novella, il previo invito all’indagato a presentarsi per rendere l’interrogatorio non costituisce più un antecedente imprescindibile, stabilito a pena di nullità, della richiesta di rinvio a giudizio o del decreto di citazione diretta a giudizio, quali atti di esercizio dell’azione penale: la garanzia difensiva essendo ora costituita dalla notifica all’indagato di un «avviso della conclusione delle indagini preliminari» (art. 415-bis cod. proc. pen., inserito dall’art. 17, comma 2, della legge n. 479 del 1999) e dalla previsione di nullità, rispettivamente della richiesta di rinvio a giudizio e della citazione diretta a giudizio, in caso di omissione di detto avviso ovvero dell’invito a rendere interrogatorio, se richiesto dall’indagato entro venti giorni dalla notifica dell’avviso stesso (artt. 416, comma 1, secondo periodo, e 552, comma 2 – sostituti vo dell’art. 555 previgente – come modificati dall’art. 17, comma 3, e dall’art. 44, comma 1, della legge n. 479 del 1999);

che comunque della nuova disciplina il giudice a quo non dovrebbe fare applicazione, sicché non occorre restituire gli atti a detto giudice per un nuovo esame sia della rilevanza che della non manifesta infondatezza della questione;

che, peraltro e solo per completezza, mette conto di rammentare che anche detta nuova disciplina è stata sottoposta a scrutinio da parte di questa Corte, per la mancata previsione della ricordata nuova garanzia difensiva nel procedimento per decreto: scrutinio che si è ugualmente concluso con la dichiarazione della manifesta infondatezza delle questioni sollevate, sia con riguardo ai parametri costituzionali evocati nel caso qui in esame (artt. 3 e 24 Cost.), sia con riguardo agli ulteriori parametri di cui all’art. 111, terzo, quarto e quinto comma, Cost.; essendosi, in particolare, rilevato che «l’innesto della disciplina dell’avviso di conclusione delle indagini nel procedimento monitorio ne snaturerebbe la struttura e le finalità, inserendovi una procedura incidentale che potrebbe determinare una notevole dilatazione temporale, e si sostanzierebbe in una garanzia che, oltre ad essere costituzionalmente non imposta, si riv elerebbe del tutto incongrua rispetto ai caratteri del rito speciale» (ordinanze n. 131 e n. 32 del 2003; in argomento, altresì, ordinanze n. 8 del 2003 e n. 203 del 2002);

che la questione proposta dal rimettente nel presente giudizio non esprime profili né argomenti nuovi rispetto a quelli già precedentemente esaminati, onde

va dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’articolo 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

ORDINANZA N. 318

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promossi dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, con ordinanza del 26 novembre 2009, dal Giudice di pace di La Spezia con sei ordinanze del 6 ottobre e con due ordinanze del 3 novembre 2009, dal Tribunale di Trento con ordinanza del 25 settembre 2009, dal Giudice di pace di Vasto con ordinanza del 19 ottobre 2009 e dal Giudice di pace di Perugia con ordinanza del 21 dicembre 2009, ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 13, da 34 a 41, 73, 78 e 114 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6, 8, 12 e 17, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto che il Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, con ordinanza del 26 novembre 2009 (r.o. n. 13 del 2010), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non esclude, per i casi in cui ricorra un «giustificato motivo», la rilevanza penale dell’indebito trattenimento dello straniero sul territorio dello Stato;

che il rimettente procede nei confronti di una cittadina straniera denunciata, in occasione degli accertamenti riguardanti fatti ulteriori, per il reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», essendosi in particolare trattenuta in Italia pur dopo la risalente scadenza del suo permesso di soggiorno;

che lo stesso rimettente dubita della conformità a Costituzione di una norma che, come quella censurata, sia priva di una clausola di esclusione della punibilità per fatti commessi in presenza di un «giustificato motivo»;

che infatti una clausola corrispondente, nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 14, comma 5-ter, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, sarebbe stata più volte valorizzata dalla Corte costituzionale quale «valvola di sicurezza» del sistema repressivo in materia di immigrazione, necessaria ad assicurare il rispetto dei principi di colpevolezza e proporzionalità (sono citate le sentenze n. 5 del 2004 e n. 22 del 2007);

che dovrebbe considerarsi, in particolare, come la Costituzione imponga un regime di scusabilità dell’ignoranza incolpevole a proposito della legge penale, e come la rilevanza del «giustificato motivo» assicuri l’effettività del principio in una materia segnata per lo straniero da difficoltà di comprensione, anche di ordine linguistico, circa le norme dell’ordinamento giuridico nazionale;

che, inoltre, sarebbe violato il principio di uguaglianza, non essendo giustificata la discriminazione tra la situazione di indebito trattenimento regolata dalla disposizione censurata e quella punita a norma dell’art. 14, comma 5-ter, del T.u. in materia di immigrazione, visto che le condotte a raffronto, pur presentando diversa gravità, sarebbero pienamente assimilabili sotto il profilo strutturale;

che il giudice a quo assume, in riferimento al caso di specie, che la difesa non avrebbe avuto la possibilità di documentare le ragioni per le quali l’imputata, dopo la scadenza del suo permesso di soggiorno, non si è allontanata dal territorio nazionale, proprio in quanto i motivi della condotta sarebbero attualmente irrilevanti;

che la necessità di conferire rilievo scriminante al «giustificato motivo» risulterebbe tanto più evidente, di contro, considerando la concreta fattispecie, ove l’imputata, quanto meno nel momento della richiesta di presentazione immediata al giudizio, si trovava detenuta per altra causa, e dunque di fatto impossibilitata a lasciare il territorio nazionale;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio mediante atto depositato in data 2 marzo 2010, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata infondata;

che la norma censurata, ad avviso della difesa dello Stato, sarebbe frutto del ragionevole esercizio della discrezionalità spettante al legislatore, anche in rapporto alla mancata previsione della «scriminante atipica»;

che sarebbe priva di fondamento la comparazione istituita dal rimettente tra la predetta norma e quella prevista all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, data l’obiettiva disomogeneità delle relative fattispecie;

che andrebbe considerata, nel caso concretamente sottoposto a giudizio, la condizione detentiva dell’imputata, tale da determinare l’irrilevanza penalistica del mancato suo allontanamento dal territorio nazionale;

che il Giudice di pace di La Spezia, con otto diverse ordinanze di identico tenore, deliberate in date comprese tra il 6 ottobre ed il 3 novembre 2009 (r.o. numeri da 34 a 41 del 2010), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, nella parte in cui non prevede la ricorrenza di un «giustificato motivo» quale esimente della condotta sanzionata;

che, nei provvedimenti indicati, il rimettente osserva come la norma censurata, pur avendo «funzione sussidiaria» rispetto a quella contenuta nell’art. 14, comma 5-ter, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, non contenga un’analoga fattispecie di esclusione della punibilità;

che, su questa premessa, il giudice a quo esprime un «dubbio di legittimità costituzionale», evocando nel solo dispositivo delle proprie ordinanze, quali parametri violati, gli artt. 3 e 27 Cost.;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio r.o. n. 40 del 2010, mediante atto depositato in data 16 marzo 2010, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata «inammissibile e infondata»;

che la prospettata inammissibilità deriverebbe dalla carenza di indicazioni, ad opera del rimettente, sulle caratteristiche del fatto sottoposto a giudizio e sulla rilevanza della questione sollevata;

che detta questione sarebbe comunque infondata, poiché il legislatore avrebbe esercitato correttamente la propria discrezionalità in materia di determinazione delle condotte punibili, anche in rapporto alla mancata previsione della «scriminante atipica», e poiché, data l’obiettiva disomogeneità delle relative fattispecie, sarebbe ingiustificata la comparazione, proposta dal rimettente, tra la norma oggetto di censura e quella prevista all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998;

che il Tribunale di Trento (in composizione monocratica), con ordinanza del 25 settembre 2009 (r.o. n. 73 del 2010), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, nella parte in cui non esclude la rilevanza penale dell’indebito trattenimento dello straniero sul territorio dello Stato quando ricorra il «giustificato motivo» di cui all’art. 14, comma 5-ter, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998;

che nel procedimento a quo l’imputato è stato presentato per il giudizio direttissimo dopo essere stato tratto in arresto, il 21 settembre 2009, per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del T.u. in materia di immigrazione, non avendo egli ottemperato all’intimazione, rivoltagli dal questore di Alessandria dopo un pregresso decreto di espulsione, a lasciare entro cinque giorni il territorio dello Stato;

che, nel corso dell’udienza, il pubblico ministero ha contestato all’imputato il reato «concorrente» di cui all’art. 10-bis dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, commesso fino alla data del 21 settembre 2009;

che il giudice a quo riferisce, trascrivendo per intero la relativa motivazione, d’aver deliberato sentenza di assoluzione quanto al delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, attesa la ricorrenza di un «giustificato motivo» per l’inottemperanza all’ordine di allontanamento;

che in particolare, secondo il Tribunale, non sarebbero stati raccolti nel giudizio elementi idonei a smentire l’assunto dell’imputato secondo cui le risorse economiche a sua disposizione non gli avrebbero permesso l’acquisto di biglietti di viaggio;

che, proprio in ragione dell’intervenuto provvedimento assolutorio, residuerebbe una responsabilità per il reato contravvenzionale di recente introduzione, dal quale l’imputato non potrebbe essere prosciolto, pur ricorrendo un «giustificato motivo» per la condotta di trattenimento, dato che la relativa fattispecie non contiene la corrispondente clausola di salvaguardia;

che la decisione sul merito dell’accusa spetterebbe al giudice a quo, data l’iniziale sua competenza a norma dell’art. 6 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), in forza del rapporto di concorso formale tra la contravvenzione contestata ed il delitto posto ad oggetto dell’imputazione originaria;

che, sul piano della non manifesta infondatezza, il rimettente osserva come la nuova fattispecie contravvenzionale costituisca un «reato sussidiario» rispetto a quella sanzionata dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, e come dunque non si giustifichi l’omessa previsione, proprio e solo per la figura sussidiaria, del «giustificato motivo» quale causa di esclusione della punibilità;

che non varrebbe a legittimare l’indicata disparità di trattamento il rilievo della discrezionalità legislativa nella determinazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni;

che, infatti, il sindacato della Corte costituzionale dovrebbe comunque esercitarsi di fronte ad evidenti violazioni del canone della ragionevolezza, come nel caso, asseritamente ricorrente nella specie, di un rapporto di proporzionalità inversa tra la gravità dei fatti ed il rispettivo trattamento sanzionatorio (è citata, al proposito, la sentenza n. 22 del 2007);

che, del resto, la giurisprudenza costituzionale avrebbe già sancito l’essenzialità della clausola concernente il «giustificato motivo» come presidio del principio di colpevolezza (sono citate le sentenze n. 5 del 2004 e n. 22 del 2007);

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio mediante atto depositato in data 13 aprile 2010, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata «inammissibile e infondata»;

che la punibilità della nuova fattispecie di indebito trattenimento, per quanto non condizionata dalla ricorrenza di un «giustificato motivo», è comunque subordinata alla carenza delle ordinarie cause di esclusione, tra le quali vengono evocate, in particolare, l’ignoranza non colpevole della disposizione incriminatrice, l’inesigibilità del comportamento lecito e la cosiddetta «buona fede» nella materia contravvenzionale;

che il Giudice di pace di Vasto, con ordinanza del 19 ottobre 2009 (r.o. n. 78 del 2010), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, nella parte in cui non esclude la rilevanza penale dell’indebito trattenimento dello straniero sul territorio dello Stato quando ricorra un «giustificato motivo» a norma dell’art. 14, comma 5-ter, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998;

che, secondo il rimettente, la differenza di trattamento tra la fattispecie oggetto di censura e quella evocata in comparazione sarebbe ingiustificata, trattandosi in sostanza di «una stessa condotta di illecito trattenimento»;

che peraltro la disciplina censurata violerebbe il «canone della ragionevolezza», poiché la condotta di cui al citato art. 14, comma 5-ter, pur connotata da maggior gravità rispetto a quella prevista dal precedente art. 10-bis, sarebbe più favorevolmente disciplinata, con una «sproporzione sanzionatoria che non penalizza le condotte più gravi»;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio mediante atto depositato in data 13 aprile 2010, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata «inammissibile e infondata»;

che il rimettente, in primo luogo, non avrebbe fornito alcuna indicazione sulle circostanze che, nel caso sottoposto al suo giudizio, dovrebbero fondare un «giustificato motivo» per la condotta in contestazione;

che, nel merito, la questione sarebbe infondata, dato che la punibilità della nuova fattispecie di indebito trattenimento, per quanto non esclusa in base ad un «giustificato motivo», sarebbe comunque subordinata alla carenza delle ordinarie cause di esclusione, tra le quali vengono evocate, in particolare, l’ignoranza non colpevole della disposizione incriminatrice, l’inesigibilità del comportamento lecito e la cosiddetta «buona fede» nella materia contravvenzionale;

che il Giudice di pace di Perugia, con ordinanza del 21 dicembre 2009 (r.o. n. 114 del 2010), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, nella parte in cui non esclude, quando ricorra un «giustificato motivo», la rilevanza penale dell’indebito trattenimento dello straniero sul territorio dello Stato;

che la norma censurata sarebbe illegittima, in quanto irragionevole, anche nella parte in cui non prevede un termine entro il quale, dopo l’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009, gli stranieri in condizione di soggiorno irregolare avrebbero potuto sottrarsi ad una responsabilità di tipo penale;

che ulteriori profili di illegittimità, in rapporto agli artt. 3 e 27 Cost., si connetterebbero alla previsione che il giudice, nel caso di sopravvenuta espulsione per via amministrativa dello straniero indebitamente trattenutosi in Italia, pronunci sentenza di non luogo a procedere (comma 5 del censurato art. 10-bis);

che nel giudizio principale è contestato ad un cittadino extracomunitario di essersi trattenuto indebitamente nel territorio dello Stato dopo l’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009, e fino alla data del 24 settembre 2009;

che nell’ambito della fattispecie incriminatrice contestata, a parere del rimettente, la rilevanza di un «giustificato motivo» per la condotta di indebito trattenimento sarebbe palesemente esclusa, tanto da precludere ogni possibilità di una interpretazione «costituzionalmente orientata»;

che la norma censurata, dunque, sarebbe priva della «valvola di sicurezza» necessaria ad evitare che la sanzione penale colpisca condotte tenute in situazione di sostanziale inesigibilità (sono citate, in proposito la ordinanza n. 386 del 2006 e la sentenza n. 22 del 2007 della Corte costituzionale);

che l’omessa previsione della clausola sarebbe tanto più rilevante se riferita alla situazione, ricorrente anche nella specie, di stranieri presenti da anni sul territorio nazionale, e posti di fronte ad una penalizzazione della condotta senza, tra l’altro, che fossero dettate regole «transitorie» per una regolarizzazione del soggiorno o per un utile adempimento dell’obbligo di lasciare il territorio nazionale;

che la norma censurata determina una illegittima disparità di trattamento, secondo il rimettente, in rapporto alla fattispecie di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, ove, pur trattandosi di condotta più grave di quella delineata nella norma oggetto di censura, è assegnata rilevanza esimente ad un «giustificato motivo» per l’indebito trattenimento;

che la disciplina nascente dal raccordo fra il comma 1 e il comma 5 dell’art. 10-bis comporterebbe una ulteriore violazione del principio di uguaglianza, posto che la punibilità viene fatta dipendere da circostanze sottratte al controllo dell’interessato, e dato che lo straniero espulso andrebbe esente dalla sanzione, mentre resterebbe perseguibile e punibile lo straniero il quale, dopo un periodo di soggiorno irregolare, decida di lasciare spontaneamente il territorio dello Stato;

che la stessa disciplina, escludendo la punizione per lo straniero espulso, frustrerebbe «anche la finalità rieducativa che è coessenziale alla pena ex art. 27 Cost. […] in difetto della quale non si giustifica la qualificazione come reato delle condotte contemplate nel comma 1 dell’art. 10-bis»;

che le questioni sollevate sarebbero rilevanti, perché dalla loro soluzione dipenderebbe l’accertamento di responsabilità rimesso al rimettente.

Considerato che i Giudici di pace di Lecco (sezione distaccata di Missaglia), La Spezia, Vasto e Perugia, ed il Tribunale di Trento (in composizione monocratica) – ciascuno con le ordinanze sopra indicate – hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non esclude, per i casi in cui ricorra un «giustificato motivo», la rilevanza penale dell’indebito trattenimento dello straniero sul territorio dello Stato;

che il Giudice di pace di Perugia (r.o. n. 114 del 2010) dubita della legittimità costituzionale della norma indicata, in rapporto all’art. 3 Cost., anche nella parte in cui non prevede un termine entro il quale, dopo l’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009, gli stranieri in condizione di soggiorno irregolare avrebbero potuto sottrarsi ad una responsabilità di tipo penale;

che lo stesso rimettente censura, inoltre, il comma 1 dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, in relazione al successivo comma 5, in quanto la previsione che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere per il reato di indebito trattenimento, quando sopravvenga l’espulsione amministrativa dell’interessato, comporterebbe una violazione degli artt. 3 e 27 Cost.;

che i dubbi di legittimità costituzionale relativi all’irrilevanza del «giustificato motivo» nell’ambito della norma censurata sono argomentati, con vario accento, in base al raffronto tra la nuova previsione contravvenzionale e la fattispecie di inottemperanza delineata al comma 5-ter dell’art. 14 dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, ove invece è prevista la corrispondente clausola di non punibilità;

che la differenza di trattamento sarebbe ingiustificata, considerando l’asserita analogia delle condotte sul piano della struttura, e valutando, per altro verso, come la legge esprima una tolleranza per il fatto di maggior gravità più ampia di quella riservata alla condotta di minor rilievo;

che l’irrilevanza del «giustificato motivo» priverebbe la fattispecie contravvenzionale della «valvola di sicurezza» necessaria ad assicurare il principio di colpevolezza e la finalizzazione rieducativa della sanzione penale;

che, secondo il Giudice di pace di Perugia, la transizione «immediata» da un regime di responsabilità amministrativa ad uno di responsabilità penale, senza la previsione di un termine per la regolarizzazione del soggiorno o per l’abbandono del territorio nazionale, avrebbe violato il principio di ragionevolezza;

che, sempre a parere dello stesso Giudice, il regime di non punibilità dello straniero espulso e quello di permanente responsabilità dello straniero allontanatosi spontaneamente dal territorio dello Stato darebbero luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento, facendo dipendere la punizione da fattori estranei al controllo dell’interessato e comportando, nel caso di proscioglimento, una violazione del principio di finalizzazione rieducativa della pena;

che, data la comunanza di oggetto delle questioni sollevate, può disporsi la riunione dei relativi procedimenti;

che tutte le indicate questioni sono manifestamente inammissibili, per ragioni diverse e, in alcuni casi, tra loro concorrenti;

che nell’ordinanza del Giudice di pace di Lecco (r.o. n. 13 del 2010) non è prospettata, neppure con riguardo a mere allegazioni difensive, alcuna circostanza che, nel caso di specie, potrebbe assumere rilievo quale «giustificato motivo»;

che tale non potrebbe considerarsi la condizione detentiva dell’imputata al momento della presentazione a giudizio, sia perché la contestazione riguarda una condotta di trattenimento indebito interrotta proprio nel giorno dell’arresto per altra causa, sia perché non potrebbe considerarsi illegittima, anche nell’attuale quadro normativo, la presenza sul territorio nazionale di uno straniero sottoposto a restrizione della libertà;

che la carenza di elementi potenzialmente giustificativi della condotta, nella descrizione della fattispecie sottoposta a giudizio, priva la questione sollevata di attuale rilevanza, o comunque non consente il necessario controllo al riguardo;

che il carattere ipotetico della questione non è escluso dalla pretesa inibizione di attività istruttorie pertinenti alle ragioni dell’indebito trattenimento, che avrebbero potuto essere almeno allegate, e che avrebbero assunto rilievo, del resto, anche a fini di quantificazione della pena da irrogare;

che anche le questioni sollevate dal Giudice di pace di La Spezia, con otto ordinanze del tutto identiche (r.o. numeri da 34 a 41 del 2010), sono manifestamente inammissibili, per una pluralità di ragioni concomitanti;

che, infatti, ciascuno dei provvedimenti è privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta cui si riferisce, e di una qualunque motivazione in punto di rilevanza, di talché resta inibita per questa Corte la necessaria verifica circa l’influenza della questione di legittimità sulla decisione richiesta al rimettente;

che ciascuno dei provvedimenti in questione, inoltre, è privo di motivazione adeguata quanto alle ragioni dell’ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost., e del pur minimo cenno ai denunciati profili di contrasto tra la norma censurata e l’art. 27 Cost.;

che la questione sollevata dal Tribunale di Trento (r.o. n. 73 del 2010) è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, posta l’incompetenza per materia del medesimo Tribunale riguardo all’attuale imputazione;

che la contestazione in udienza del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, attribuito alla cognizione del giudice di pace, è stata giustificata in rapporto all’unica ipotesi di connessione che determina la competenza di un giudice superiore (art. 6, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 – Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), cioè ipotizzando un «concorso formale» tra la fattispecie contravvenzionale ed il delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, del T.u. in materia di immigrazione;

che una siffatta prospettazione, riferita ad accuse che riguardano (anche in termini di durata) un medesimo contegno omissivo, risulta del tutto inattendibile, dato il rapporto di sussidiarietà esistente tra la contravvenzione ed il delitto, reso palese dalla clausola introduttiva che caratterizza la previsione dell’art. 10-bis («salvo che il fatto costituisca più grave reato»);

che lo stesso rimettente ha rilevato, del resto, come «il reato sussidiario previsto […] dall’art. 10-bis» debba essere apprezzato «a seguito della assoluzione» per il delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, descrivendo un rapporto alternativo e non certo una relazione concorsuale tra i due illeciti;

che in ogni caso, a prescindere dall’inesistenza originaria del fattore che avrebbe dovuto radicare la competenza del Tribunale, è priva di fondamento la tesi d’una perpetuatio iurisdictionis, utile a conservare la competenza del giudice superiore pur dopo la decisione assolutoria concernente i reati muniti di vis actractiva nella fase iniziale del giudizio;

che infatti, come questa Corte ha rilevato con riguardo a fattispecie per molti versi analoga all’attuale, la disciplina ordinaria della cosiddetta incompetenza per eccesso (artt. 23, comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale) trova una deroga, per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, nell’art. 48 del d.lgs. n. 274 del 2000, ove è stabilito che il giudicante, qualora «in ogni stato e grado del processo» constati che il reato perseguito appartiene alla competenza del giudice onorario, lo dichiara con sentenza ed ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero (ordinanza n. 252 del 2010);

che, dunque, l’odierno rimettente non potrebbe deliberare circa il merito dell’attuale imputazione, e procedere in ipotesi ad una condanna dell’imputata pur nella ricorrenza di un «giustificato motivo»;

che, per la costante giurisprudenza di questa Corte, va considerata irrilevante, e dunque inammissibile, la questione sollevata dal giudice che risulti palesemente privo della competenza a condurre il procedimento principale (ordinanze n. 82 del 2005 e n. 120 del 1993);

che anche la questione sollevata dal Giudice di pace di Vasto (r.o. n. 78 del 2010) è manifestamente inammissibile, per una pluralità di ragioni concomitanti;

che, infatti, l’ordinanza di rimessione è priva di riferimenti alla fattispecie concreta cui si riferisce e di una qualunque motivazione in punto di rilevanza, di talché resta inibita per questa Corte la necessaria attività di controllo circa l’effettiva influenza della questione di legittimità sulla decisione richiesta al rimettente;

che il giudice a quo, inoltre, non ha fornito motivazione adeguata quanto alle ragioni dell’ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost., e non ha compiuto alcun cenno ai profili del ritenuto contrasto tra la norma censurata e l’art. 27 Cost.;

che, infine, sono manifestamente inammissibili anche le questioni sollevate dal Giudice di pace di Perugia (r.o. n. 114 del 2010), attese le gravi carenze che segnano la descrizione della fattispecie concreta e la motivazione in punto di rilevanza;

che infatti nell’ordinanza di rimessione non è prospettata, neppure con riguardo a mere allegazioni difensive, alcuna circostanza che nel caso di specie potrebbe assumere rilievo quale «giustificato motivo» della condotta di indebito trattenimento;

che sono privi di pertinenza, al proposito, i cenni del rimettente all’omessa previsione di un termine per gli stranieri che volessero regolarizzare il proprio soggiorno o lasciare il territorio nazionale, sia perché non si tratta di questione concernente in fatto le ragioni della condotta omissiva, sia perché l’argomento, ove mai assumesse un senso, varrebbe per un tempo indefinito e con riguardo a tutti gli stranieri in condizione di soggiorno irregolare;

che la carenza di elementi potenzialmente giustificativi della condotta, nella descrizione della fattispecie sottoposta a giudizio, priva la questione sollevata di attuale rilevanza, o comunque non consente il necessario controllo al riguardo;

che analogo giudizio deve formularsi quanto alla questione concernente il difforme trattamento dello straniero espulso per via amministrativa (esonerato dalla punizione con sentenza di non luogo procedere) e dello straniero allontanatosi spontaneamente dal territorio dello Stato (da assoggettare comunque al processo ed all’eventuale condanna);

che infatti, a prescindere dal carattere indeterminato del petitum formulato dal rimettente al fine di eliminare la sperequazione prospettata, il giudice a quo non ha indicato se, nella specie, l’imputato si trovi ancora sul territorio nazionale e, in caso negativo, se sia stato espulso o, piuttosto, abbia volontariamente interrotto la propria permanenza illegale;

che di conseguenza non è documentata, qualunque ne sia l’oggetto, l’attuale rilevanza della questione sollevata (sentenza n. 250 del 2010);

che analoghi rilievi vanno svolti in rapporto alla questione concernente il pregiudizio che la normativa oggetto di censura recherebbe al principio di finalizzazione rieducativa della pena, pregiudizio che d’altronde il rimettente ha fatto oggetto di una mera enunciazione;

che, infine, questa Corte ha già ritenuto inammissibile la questione relativa all’omessa previsione di un termine dilatorio per gli stranieri che intendessero sottrarsi alla responsabilità penale sopravvenuta per la loro condizione di soggiornanti irregolari (sentenza n. 250 del 2010);

che la questione medesima, infatti, si risolve nella richiesta di una pronuncia additiva, dai contenuti indefiniti e non costituzionalmente obbligati, tale da investire uno spazio discrezionale di esclusiva spettanza del legislatore.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dai Giudici di pace di Lecco (sezione distaccata di Missaglia), La Spezia, Vasto e Perugia, e dal Tribunale di Trento, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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pronuncia precedenteFare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito.
Pronuncia successiva

ORDINANZA N. 319

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205) aggiunto dall’art. 35, comma 7 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promosso dal Tribunale di Orvieto nel procedimento penale a carico di L. N. con ordinanza del 16 maggio 2008, iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza del 16 maggio 2008, trasmessa alla Corte il 25 gennaio 2010, il Tribunale di Orvieto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, «in relazione all’art. 5» del medesimo d.lgs. n. 74 del 2000, «nella parte in cui prevede l’applicazione della normativa ai fatt i commessi prima della sua entrata in vigore»;

che il giudice a quo – rilevato che il reato di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 274 del 2000 «è stato introdotto in epoca successiva alla scadenza dei pagamenti periodici relativi ai redditi del 2005» – reputa «doversi accertare la legittimità costituzionale della suddetta normativa relativamente ai fatti contestati»;

che il rimettente «sospetta», in specie, la violazione dell’art. 3 Cost. in rapporto al principio di eguaglianza, «perché il termine di pagamento dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale dei redditi coincideva con la data di presentazione della dichiarazione anteriore all’entrata in vigore della normativa di cui se ne pretende l’applicazione»;

che sarebbe, altresì, violato l’art. 25 Cost., «perché nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima dei fatti contestati»;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza e sui parametri costituzionali evocati o, comunque, nel merito, manifestamente infondata per erroneità del presupposto interpretativo.

Considerato che, nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo omette totalmente di descrivere la fattispecie concreta oggetto del giudizio principale e di motivare sulla rilevanza della questione;

che anche la motivazione sulla non manifesta infondatezza presenta evidenti carenze, risultando insufficiente e oscura;

che, quanto alla ipotizzata violazione del principio di irretroattività della norma incriminatrice (art. 25, secondo comma, della Costituzione), il giudice a quo non spiega, infatti, in modo adeguato perché – a suo avviso – il censurato art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), che contempla il delitto di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovrebbe trovare applicazione anche in rapporto a fatti commessi prima della sua entrata in vigore, nonostante il disposto dell’art. 2, primo comma, del codice penale;

che con riguardo, poi, al dedotto contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), il giudice a quo prospetta un argomento – oltre che inesatto – di per sé inconferente ai fini della dimostrazione del vulnus denunciato (quale, in specie, l’asserita coincidenza del termine per il versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale con quello di presentazione della dichiarazione stessa);

che dall’ordinanza di rimessione non è dato neppure comprendere, infine, per quale ragione venga coinvolto nello scrutinio di costituzionalità («in relazione») anche l’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevede il delitto di omessa presentazione della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto (norma menzionata unicamente nel dispositivo);

che le manchevolezze evidenziate rendono la questione manifestamente inammissibile (ex plurimis, quanto all’omessa descrizione della fattispecie concreta e all’omessa motivazione sulla rilevanza, ordinanze n. 85 del 2010, n. 201 e n. 181 del 2009; quanto al difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, ordinanze n. 202, n. 191 e n. 122 del 2009).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, in relazione all’art. 5 del medesimo d.lgs. n. 74 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Tribunale di Orvieto con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 320

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Giudice di pace di Trieste, nel procedimento penale a carico di D. A. con ordinanza del 14 gennaio 2010, iscritta al n. 129 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 14 gennaio 2010, nel corso di un processo penale nei confronti di uno straniero imputato del reato previsto dalla norma censurata, il Giudice di pace di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, secondo comma, 27 e 117 della Costituzione, dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), il quale punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del [citato] testo unico nonché di quelle di cui all’art. 1 della l egge 28 maggio 2007, n. 68»;

che, in accoglimento dell’eccezione formulata dal pubblico ministero nel corso dell’udienza, il giudice a quo ritiene che la norma impugnata si ponga in contrasto, in primo luogo, con l’art. 27 Cost., giacché la comminatoria di una pena pecuniaria nei confronti di persone prive di fonti di reddito risulterebbe «meramente pretestuosa» e inidonea ad esplicare qualsiasi funzione rieducativa;

che sarebbe inoltre violato l’art. 24 Cost., in quanto la norma censurata non consentirebbe all’imputato «di dimostrare efficacemente […] a fini assolutori la esistenza di una qualche causa di giustificazione»;

che risulterebbe leso anche l’art. 117 Cost., in riferimento all’art. 14 della «Convenzione Onu sui Diritti dell’Uomo» [recte: della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948] e all’art. 5 del «Preambolo del Protocollo della Convenzione di Palermo 12-15 dicembre 2000» [recte: del Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, adottato dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000], in forza del quale «i migranti non diventano assoggettabili all’azione penale per il fatto di essere oggetto delle condotte di cui all’art. 6»;

che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 si porrebbe, poi, in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto plurimi profili;

che la scelta legislativa di criminalizzare l’ingresso e la permanenza «clandestini» dello straniero nello Stato italiano risulterebbe, infatti, irragionevole, stante la coincidenza dell’ambito applicativo della nuova fattispecie criminosa con quello della preesistente misura amministrativa dell’espulsione;

che apparirebbe, altresì, priva di ogni valida ragione giustificativa la preclusione dell’oblazione di cui all’art. 162 del codice penale, sancita dalla norma censurata;

che sarebbe ravvisabile, inoltre, anche una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla fattispecie criminosa contemplata dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, che punisce lo straniero inottemperante all’ordine di allontanamento del questore solo quando lo stesso si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito e «senza giustificato motivo»: limitazione che non si rinviene, per contro, nella disposizione impugnata;

che detta disposizione – sottoponendo a pena il «migrante economico» – violerebbe, ancora, il principio di eguaglianza, che vieta ogni discriminazione fondata su condizioni personali o sociali;

che la nuova norma risulterebbe, poi, irrazionale nella parte in cui – nell’elevare a reato lo stato di clandestinità, in precedenza penalmente irrilevante – anziché prevedere una «adeguata tempistica», ha concesso ai «clandestini» un termine di soli quindici giorni per allontanarsi dal territorio dello Stato, ponendoli così nella concreta impossibilità di evitare di incorrere in responsabilità penale per un fatto anteriormente commesso;

che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 violerebbe, infine, l’art. 2 Cost., in quanto pregiudicherebbe «i diritti inviolabili dell’uomo alla propria identità personale ed alla propria cittadinanza», nonché l’art. 25, secondo comma, Cost., perché non sanzionerebbe fatti materiali, ma condizioni personali.

Considerato che il Giudice di pace di Trieste dubita, in riferimento a plurimi parametri, della legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), che punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso o si trattiene illegalmente nel territorio dello Stato;

che l’ordinanza di rimessione presenta carenze in punto di descrizione della fattispecie concreta e di motivazione sulla rilevanza tali da precludere lo scrutinio nel merito della questione;

che il giudice a quo si limita, infatti, a riprodurre, nell’epigrafe di detta ordinanza, il capo di imputazione: il quale si risolve, peraltro, nella sostanza, in una mera e generica parafrasi della norma incriminatrice – persino quanto al riferimento, in via alternativa, alle condotte di ingresso e di permanenza illegale nello Stato – senza che venga riferito alcunché sulla vicenda che ha dato origine al giudizio e sulla sua effettiva riconducibilità al paradigma punitivo censurato;

che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile (con riferimento ad analoghe questioni di legittimità costituzionale, relative alla medesima norma, ordinanza n. 253 del 2010).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, secondo comma, 27 e 117 della Costituzione, dal Giudice di pace di Trieste con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 321

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promossi dal Giudice di pace di Trieste con due ordinanze del 14, una ordinanza del 19 gennaio 2010 ed un’altra del 14 gennaio 2010, rispettivamente iscritte ai nn. da 130 a 132 e 135 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 20, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con quattro ordinanze di analogo tenore, emesse il 14 gennaio 2010 (r.o. n. 130, n. 131 e n. 135 del 2010) e il 19 gennaio 2010 (r.o. n. 132 del 2010), nel corso di processi penali nei confronti di stranieri imputati del reato previsto dalla norma censurata, il Giudice di pace di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, secondo comma, 27 e 117 della Costituzione, dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), il quale punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in viol azione delle disposizioni del [citato] testo unico nonché di quelle di cui all’art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68»;

che il giudice a quo riferisce che, nel corso dell’udienza, il pubblico ministero (nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 129, n. 131 e n. 135 del 2010) ovvero il difensore dell’imputato, con l’adesione della parte pubblica (nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 130 del 2010), avevano eccepito l’illegittimità costituzionale del citato art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998: eccezioni di cui vengono sintetizzati i contenuti;

che nell’ordinanza r.o. n. 132 del 2010 la questione è, invece, sollevata d’ufficio;

che la norma impugnata si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 27 Cost., giacché la comminatoria di una pena pecuniaria nei confronti di persone prive di fonti di reddito risulterebbe «meramente pretestuosa» e inidonea ad esplicare qualsiasi funzione rieducativa;

che sarebbe inoltre violato l’art. 24 Cost., in quanto la norma censurata non consentirebbe all’imputato «di dimostrare efficacemente […] a fini assolutori la esistenza di una qualche causa di giustificazione»;

che risulterebbe leso anche l’art. 117 Cost., in riferimento all’art. 14 della «Convenzione Onu sui Diritti dell’Uomo» [recte: della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948] e all’art. 5 del «Preambolo del Protocollo della Convenzione di Palermo 12-15 dicembre 2000» [recte: del Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, adottato dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000], in forza del quale «i migranti non diventano assoggettabili all’azione penale per il fatto di essere oggetto delle condotte di cui all’art. 6»;

che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 si porrebbe, poi, in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto plurimi profili;

che la scelta legislativa di criminalizzare l’ingresso e la permanenza «clandestini» dello straniero nello Stato italiano risulterebbe, infatti, irragionevole, stante la coincidenza dell’ambito applicativo della nuova fattispecie criminosa con quello della preesistente misura amministrativa dell’espulsione;

che apparirebbe, altresì, priva di ogni valida ragione giustificativa la preclusione dell’oblazione di cui all’art. 162 del codice penale, sancita dalla norma censurata;

che sarebbe ravvisabile, inoltre, una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla fattispecie criminosa contemplata dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, che punisce lo straniero inottemperante all’ordine di allontanamento del questore solo ove lo stesso si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito e «senza giustificato motivo»: limitazione che non si rinviene, per contro, nella disposizione impugnata;

che detta disposizione – sottoponendo a pena il «migrante economico» – violerebbe, ancora, il principio di eguaglianza, che vieta ogni discriminazione fondata su condizioni personali o sociali;

che la nuova norma risulterebbe irrazionale anche nella parte in cui – nell’elevare a reato lo stato di clandestinità, in precedenza penalmente irrilevante – anziché prevedere una «adeguata tempistica», ha concesso ai «clandestini» un termine di soli quindici giorni per allontanarsi dal territorio dello Stato, ponendoli così nella concreta impossibilità di evitare di incorrere in responsabilità penale per un fatto anteriormente commesso;

che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 violerebbe, infine, l’art. 2 Cost., in quanto pregiudicherebbe «i diritti inviolabili dell’uomo alla propria identità personale ed alla propria cittadinanza», nonché l’art. 25, secondo comma, Cost., perché non sanzionerebbe fatti materiali, ma condizioni personali;

che, in sostanza – osserva conclusivamente il rimettente – tanto dalle singole censure prospettate che dal loro complesso, emergerebbe come la discrezionalità del legislatore sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole, sia nella configurazione della fattispecie criminosa, sia nella determinazione del relativo trattamento sanzionatorio;

che, quanto alla rilevanza, il giudice a quo riferisce che, sulla base degli atti irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria e degli altri documenti acquisiti, gli imputati nei giudizi principali risultano presenti nel territorio nazionale senza essere muniti di permesso di soggiorno e, anzi – nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 130, n. 131 e n. 132 del 2010 – trovandosi già colpiti da provvedimento di espulsione: donde la rilevanza della questione, il cui accoglimento comporterebbe l’assoluzione degli imputati stessi, altrimenti esposti ad una sentenza di condanna;

che nel giudizio di costituzionalità relativo all’ordinanza r.o. n. 135 del 2010, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità della questione, in quanto il rimettente si sarebbe limitato a dare conto dei dubbi di legittimità costituzionale del pubblico ministero, senza formulare una propria valutazione di non manifesta infondatezza: l’unica valutazione espressa dal giudice a quo atterrebbe, infatti, all’irragionevolezza della fattispecie criminosa e della relativa sanzione;

che, sotto il primo profilo, la questione sarebbe comunque infondata, giacché la scelta di attribuire rilievo penale a comportamenti in precedenza sanzionati solo in via amministrativa costituirebbe esercizio, non irragionevole, dell’ampia discrezionalità che al legislatore compete nell’individuazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni;

che, sotto il secondo profilo – quello, cioè, della natura della sanzione, censurata in rapporto alla condizione di impossidenza del destinatario dell’incriminazione – la questione risulterebbe puramente astratta e, dunque, inammissibile, giacché il rimettente non riferisce che l’imputato nel giudizio a quo versi effettivamente nella predetta condizione.

Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;

che il Giudice di pace di Trieste dubita, in riferimento a plurimi parametri, della legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), che punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso o si trattiene illegalmente nel territorio dello Stato;

che l’eccezione preliminare di inammissibilità formulata dell’Avvocatura dello Stato in rapporto all’ordinanza r.o. n. 135 del 2010 – ma estensibile anche alle altre ordinanze di rimessione che sollevano le questioni di costituzionalità su eccezione di parte – non è fondata;

che dal tenore complessivo di dette ordinanze emerge, infatti, con sufficiente chiarezza, che il giudice a quo, nell’esporre – in termini di sintesi – le censure prospettate dalle parti, ha inteso condividerle e farle proprie: onde non si può ritenere che manchi un apprezzamento sul punto;

che alcune delle questioni sollevate sono, nondimeno, manifestamente inammissibili per difetto di adeguata motivazione sulle ragioni dell’asserita violazione dei parametri evocati, prospettata in termini puramente assiomatici (ex plurimis, ordinanze n. 202, n. 191 e n. 181 del 2009): carenza che non può venire colmata dal rinvio alle più ampie deduzioni contenute in atti di parte, essendo il rimettente tenuto ad esplicitare in modo autonomo e autosufficiente, nell’ordinanza di rimessione, i motivi per i quali reputa lesi i parametri stessi (ex plurimis, ordinanze n. 19 del 2008 e n. 75 del 2007);

che detta carenza è riscontrabile, in particolare, con riguardo alla censura di violazione dell’art. 2 Cost., motivata dal giudice a quo con il solo rilievo che la norma censurata pregiudicherebbe «i diritti inviolabili dell’uomo alla propria identità personale ed alla propria cittadinanza», senza che venga spiegato attraverso quale meccanismo si produrrebbe l’ipotizzato vulnus; con riguardo alla censura di violazione dell’art. 24 Cost., basata sull’apodittico assunto che la disposizione impugnata non consentirebbe all’imputato «di dimostrare efficacemente […] a fini assolutori la esistenza di una qualche causa di giustificazione», senza che si chiarisca donde deriverebbe il lamentato impedimento alla facoltà di difendersi provando; con riguardo, infine, alla censura di violazione dell’art. 117 Cost., la quale si esaurisce nel mero richiamo alle norme internazionali con le quali la norma censurata si porrebbe contrasto;

che manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza risulta, per altro verso, la questione relativa alla preclusione dell’oblazione per la contravvenzione in esame, sancita dal secondo periodo del comma 1 della norma impugnata (preclusione che il rimettente reputa ingiustificata e, dunque, lesiva dell’art. 3 Cost.), giacché dalle ordinanze di rimessione non consta che l’imputato abbia concretamente presentato, in alcuno dei casi, una domanda di oblazione;

che, per il resto, questa Corte ha già scrutinato questioni di legittimità costituzionale in larga parte analoghe a quelle oggi sollevate, giudicandole infondate (sentenza n. 250 del 2010);

che si è escluso, in specie, che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 violi il principio di materialità del reato, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., sottoponendo a pena una «condizione personale e sociale» – quella di straniero «clandestino» (o, più propriamente, «irregolare») – della quale verrebbe arbitrariamente presunta la pericolosità sociale;

che la norma impugnata non reprime, infatti, un «modo di essere» della persona, ma uno specifico comportamento, trasgressivo di norme vigenti, quale quello descritto dalle locuzioni alternative «fare ingresso» e «trattenersi» contra legem nel territorio dello Stato: la condizione di «irregolarità» del migrante non è, dunque, un dato preesistente ed estraneo al fatto, ma rappresenta, al contrario, la conseguenza della stessa condotta resa penalmente illecita, esprimendone in termini di sintesi la nota strutturale di illiceità;

che considerazioni analoghe valgono quanto alla questione relativa alla violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), per avere la norma impugnata, sottoponendo a pena il «migrante economico», introdotto una discriminazione fondata su condizioni personali o sociali;

che, al riguardo, questa Corte ha già rilevato come la norma censurata non possa ritenersi volta a rendere penalmente rilevanti situazioni di povertà ed emarginazione, ma si limiti a reprimere «la commissione di un fatto oggettivamente (e comunque) antigiuridico, offensivo di un interesse reputato meritevole di tutela», identificabile «nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo»: interesse la cui protezione penalistica «non può considerarsi irrazionale ed arbitraria», in quanto strumentale alla salvaguardia «del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata» (sentenza n. 250 del 2010);

che la Corte ha, del pari, già disatteso la censura di violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), connessa alla coincidenza dell’ambito applicativo della nuova fattispecie criminosa con quello della preesistente misura amministrativa dell’espulsione;

che la sovrapposizione della disciplina penale a quella amministrativa e la circostanza che il legislatore abbia mostrato di «considerare l’applicazione della sanzione penale come un esito “subordinato” rispetto alla materiale estromissione dal territorio nazionale dello straniero» non comportano ancora, infatti, che il procedimento penale per il reato in esame rappresenti, a priori, un mero “duplicato” della procedura amministrativa di espulsione: «e ciò, a tacer d’altro, per la ragione che – come l’esperienza attesta – in un largo numero di casi non è possibile, per la pubblica amministrazione, dare corso all’esecuzione dei provvedimenti espulsivi»; mentre «la stessa sostituzione della pena pecuniaria con la misura dell’espulsione da parte del giudice – configurata, peraltro, dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 come soltanto discrezionale (“può&# 8221;) – resta espressamente subordinata alla condizione che non ricorrano le situazioni che, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del medesimo decreto legislativo, impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica» (sentenza n. 250 del 2010);

che, con riguardo alla censura di violazione del principio di ragionevolezza e della finalità rieducativa della pena (artt. 3 e 27 Cost.), legata alla comminatoria di una pena pecuniaria nei confronti di persone prive di fonti di reddito, va disattesa l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, formulata dall’Avvocatura dello Stato sulla considerazione che il giudice a quo non avrebbe precisato se l’imputato nel giudizio principale versi effettivamente in una condizione di indigenza;

che tale eccezione sovrappone i piani della rilevanza e della non manifesta infondatezza: l’idoneità a colpire persone impossidenti è evocata, infatti, dal rimettente come tratto generale della norma incriminatrice, atta a porla in contrasto con i parametri costituzionali considerati; il che non implica che – ai fini dell’ammissibilità della questione – esso debba risultare riscontrabile anche nella fattispecie concreta che dà adito all’incidente di costituzionalità, rimanendo la questione comunque rilevante a fronte dell’incidenza dell’eventuale ablazione della norma impugnata sugli esiti del processo principale, destinato verosimilmente a concludersi, altrimenti – secondo quanto si afferma nelle ordinanze di rimessione – con una sentenza di condanna (con riferimento ad analoga eccezione, sentenza n. 250 del 2010);

che, nel merito, questa Corte ha già rilevato – con riguardo alla dedotta violazione del principio di ragionevolezza – che è, in effetti, difficilmente contestabile che «la pena dell’ammenda, applicabile allo straniero per il reato in esame nei casi di mancata esecuzione (o eseguibilità immediata) dell’espulsione, presenti una ridotta capacità dissuasiva: e ciò, a fronte della condizione di insolvibilità in cui assai spesso (ma, comunque, non indefettibilmente) versa il migrante irregolare e della difficoltà di convertire la pena rimasta ineseguita in lavoro sostitutivo o in obbligo di permanenza domiciliare (art. 55 del d.lgs. n. 274 del 2000), stante la problematica compatibilità di tali misure con la situazione personale del condannato, spesso privo di fissa dimora e che, comunque, non può risiedere legalmente in Italia»;

che «simili valutazioni – al pari di quella attinente, più in generale, al rapporto fra “costi e benefici” connessi all’introduzione della nuova figura criminosa, rapporto secondo molti largamente deficitario […] – attengono, tuttavia, all’opportunità della scelta legislativa su un piano di politica criminale e giudiziaria: piano di per sé estraneo al sindacato di costituzionalità» (sentenza n. 250 del 2010);

che analoghe considerazioni valgono anche in rapporto alla asserita violazione della finalità rieducativa della pena: violazione che il rimettente fa discendere, non da una connotazione intrinseca della sanzione pecuniaria comminata, e neppure dal suo difetto di proporzione rispetto al disvalore dell’illecito, ma esclusivamente dalla sua carenza di effettività, legata alla (ricorrente) condizione di insolvibilità dell’autore del fatto; ciò, senza considerare che l’accoglimento di tale questione produrrebbe un risultato antitetico rispetto agli intenti del giudice a quo, risolvendosi, in sostanza, nell’affermazione dell’esigenza costituzionale di inasprire il trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa, sostituendo l’attuale pena dell’ammenda con una pena che offra maggiori garanzie di eseguibilità e, cioè, in pratica, con la pena detentiva;

che questa Corte ha escluso, inoltre, la configurabilità di una violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto al delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento impartito dal questore, di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 (sentenza n. 250 del 2010), rilevando che la mancata reiterazione nella norma impugnata della clausola «senza giustificato motivo», presente nella citata disposizione, non esclude che alla contravvenzione in esame si applichino le esimenti di ordine generale;

che la diversità di regime comunque riscontrabile tra le due fattispecie – stante la maggiore ampiezza delle situazioni riconducibili al paradigma del «giustificato motivo» rispetto alle cause generali di non punibilità – non ridonda, d’altronde, in una violazione del parametro evocato;

che, per un verso, infatti, la scelta di riconoscere efficacia giustificativa, per il delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento, a situazioni ostative ulteriori rispetto alle esimenti di ordine generale trova fondamento nelle peculiarità di tale forma di espulsione, consentita solo ove ricorrano specifiche situazioni, impeditive dell’accompagnamento immediato alla frontiera e alle quali sovente corrispondono condizioni di rilevante difficoltà di tempestivo adempimento da parte dell’intimato: così che la clausola in questione rappresenta un elemento che contribuisce a rendere costituzionalmente “tollerabile” il rigore sanzionatorio che connota la figura criminosa;

che, sotto altro profilo, poi, alla contravvenzione in esame è applicabile – diversamente che al predetto delitto – l’istituto della improcedibilità per particolare tenuità fatto, proprio dei reati di competenza del giudice di pace (art. 34 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»): istituto che «può valere a “controbilanciare” la mancata attribuzione di rilievo alle fattispecie di “giustificato motivo” che esulino dal novero delle cause generali di non punibilità» (sentenza n. 250 del 2010);

che quanto, poi, all’ulteriore elemento di discriminazione denunciato dal rimettente – ossia la circostanza che lo straniero inottemperante all’ordine di allontanamento del questore sia punito solo qualora si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito (termine che la norma censurata invece non prevede) – vale osservare che ciò rientra nella logica del «“salto di qualità” della risposta punitiva» prefigurato dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998: «salto di qualità» che interviene solo allorché lo straniero – che già versa in una condizione di irregolarità, rilevante agli effetti dell’art. 10-bis – ometta di adeguarsi, entro il termine assegnatogli, al sopravvenuto provvedimento amministrativo individualizzato che gli impone di lasciare il territorio nazionale;

che con riguardo, ancora, alla questione afferente alla mancata previsione di una disciplina transitoria a tutela degli stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato al momento dell’entrata in vigore della nuova norma incriminatrice, questa Corte ha già ritenuto inammissibile analoga questione – sollevata in rapporto a diverso parametro (l’art. 24, anziché l’art. 3 Cost.) – rilevando come essa si risolva «nella richiesta di una pronuncia additiva dai contenuti indefiniti e non costituzionalmente obbligati»: non potrebbe essere, infatti, la Corte «a stabilire “un termine e una modalità operativa” per consentire a detti stranieri di allontanarsi spontaneamente dall’Italia senza incorrere in responsabilità penale, trattandosi di operazione che implica scelte discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore» (sentenza n. 250 del 2010).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 (quanto alla preclusione dell’oblazione e alla mancata previsione di una disciplina transitoria), 24 e 117 della Costituzione, dal Giudice di pace di Trieste con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del citato art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sollevate, in riferimento agli artt. 3 (quanto ai restanti profili), 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, dal Giudice di pace di Trieste con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

ORDINANZA N. 322

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 709, quarto comma, e 709-ter del codice di procedura civile promossi dal Tribunale di Cagliari con due ordinanze del 28 novembre 2009, iscritte ai numeri 126 e 137 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 18 e 20, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 28 novembre 2009, il Tribunale ordinario di Cagliari, in composizione collegiale – chiamato a pronunciarsi su un reclamo proposto, ex articolo 669-terdecies del codice di procedura civile, avverso un’ordinanza con la quale il giudice istruttore, nell’ambito di un procedimento di separazione giudiziale, aveva modificato le condizioni economiche stabilite dal presidente del tribunale – ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 709, quarto comma, del medesimo codice, «nella parte in cui non consente di sottoporre a reclamo davanti al Tribunale, in composizione collegiale, le ordinanze del giudice istruttore in materia di revoca o modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente del tribunale nell’interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell’ar t. 708, 3° comma, c.p.c.»;

che il rimettente rileva innanzitutto che «nell’ambito del giudizio di separazione, disciplinato dagli artt. 706 e seguenti cod. proc. civ., non esiste alcuna disposizione che espressamente consenta [neppure con interpretazione estensiva o analogica] il reclamo delle ordinanze di revoca o modifica dei cosiddetti provvedimenti presidenziali, adottate dal giudice istruttore»; ciò in quanto i provvedimenti provvisori di separazione non rivestono carattere cautelare, presentando essi viceversa «un carattere meramente sommario, essendo emanati nel corso del giudizio ordinario di cognizione» e «destinati ad essere assorbiti nella sentenza definitiva di merito»; per cui «il rapporto tra questi provvedimenti e la sentenza definitiva – diversamente che per le misure cautelari – non si pone in termini di conferma, revoca o riforma»;

che, d’altronde, per il collegio non appare «applicabile alle ordinanze del giudice istruttore, nell’attuale situazione normativa, alcun mezzo di impugnativa alternativo al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.», giacché nonostante l’evoluzione della disciplina di cui agli artt. 708 e 709 cod. proc. civ. – modificati entrambi dall’articolo 2, comma 3, lettera e-ter), del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, ed il primo anche dall’art. 2 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) – lo strumento del reclamo è limitato alla sola ordinanza pronunciata dal presidente del tribunale nella prima fase del giudizio di separazione;

che pertanto, secondo il rimettente, ancor oggi deve «escludersi che le parti possano provocare il controllo giurisdizionale dei provvedimenti istruttori davanti ad un’autorità giudiziaria diversa, qualora i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse della prole e dei coniugi siano stati dati per la prima volta, ovvero modificati o revocati, da parte del giudice istruttore nella fase del giudizio di separazione successiva a quella c.d. “presidenziale”»;

che non essendovi «alcuno spazio per una interpretazione costituzionalmente orientata del dettato normativo, che apra la strada al reclamo delle ordinanze del giudice istruttore pronunciate ai sensi dell’art. 709 c.p.c.», il rimettente ritiene che l’omessa previsione di tale rimedio sia lesiva: a) dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, «non sussistendo differenza alcuna tra la condizione di chi subisca, sul piano personale e/o patrimoniale, gli effetti dei provvedimenti temporanei ed urgenti pronunciati con ordinanza del presidente del tribunale, e quella di chi debba sopportare un analogo provvedimento, assunto come lesivo dei propri diritti, emesso nel prosieguo dello stesso giudizio dal giudice istruttore»; b) dell’art. 24 Cost. «essendo irragionevolmente esclusa, per le ordinanze del giudice istruttore, la ricorribilità ad uno strumento di difesa (il reclamo dinanzi al collegio) di an aloga valenza garantistica rispetto a quello ritenuto, dallo stesso legislatore, necessario con riguardo ad un’altra fase dello stesso procedimento»; c) dell’art. 111, secondo comma, Cost. poiché «solo la possibilità di adire un giudice diverso da quello del provvedimento contestato assicurerebbe, sull’istanza di revoca o modifica dei provvedimenti del giudice istruttore, la piena terzietà ed imparzialità dell’organo decidente»;

che, infine – ritenuta ininfluente la qualificazione data al reclamo sottoposto al suo vaglio, essendo chiara la volontà di ottenere comunque, al di la del nomen juris utilizzato, un riesame da parte di un giudice diverso da quello che ha adottato il provvedimento –, il giudice a quo afferma la rilevanza della questione, giacché solo una pronuncia di illegittimità della norma denunciata consentirebbe l’esame nel merito del reclamo proposto;

che, con altra ordinanza emessa in pari data, sulla base di argomentazioni sostanzialmente coincidenti e con riferimento agli stessi parametri, il medesimo Tribunale ordinario di Cagliari, in composizione collegiale – anch’esso investito di un reclamo ex art. 669-terdecies cod. proc. civ. avverso un’ordinanza con la quale il giudice istruttore, nell’ambito di un procedimento di separazione giudiziale, aveva modificato (ai sensi dell’art. 709-ter cod. proc. civ.) i provvedimenti temporanei ed urgenti assunti in precedenza –, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 709, quarto comma, e 709-ter del medesimo codice, «considerati in sé e nelle loro reciproche relazioni, nelle parti in cui non consentono di sottoporre a reclamo davanti al Tribunale, in composizione collegiale, le ordinanze del giudice istruttore in materia di revoca o modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal p residente del tribunale nell’interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell’art. 708, 3° comma, c.p.c.»;

che in entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità ovvero, nel merito, per la manifesta infondatezza delle sollevate questioni.

Considerato che il Tribunale ordinario di Cagliari, in composizione collegiale, ha censurato (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al r.o. n. 126 del 2010) l’art. 709, quarto comma, del codice di procedura civile, «nella parte in cui non consente di sottoporre a reclamo davanti al Tribunale, in composizione collegiale, le ordinanze del giudice istruttore in materia di revoca o modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente del tribunale nell’interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell’art. 708, 3° comma, c.p.c.»; e (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al r.o. n. 137 del 2010) gli artt. 709, quarto comma, e 709-ter del medesimo codice, «considerati in sé e nelle loro reciproche relazioni, nelle parti in cui non consentono di sottoporre a reclamo davanti al Tribunale, in composizione collegiale, le ordinanze del giudice istruttore in materia di revoca o modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente del tribunale nell’interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell’art. 708, 3° comma, c.p.c.»;

che, secondo i rimettenti, le norme impugnate si porrebbero in contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, non essendo differente la situazione di chi subisce gli effetti dei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente del tribunale ovvero dal giudice istruttore; b) con l’art. 24 Cost. per l’irragionevole esclusione del rimedio del reclamo avverso i provvedimenti di quest’ultimo; c) con l’art. 111, secondo comma, Cost. poiché solo la possibilità di adire, per la revoca o la modifica del provvedimento, un giudice diverso da quello del provvedimento contestato assicurerebbe la piena terzietà ed imparzialità dell’organo decidente;

che i giudizi – aventi (tra l’altro) ad oggetto una medesima disposizione, censurata sulla base di argomentazioni identiche ed in riferimento agli stessi parametri – devono essere riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi;

che l’Avvocatura dello Stato ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione per omessa verifica della possibilità di una interpretazione delle disposizioni denunciate conforme a Costituzione;

che tale eccezione risulta fondata;

che, invero, i giudici a quibus (nel contesto di pur articolate motivazioni in ordine alla individuazione della natura dei provvedimenti provvisori pronunciati dal giudice istruttore nei procedimenti di separazione giudiziale) muovono dalla premessa secondo la quale «nell’ambito del giudizio di separazione, disciplinato dagli artt. 706 e seguenti c.p.c., non esiste alcuna disposizione che espressamente consenta [neppure con interpretazione estensiva o analogica] il reclamo delle ordinanze di revoca o modifica dei cosiddetti provvedimenti presidenziali, adottate dal giudice istruttore»;

che da tale affermazione (basata sulla analisi del mero dato testuale) essi traggono la conseguenza (su cui fondano i dubbi di costituzionalità delle disposizioni censurate) secondo la quale – nonostante l’evoluzione normativa che ha riguardato nel tempo gli artt. 708 e 709 cod. proc. civ., all’esito della quale lo strumento del reclamo davanti alla Corte d’appello continua ad applicarsi alla sola ordinanza pronunciata dal presidente del tribunale nella prima fase del giudizio di separazione – ancor oggi deve «escludersi che le parti possano provocare il controllo giurisdizionale dei provvedimenti istruttori davanti ad un’autorità giudiziaria diversa, qualora i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse della prole e dei coniugi siano stati dati per la prima volta, ovvero modificati o revocati, da parte del giudice istruttore nella fase del giudizio di separazione successiva a quella c.d. “presi denziale”»;

che, muovendo dalla constatazione dell’esistenza di tale lacuna, i rimettenti ritengono in maniera del tutto apodittica che non vi sarebbe «alcuno spazio per una interpretazione costituzionalmente orientata del dettato normativo, che apra la strada al reclamo delle ordinanze del giudice istruttore pronunciate ai sensi dell’art. 709 c.p.c.»;

che, tuttavia, argomentando in tal modo i giudici a quibus si sottraggono all’onere di sperimentare la possibilità di pervenire ad una doverosa interpretazione costituzionalmente conforme della norma che consenta di colmare la dedotta carenza di tutela (ordinanze n. 192, n. 110 del 2010 e n. 310 del 2009);

che, a tale proposito, i rimettenti neppure si danno carico di considerare che – già prima della proposizione degli odierni incidenti di costituzionalità – nella giurisprudenza si sono formati differenti orientamenti (puntualmente registrati e commentati dalla dottrina), nel cui contesto alle numerose pronunce di merito, che hanno affermato anch’esse (senza peraltro trarre da ciò dubbi di costituzionalità) l’esclusione dell’ammissibilità della reclamabilità dei provvedimenti emessi dal giudice istruttore nei processi de quibus, si contrappongono (oltre a talune posizioni, minoritarie, che ammettono la proponibilità del reclamo davanti alla Corte d’appello) altrettanto numerose decisioni di altri giudici di merito che sono pervenuti, seguendo la via interpretativa, alla medesima conclusione auspicata dal rimettente della reclamabilità di tali provvedimenti davanti al collegio mediante il rimedio del rito cautelare uniforme ai sensi dell’art. 669-terdecies cod. proc. civ. (ordinanza n. 310 del 2009);

che, in definitiva, in assenza di un consolidato “diritto vivente”, i dubbi di legittimità costituzionale così prospettati sembrerebbero piuttosto risolversi in un improprio tentativo di ottenere dalla Corte l’avallo della interpretazione della norma propugnata dai rimettenti, con uso evidentemente distorto dell’incidente di costituzionalità (ex plurimis, ordinanze n. 219 del 2010 e n. 150 del 2009);

che, infine – in considerazione delle richiamate differenti soluzioni interpretative cui è pervenuta la giurisprudenza di merito – va anche rilevato che la soluzione richiesta dai rimettenti non appare (allo specifico fine evocato di eliminare i pretesi vizi di illegittimità dell’asserita mancanza di rimedi impugnatori avverso le pronunce provvisorie del giudice istruttore nei giudizi de quibus) come l’unica costituzionalmente obbligata, tanto più in un contesto, quale quello della conformazione degli istituti processuali, in cui il legislatore gode di ampia discrezionalità (sentenze n. 281 e n. 50 del 2010);

che, pertanto, entrambe le questioni sono manifestamente inammissibili.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli articoli 709, quarto comma, e 709-ter del codice di procedura civile, sollevate – in riferimento agli articoli 3, 24 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione – dal Tribunale ordinario di Cagliari, in composizione collegiale, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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pronuncia precedente

ORDINANZA N. 323

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 27 della legge della Regione Liguria del 25 novembre 2009, n. 57, recante «Modifiche alla legge regionale 7 dicembre 2006, n. 41 (Riordino del Servizio sanitario regionale) e ad altre disposizioni regionali in materia sanitaria» promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso spedito per la notifica il 22 gennaio 2010, depositato in cancelleria il 2 febbraio 2010 ed iscritto al n. 17 del registro ricorsi 2010.

Udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 22 gennaio 2010 e depositato il successivo 2 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha proposto, in riferimento agli articoli 3, 41 e 117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 27 della legge della Regione Liguria del 25 novembre 2009, n. 57, recante «Modifiche alla legge regionale 7 dicembre 2006, n. 41 (Riordino del Servizio sanitario regionale) e ad altre disposizioni regionali in materia sanitaria»;

che la legge regionale censurata ha apportato modifiche alla legge della Regione Liguria 7 dicembre 2006, n. 417 (Riordino del Servizio Sanitario Regionale);

che, in particolare, la norma impugnata è venuta ad integrare l’art. 2 della legge della Regione Liguria 30 luglio 1999, n. 20 (Norme in materia di autorizzazione, vigilanza e accreditamento per i presidi sanitari e socio-sanitari, pubblici e privati. Recepimento del D.P.R. 14 gennaio 1997), prevedendo l’aggiunta, dopo il comma 6, di due ulteriori commi, vale a dire, il comma 6-bis e il comma 6-ter;

che il comma 6-bis prevede che «In attesa dell’emanazione dell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’art. 8-ter, comma 4, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e successive modifiche ed integrazioni, gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie condotte da sanitari in forma singola ed associata non necessitano dell’autorizzazione prevista dalla presente legge»;

che il successivo comma 6-ter stabilisce che «L’esercizio degli studi di cui al comma 6-bis è regolato dai principi contenuti nel decreto del Ministro della Sanità 28 settembre 1990 (Norma di protezione dal contagio professionale da HIV nelle strutture sanitarie e assistenziali pubbliche e private) e dalle norme in materia di igiene e sanità pubblica e di sicurezza»;

che, pertanto, l’art. 27 della legge della Regione Liguria n. 57 del 2009, introducendo gli innanzi citati commi nella legge regionale della Liguria n. 20 del 1999, finisce, secondo l’Avvocatura dello Stato, con l’escludere dal regime dell’autorizzazione gli studi medici privati e odontoiatrici, nonché di altre professioni sanitarie, discostandosi (differentemente da quanto precedentemente previsto dall’art. 2 della citata legge regionale n. 20 del 1999) dagli artt. 8 e 8-ter del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421);

che, infatti, le sopra citate norme statali (norme espressive di principi fondamentali, secondo quanto stabilito dall’art. 19 dello stesso d.lgs. n. 502 del 1992), prevedono che tutti gli studi medici e odontoiatrici, per la peculiarità dell’attività posta in essere e nel caso che debbano essere erogate «prestazioni di chirurgia ambulatoriale o procedure diagnostiche di particolare complessità che comportino un rischio per la sicurezza del paziente», devono essere autorizzati previa verifica del possesso dei requisiti fissati con il d.P.R. 14 gennaio 1997, recante «Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private»;

che, conseguentemente, secondo il ricorrente, la disposizione regionale censurata eccederebbe la competenza concorrente attribuita alla Regione in materia di tutela della salute dall’art. 117, terzo comma, Cost.;

che l’Avvocatura sottolinea, altresì, come questa Corte abbia affermato (sentenza n. 371 del 2008) che «l’organizzazione sanitaria cui può ricondursi la regolamentazione dell’assetto organizzativo e gestorio degli enti preposti alla erogazione delle prestazioni – è parte integrante della “materia” costituita dalla “tutela della salute”, di cui al terzo comma, del citato art. 117 Cost.; che, pertanto, in tale ambito la legislazione regionale deve svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali fissati dal legislatore statale, ritenuti tuttora vincolati anche in questa fase di transizione dal vecchio al nuovo sistema di ripartizione delle competenze legislative (sentenza n. 120 del 2005)»;

che la difesa erariale precisa, anche, come la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 354 del 1994) abbia ritenuto che «i principi concernenti l’organizzazione e la disciplina della struttura del servizio sanitario nazionale costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale tanto che anche le disposizioni regolamentari di dettaglio, che accompagnano dette norme fondamentali, possono vincolare l’esercizio delle competenze regionali, ove siano legate ai principi stessi da un rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione»;

che, in conclusione, poiché i richiamati artt. 8 e 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 (norme di principio e non di dettaglio) impongono agli studi medici, pubblici e privati, il rispetto del principio fondamentale dell’autorizzazione da parte delle Regioni nel cui territorio essi operino – al fine di assicurare livelli essenziali di sicurezza e di qualità delle prestazioni in ambiti nei quali il possesso della dotazione strumentale e la sua corretta gestione e manutenzione assume preminente interesse per assicurare l’idoneità e la sicurezza delle cure – l’art. 27 della legge della Regione Liguria n. 57 del 2009 sarebbe costituzionalmente illegittimo in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.;

che, inoltre, ad avviso del ricorrente, la norma censurata sarebbe in contrasto anche con gli artt. 3 e 41 Cost.;

che, infatti, la disposizione regionale impugnata violerebbe l’art. 3 Cost., poiché la stessa – non consentendo alcun tipo di controllo preventivo ai fini dell’apertura degli studi medici ed odontoiatrici – verrebbe a creare una disparità di trattamento fra i sanitari che operano nella Regione Liguria e quelli che svolgono le medesime attività nelle altre Regioni italiane;

che, sempre secondo il ricorrente, la suddetta norma contrasterebbe anche con il dettato dell’art. 41 Cost., in quanto essa permetterebbe «l’esercizio di professioni sanitarie complesse o che comportino rischi per la salute del paziente senza che venga preventivamente verificata la sussistenza dei requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi richiesti dal legislatore statale per la struttura ove tali prestazioni vengano erogate», in tal modo eludendo «i requisiti minimi» di tutela imposti dal legislatore statale per l’esercizio dell’iniziativa privata nell’ambito dell’assistenza sanitaria, quali possono essere considerati il regime dell’autorizzazione e le altre prescrizioni ad esso connesse e stabilite dalla legislazione nazionale;

che la Regione Liguria non si è costituita in giudizio;

che, con atto notificato a controparte in data 28 maggio 2010 e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 3 giugno successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri, giusta deliberazione governativa del 30 marzo 2010, ha dichiarato di rinunciare al presente ricorso in quanto la Regione Liguria, con legge 15 febbraio 2010, n. 2 (Disposizioni di adeguamento della normativa regionale), art. 2, ha abrogato la norma impugnata.

Considerato che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, la rinuncia al ricorso determina, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (ex plurimis: ordinanze n. 206 e n. 158 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA