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Deposito del 26/02/2010 (dalla 67 alla 80)

 
S.67/2010 del 22/02/2010
Udienza Pubblica del 02/12/2009, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: - Legge della Regione Campania 06/11/2008, n. 14.

- Artt. 1 e 3, c. 2°, della deliberazione legislativa della Regione Siciliana 25/11/2008 (disegno di legge n. 133).

Oggetto: Miniere, cave e torbiere - Norme della Regione Campania - Prosecuzione delle attività estrattive nelle more dell'entrata in vigore del Piano regionale delle attività estrattive (PRAE) - Rinnovo di diritto delle autorizzazioni già scadute o in scadenza prima del 30 giugno 2006 - Lamentata mancanza della necessaria previsione che la verifica ovvero procedura VIA, non effettuata in sede di prima autorizzazione, debba obbligatoriamente precedere il rinnovo della prima autorizzazione successiva all'entrata in vigore della normativa VIA.

Miniere, cave e torbiere - Norme della Regione Siciliana - Norma transitoria sulle autorizzazioni all'esercizio di cava - Modifiche e integrazioni alle leggi che disciplinano la coltivazione dei giacimenti minerari e delle cave nonché l'estrazione di materiali lapidei di pregio - Proroga di diritto delle autorizzazioni all'esercizio di cave per consentire il completamento dei relativi programmi di coltivazione, nell'attesa della definizione del piano regionale dei materiali di cava - Lamentata proroga generalizzata indipendentemente dalla estensione delle aree interessate e dall'eventuale regime vincolistico degli ambiti territoriali in cui le stesse ricadono, deroga alla V.I.A. - Ritenuto contrasto con la normativa di attuazione di direttive comunitarie e con il codice dell'ambiente.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 94/2008; 3/2009
S.68/2010 del 22/02/2010
Udienza Pubblica del 26/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore DE SIERVO


Norme impugnate: - Artt. 5, 24, c. da 1° a 4°, 25, c. 1°, 3°, 5° e 7°, e 26, della legge della Regione Abruzzo 24/11/2008, n. 17.

- Artt. 1, c. 3° e 6°, e 2, della legge della Regione Abruzzo 15/10/2008, n. 14.

Oggetto: Consiglio regionale - Norme della Regione Abruzzo - Scioglimento anticipato - Regime di prorogatio - Consentita adozione di soli atti dovuti o urgenti ed indifferibili - Adozione di legge in materia di ambiente e personale in asserita carenza dei predetti presuppos ti - Adozione di legge denominata provvedimenti urgenti a tutela della Costa Teatina in asserita carenza dei predetti presupposti;
Ambiente - Norme della Regione Abruzzo - Acque - Disciplina di tutte le tipologie di scarichi al suolo di cui all'art. 103, comma 1, del codice dell'ambiente - Rinvio alla tabella A del codice in cui sono individuati sistemi di trattamento individuale, senza determinazione dei valori limite di emissione cui devono necessariamente attenersi gli scarichi di acque reflue urbane ed industriali - Contrasto con il codice dell'ambiente;
Impiego pubblico - Norme della Regione Abruzzo - Stabilizzazione del personale precario della Giunta e del Consiglio regionale - Adozione di un criterio temporale difforme e più ampio rispetto alla normativa statale che stabilisce il possesso dei tre anni di lavoro alla data del 28 settembre 2007;
Stabilizzazione del personale precario delle Aziende sanitarie locali - Lamentato incremento della spesa in violazione degli impegni assunti con l'accordo Governo-Regione per il Piano di rientro sanitario di cui alla deliberazione della Giunta regionale n. 224 del 2007;
Estensione delle norme sulla stabilizzazione del personale precario della Giunta e del Consiglio regionale anche al personale precario operante presso gli uffici di diretta collaborazione degli organi politici, assunti a tempo determinato ai sensi delle leggi regionali n. 17/2001 e n. 18/2001 - Contrasto con la normativa statale;
Rideterminazione delle piante organiche del Consiglio regionale e della Giunta regionale, al fine di adeguarle ai processi di stabilizzazione del personale precario previsti dalla legge medesima - Contrasto con la normativa statale;
Divieto di stipulare nuovi contratti per assunzione di personale a tempo determinato presso gli organi di indirizzo politico della Regione - Lamentata preclusione per gli organi stessi nelle legislature successive di avvalersi di collaboratori di fiducia;
Espletamento di corsi-concorsi di riqualificazione non ché reviviscenza di graduatorie i cui termini risultano scaduti - Contrasto con la giurisprudenza costituzionale che impone meccanismi di selezione tecnica e neutrale per la progressione interna.
Energia - Norme della Regione Abruzzo - Sostituzione del comma 6 dell'art. 1 della legge regionale n. 2 del 2008 - Aree agricole e limitrofe con diversa destinazione urbanistica - Divieto di insediamento di industrie che svolgono attività di prospezione, ricerca, estrazione, coltivazione e lavorazione di idrocarburi, nonché divieto di trasformazione e ampliamento degli impianti esistenti - Contrasto con la normativa statale di attuazione di direttiva comunitaria;
Introduzione del comma 9 bis all'art. 1 della legge regionale n. 2 del 2008 - Divieto di cui al comma 6 dell'art. 1 della legge regionale n. 2 del 2008, concernente l'insediamento di industrie che svolgono attività di prospezione, ricerca, estrazione, coltivazione e lavorazione di idroc arburi - Estensione del divieto agli interventi già muniti di p ermesso a costruire o comunque autorizzati, fino all'entrata in vigore del piano di settore, previa approvazione del Consiglio regionale, nonché nelle aree dei territori di taluni Comuni fino alla definitiva approvazione del Piano del Parco Nazionale della Costa Teatina - Generale divieto di rilascio di permesso a costruire per l'insediamento di industrie che svolgono attività nel settore idrocarburi fino al 31 dicembre 2009;
Potere dei concessionari o delle stazioni appaltanti di rideterminare la funzionalità dei programmi di metanizzazione regionale assistiti da finanziamenti regionali, in deroga alle leggi regionali e operando riduzioni di lavori e/o opere sui piani originariamente approvati - Contrasto con il codice degli appalti e con i principi della politica energetica nazionale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 103, 104/2008
S.69/2010 del 22/02/2010
Udienza Pubblica del 09/02/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore DE SIERVO


Norme impugnate: Art. 12 e art. 12, c. 4°, in combinato disposto con l'art. 2, c. 2°, lett. e), della legge della Regione Veneto 30/11/2007, n. 32.

Oggetto: Telecomunicazioni - Regione Veneto - Regolamentazione dell'attività dei centri di telefonia in sede fissa - Centri di telefonia in sede fissa già esercitanti attività di cessione al pubblico di servizi di telefonia alla data di entrata in vigore della legge - Prevista necessità di autorizzazione del comune competente per territorio per la continuazione dell'attività - Divieto, a decorrere dalla data di entrata in vigore dell a legge censurata, di svolgimento da parte dei centri di telefonia in sede fissa, di attività commerciali non accessorie a quella di telefonia, quale, ad esempio, l'attività di "transfer money".

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ord. 106 e 132/2009
S.70/2010 del 22/02/2010
Udienza Pubblica del 09/02/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 1, c. 116°, della legge della Regione Abruzzo 21/11/2008, n. 16.

Oggetto: Impiego pubblico - Norme della Regione Abruzzo - Trattamento economico del personale regionale trasferito alle Province - Prevista corresponsione da parte degli Enti di appartenenza, ex art. 1, comma 1, della legge region ale n. 28 del 2006, di "un assegno ad personam riassorbibile" - Modifica della precedente previsione con l'introduzione della locuzione "un assegno ad personam non riassorbibile".

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 8/2009
S.71/2010 del 22/02/2010
Udienza Pubblica del 12/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Art. 2, c. 504°, della legge 24/12/2007, n. 244.

Oggetto: Previdenza - Contribuzione figurativa - Periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità - Riconoscimento dell'accredito figurativo con riferimento a periodi anteriori al 1° gennaio 1994 - Lim itazione con norma autoqualificata di interpretazione autentica, ma a carattere innovativo, agli iscritti all'Assicurazione generale obbligatoria in servizio alla data dell'entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 13/2009
S.72/2010 del 22/02/2010
Udienza Pubblica del 12/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Decreto del Questore della Provincia di Bolzano 25/09/2008, prot. n. H1/2008/GAB.

Oggetto: Sicurezza pubblica - Gioco e scommesse - Decreto del Questore della Provincia di Bolzano recante "Tabella dei giochi proibiti ai sensi dell'art. 110 del T.U.L.P.S. - R.D. 18 giugno 1931 n. 773", e cont enente la disciplina per l'installazione e l'uso degli apparecchi da gioco.

Dispositivo: respinge il ricorso
Atti decisi: confl. enti 22/2008
S.73/2010 del 22/02/2010
Camera di Consiglio del 10/02/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 507 del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Dibattimento - Ammissione di nuove prove - Prove in ordine alla cui ammissione si sia verificata la decadenza delle parti - Potere del giudice, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, di disporre di ufficio l'assunzione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 207/2009
O.74/2010 del 22/02/2010
Camera di Consiglio del 04/11/2009, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Art. 24 della deliberazione legislativa della Regione Siciliana 04/12/2008 (disegno di legge n. 240).

Oggetto: Trasporto pubblico - Norme della Regione Siciliana - Trasporto pubblico locale - Contratti di affidamento provvisorio di servizio pubblico di trasporto su strada ai sensi dell'art. 27 della legge regionale n. 19 del 2005 - Proroga di ulteriori 48 mesi dalla data di scadenza, nelle more dell'entrata in vigore della disciplina comunitaria di cui al regolamento n. 1370/2007 - Lamentato prolungamento della durata dei contratti ben oltre il doppio dell'originaria durata, indipendentem ente dall'espletamento di procedure di evidenza pubblica, in contrasto con la disciplina del codice degli appalti - Riproposizione di norma già censurata e poi omessa nella promulgazione della delibera legislativa.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 99/2008
O.75/2010 del 22/02/2010
Udienza Pubblica del 26/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO


Norme impugnate: - Art. 1, c. 2°, della legge della Regione Liguria 20/10/2008, n. 37.

- Art. 20 della legge della Regione Liguria 24/12/2008, n. 44.

Oggetto: Partecipazioni pubbliche - Norme della Regione Liguria - Affidamento di prestazioni di beni e servizi in house - Riorganizzazione della soc ietà Sviluppo Genova s.p.a., partecipata dalla Regione, dalla Provincia e dal Comune nonché da società pubblico-private e istituti bancari - Prevista possibilità, qualora si pervenga all'esercizio del controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi da parte della Regione, che la Regione e società da essa controllate affidino direttamente prestazioni di beni e servizi alla Sviluppo Genova s.p.a.

Partecipazioni pubbliche - Norme della Regione Liguria - Modifica del comma 2 dell'art. 1 della legge regionale n. 37 del 2008 - Affidamento diretto (c.d. in house) da parte della Regione di prestazioni di beni e servizi alla Sviluppo Genova s.p.a - Impegno della Regione ad operare affinché "si verifichino le condizioni previste perché Sviluppo Genova s.p.a. agisca come società in house sulla quale la Regione esercita il controllo analogo a quello sui propri servizi, previa intesa con gli altri soci pubblici" - Prevista dismissione della partecipazione regionale qualora non si realizzino entro dodici mesi le condizioni per la gestione in house - Lamentata insufficienza della intervenuta modifica che introduce il richiesto "controllo analogo della Regione sulla società" in modo solo futuro ed eventuale.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 102/2008 e 13/2009
O.76/2010 del 22/02/2010
Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Art. 40, c. 6°, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, come sostituito dall'art. 27, c. 1°, della legge 30/07/2002, n. 189.

Oggetto:</ em> Straniero - Stranieri titolari di permesso di soggiorno a lmeno biennale ed esercenti una regolare attività di lavoro subordinato o autonomo - Diritto di accedere, in condizione di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica ed ai servizi d'intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni regione o dagli enti locali per agevolare l'accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 188/2009
O.77/2010 del 22/02/2010
Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnat e: Art. 8 bis della legge 15/12/1990, n. 386.

Oggetto: Sanzioni amministrative - Emissione di assegno senza autorizzazione o senza provvista - Procedimento per l'applicazione delle sanzioni amministrative - Attribuzione al prefetto della duplice competenza a notificare all'interessato gli estremi della violazione e ad irrogare le sanzioni, previa valutazione dei documenti e degli scritti difensivi eventualmente prodotti - Omessa previsione che le deduzioni presentate dall'interessato siano valutate dall'autorità gerarchicamente sovraordinata, anziché dal prefetto, così come disposto dalla legge n. 689 del 1981 in materia di depenalizzazione.

Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 249/2009
< em>O.78/2010 del 22/02/2010
Camera di Consiglio del 10/02/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 405, c. 1° bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall'art. 3 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Chiusura delle indagini preliminari - Obbligo per il pubblico ministero, al termine delle indagini, di formulare richiesta di archiviazione in ogni ipotesi nella quale il giudice per le indagini preliminari o il Tribunale del riesame, con provvedimenti non gravati, si esprimano sulla mancanza degli indizi di reità di cui all'art. 273 cod. proc. pen. e non siano stati acquisiti successivamente ulteriori elementi a carico della persona sottoposta a indagini - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 181/2009
O.79/2010 del 22/02/2010
Camera di Consiglio del 10/02/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore DE SIERVO


Norme impugnate: Art. 5, c. 7°, della legge della Regione Abruzzo 24/03/2009, n. 4.

Oggetto: Enti locali - Norme della Regione Abruzzo - Indennità di carica degli amministratori degli enti locali - Divieto di cumulo con le indennità spettanti ai componenti delle Camere e del Parlamento europeo e con qualunque altro emolumento fisso o variabile derivante da nomina politica di competenza regionale - Esclusione del divieto di cumulo per gli amministratori dei Comuni al di sotto dei 5000 abitanti - Contrasto con la disciplina del testo unico sugli enti locali.

Disp ositivo: estinzione del processo
Atti de cisi: ric. 34/2009
S.80/2010 del 22/02/2010
Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Art. 2, c. 413° e 414°, della legge 24/12/2007, n. 244.

Oggetto: Istruzione pubblica - Insegnanti di sostegno per disabili - Riduzione del numero dei posti e conseguentemente delle ore di insegnamento settimanali - Abolizione della deroga prevista dalla normativa precedente per le forme di disabilità particolarmente gravi.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 230/2009

 

SENTENZA N. 67

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana approvata dall’Assemblea regionale nella seduta del 25 novembre 2008 (disegno di legge n. 133, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio»), e della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14 (Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive), promossi dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana e dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsi notificati rispettivamente il 1° dicembre 2008 ed il 7 gennaio 2009, depositati in cancelleria il 9 dicembre 2008 ed il 15 gennaio 2009 ed iscritti al n. 94 del registro ricorsi 2008 ed al n. 3 del registro ricorsi 2009.

Visti gli atti di costituzione della Regione Siciliana e della Regione Campania;

udito nell’udienza pubblica del 2 dicembre 2009 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati dello Stato Maria Gabriella Mangia e Pierluigi Di Palma per il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana e per il Presidente del Consiglio dei ministri, e gli avvocati Beatrice Fiandaca per la Regione Siciliana e Francesco Vetro per la Regione Campania.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 1° dicembre 2008 e depositato il 9 dicembre 2008, il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, ha impugnato gli artt. 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana approvata dall’Assemblea regionale nella seduta del 25 novembre 2008 (disegno di legge n. 133, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio»), deducendo il contrasto, quanto all’art. 1, con gli artt. 9, 11, 97 e 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s), della Costituzione, nonché con l’art. 14 dello statuto speciale, e, quanto all’art. 3, comma 2, con l’art. 97 della Costituzione.

L’organo ricorrente, dopo aver riprodotto il testo dell’art. 1 della delibera legislativa impugnata, rileva che tale disposizione stabilisce che, in caso di mancato completamento del programma di coltivazione autorizzato, le autorizzazioni all’esercizio di cava già rilasciate siano tutte indistintamente «prorogate di diritto» senza alcuna condizione, per termini di durata variabili, sino al completamento del programma medesimo, a prescindere dalla estensione delle aree interessate e dell’eventuale regime vincolistico esistente sulle aree medesime. Posto che tale disposizione costituisce una sostanziale deroga alla normativa di attuazione della direttiva 27 giugno 1985 85/337/CEE, e successive modificazioni, concernente la valutazione di impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati – normativa di attuazione dettata dal legislatore siciliano con l’art. 91 della legge regionale 3 maggio 2001, n. 6 – si verrebbe a delineare un contrasto con la direttiva medesima. Rammentati gli obiettivi di tutela ambientale perseguiti dalla direttiva comunitaria, il ricorrente ha sottolineato come la stessa stabilisca, per i progetti riguardanti le cave, l’assoggettamento obbligatorio a valutazione di impatto ambientale (VIA) per i progetti relativi a «cave e attività minerarie a cielo aperto con superficie del sito superiore a 25 ettari», nonché la sottoposizione a verifica, al fine di procedere o meno a VIA, per i progetti riguardanti «cave, attività minerarie a cielo aperto e torbiere», diverse da quelle di cui al precedente punto. Per quest’ultima ipotesi, la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee ha chiarito che non è consentito agli Stati membri «dispensare a priori e globalmente dalle procedure di VIA determinate classi di progetti, elencati nell’allegato II della Direttiva 85/337/CEE, ovvero sottrarre alla sudd etta procedura uno specifico progetto in forza di un atto legislativo nazionale o sulla base di un esame in concreto del progetto»; mentre la giurisprudenza nazionale ha affermato l’obbligo di assoggettare a VIA i progetti – previsti nell’allegato della citata direttiva – che «siano capaci di provocare impatti rilevanti sull’ambiente». Infine, la stessa Corte di giustizia ha chiarito che gli Stati membri – in ordine ai progetti di cui all’allegato II alla direttiva – possono fissare criteri o soglie, che però «non hanno lo scopo di sottrarre anticipatamente all’obbligo di valutazione talune classi complete di progetti [...] ma mirano unicamente ad agevolare la valutazione delle caratteristiche complete di un progetto al fine di stabilire se sia soggetto al detto obbligo».

La disposizione censurata, pertanto, sottrarrebbe «di fatto ed a priori» le autorizzazioni scadute o prossime alla scadenza dalle procedure cui sarebbero soggette per il rinnovo, «con conseguente valutazione degli interessi pubblici coinvolti e verifica preventiva delle situazioni vincolistiche e di assetto territoriale dei luoghi, eventualmente sopravvenute nel periodo di vigenza del provvedimento autorizzatorio originario». Infatti, dai chiarimenti forniti dalla amministrazione regionale, è emerso che avrebbero diritto alla proroga per la prosecuzione della attività estrattiva nel periodo 2008-2010, 68 attività di cave, pari al 12% di quelle in esercizio, di cui alcune di grandi dimensioni e ricadenti in aree protette (siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale), ed altre mai sottoposte a VIA o a verifica, in quanto antecedenti alla entrata in vigore della disciplina relativa.

Il ricorrente, dopo aver rammentato i princìpi affermati da questa Corte nella sentenza n. 273 del 1998 in tema di unitarietà dei criteri di apprezzamento dell’impatto ambientale, ha osservato che disposizioni che determinassero modifiche, non a livello nazionale, dei livelli di sicurezza, determinerebbero alterazioni sotto il profilo della concorrenza, penalizzando le imprese che operino in Regioni la cui disciplina fosse più rigorosa. Il che porrebbe la delibera legislativa in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

La proroga del termine di una autorizzazione, determinando la vanificazione dei controlli alla scadenza – indispensabili per la verifica degli eventuali mutamenti subiti dalle situazioni di fatto e di diritto – comporterebbe, dunque, una modifica sostanziale del relativo regime, che, per la direttiva comunitaria, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, equivale a nuova autorizzazione, da sottoporre alle procedure previste per la medesima (VIA o verifica di VIA, a seconda dei casi).

Sarebbe, dunque, violato l’art. 9 Cost., perché la disciplina censurata non assicurerebbe la dovuta tutela dell’ambiente, vanificando sostanzialmente la possibilità di verificare la eventuale compromissione del territorio in dipendenza della attività estrattiva ed eccedendo dai limiti della competenza statutaria in materia di cave e torbiere, attraverso la introduzione di una implicita deroga alla procedura di VIA e di verifica di VIA, in dissonanza con quanto prescritto dagli artt. 23 e 32 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).

Sarebbe violato anche l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in quanto, malgrado la Regione Siciliana goda di competenza esclusiva sotto il profilo urbanistico, della tutela del paesaggio e delle cave e miniere, senza che risulti statutariamente prevista la tutela dell’ambiente, la disciplina censurata, investendo non solo la complessiva tutela dell’ambiente, ma anche il rispetto della normativa comunitaria e la tutela del principio della libera concorrenza, si porrebbe in contrasto con l’indicato parametro nella parte in cui riserva allo Stato la individuazione degli standard minimi ed uniformi di tutela.

La normativa censurata violerebbe anche l’art. 97 Cost., in quanto la stessa impedisce agli organi amministrativi di procedere ad una ponderazione dei diversi interessi coinvolti, privilegiando la tutela di quelli economici dell’imprenditore, il quale potrebbe non aver completato il programma di coltivazione delle cave anche per negligenza e disinteresse.

Anche l’art. 3, comma 2, della delibera legislativa impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 97 Cost. La disposizione in questione, infatti, comporterebbe il venir meno della sanzione della esclusione per un periodo di dieci anni dalla possibilità di ottenere l’autorizzazione alla attività di estrazione per coloro i quali abbiano svolto attività di escavazioni non autorizzate, qualora ciò sia avvenuto per uno «sconfinamento accidentale» rispetto al progetto autorizzato, salvi i casi di recidiva. La estrema genericità della fattispecie esimente la renderebbe applicabile, a prescindere dal danno ambientale arrecato, anche in casi di sconfinamento colposo ed ampio dal giacimento autorizzato, per di più ingenerando dubbi e disparità applicative.

2. – La Regione Siciliana si è costituita depositando memoria nella quale ha chiesto dichiararsi inammissibile o comunque infondato il ricorso. Nel premettere la assoluta inconferenza del richiamo all’art. 11 Cost., indicato nelle conclusioni del ricorso, la Regione osserva che l’art. 1 della delibera legislativa impugnata «si pone come norma eccezionale, di efficacia temporale limitata, al fine di scongiurare il fermo delle attività estrattive che si verrebbe a determinare con lo scadere, a breve termine, delle autorizzazioni già rilasciate». Come infatti emerge dai dati forniti al Commissario dello Stato, la proroga prevista potrebbe avere, al massimo, una durata oscillante tra uno e tre anni e consentirebbe la prosecuzione dei programmi di coltivazione già autorizzati e non completati entro il termine di validità della autorizzazione originaria. Sempre dai dati forniti, emerge, poi, che circa il 10% delle cave so no in esaurimento e che soltanto due di esse sembra superino la soglia di estensione prevista (20 ettari) dalla normativa per l’assoggettamento alla VIA obbligatoria, mentre per le altre vi è solo la possibilità di essere sottoposte a verifica. Infine, la proroga riguarderebbe solo i casi in cui sia stato estratto il 60% del volume assentito, riducendosi così ulteriormente la portata della proroga. La disposizione, poi, che disciplina l’abbandono in sicurezza delle cave dismesse (art. 1, comma 1, secondo periodo), non violerebbe i parametri indicati, mirando ad assicurare la stabilità del territorio e la sicurezza delle persone, in via parallela e non sostitutiva del recupero ambientale delle cave dismesse, già dettagliatamente disciplinate dalla normativa regionale.

Ugualmente infondata sarebbe anche – ad avviso della difesa regionale – la censura riguardante l’art. 3, comma 2, della delibera legislativa impugnata, giacché il legislatore regionale, nell’ambito della propria discrezionalità, avrebbe inteso mitigare – in applicazione del principio di proporzionalità – la portata della sanzione prevista per il caso di esercizio non autorizzato della attività di escavazione, limitandone l’applicazione ai soli casi di recidiva.

3. – Con ricorso notificato il 7 gennaio 2009 e depositato il 15 gennaio 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, ha sollecitato la declaratoria di illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 45 del 10 novembre 2008, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive».

La legge, che consta di soli due articoli, prevede, all’art. 1, comma 1, che, nelle more della completa attuazione del Piano regionale delle attività estrattive, gli esercizi di cava, a qualunque titolo autorizzati ai sensi della legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, e successive modificazioni ed integrazioni, e per i quali sia già intervenuta o intervenga la scadenza delle autorizzazioni fino al 30 giugno 2010, possano proseguire l’attività sino a tale data, a condizione di non aver completato il progetto estrattivo. A tal fine, la legge prevede – come sottolinea il ricorso – che i titolari presentino, entro novanta giorni dalla pubblicazione della legge medesima, una istanza al competente ufficio regionale che emette una nuova autorizzazione alla prosecuzione della attività estrattiva ed alla ricomposizione ambientale finale, sulla base di un accertamento volto a verificare soltanto il deposito cauzionale ed il versamento dei contributi dovuti ai sensi della legge regionale 30 gennaio 2008, n. 1.

Il successivo comma 3 dello stesso articolo dispone – per le autorizzazioni scadute, il cui progetto estrattivo sia stato già esaurito – che la nuova autorizzazione possa prevedere soltanto la c.d. “ricomposizione ambientale”, da effettuarsi entro lo stesso termine del 30 giugno 2010: “ricomposizione ambientale”, puntualizza il ricorso, che si risolve comunque in una ulteriore attività di estrazione dei materiali al fine di rimodellare i profili di scavo per renderli idonei a successivi interventi di restauro ambientale.

Con tali disposizioni, dunque, la legge regionale permetterebbe che le autorizzazioni scadute o in scadenza, prima della data del 30 giugno 2010, vengano rinnovate “di diritto”, senza alcuna condizione, verifica o procedura di natura ambientale, sottraendo, pertanto, tali progetti alle procedure relative alla valutazione di impatto ambientale (VIA), in contrasto con le disposizioni degli artt. da 20 a 28 e degli Allegati III, lettera s), e IV, par. 8, lettera i), del d.lgs. n. 152 del 2006, e successive modificazioni ed integrazioni. Puntualizza al riguardo il ricorso che la normativa statale vigente ammette quel tipo di rinnovo solo per quei progetti che siano già stati sottoposti alla procedura di VIA o alla procedura di verifica di assoggettabilità a VIA entro gli ultimi cinque anni (termine stabilito a pena di decadenza dall’art. 26, comma 6, del d. lgs. n. 152 del 2006, come modificato dal d. lgs. n. 4 del 2008), mentre lo esc lude per quei progetti che, in precedenza, non siano mai stati sottoposti a procedura di VIA o di verifica di assoggettabilità a VIA. Poiché, quindi, il limite temporale di una autorizzazione ne costituisce essenza fondamentale, presupponendosi che alla sua scadenza l’amministrazione possa effettuare le verifiche in ordine al permanere dei presupposti di fatto e di diritto ed adottare le conseguenti determinazioni, in termini prescrittivi o interdittivi, ne deriva che qualsiasi mutamento in ordine al termine della autorizzazione costituisce una evidente modifica della “sostanza” della autorizzazione medesima, che deve essere considerata – alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia europea – come una vera e propria nuova autorizzazione, con la conseguenza di dover essere assoggettata alle procedure in materia di VIA, «stabilite dalla direttiva 85/337/CEE All. I, p. 22, ed All. II, p. 13, primo trattino». Conclusioni, qu este, cui è pervenuta anche la giurisprudenza del Consiglio di St ato. Quanto, poi, alla individuazione del momento a partire dal quale le attività estrattive devono ritenersi assoggettate alla procedura in tema di VIA, tale momento coincide con il 3 luglio 1988, data di entrata in applicazione della citata direttiva comunitaria in materia di VIA.

In conclusione, la normativa regionale censurata mancherebbe – ad avviso del ricorrente – «della necessaria previsione che la verifica ovvero la procedura VIA, non effettuata in sede di prima autorizzazione, debba obbligatoriamente precedere il rinnovo della prima autorizzazione successiva all’entrata in vigore della normativa VIA», derivandone, di conseguenza, il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

4. – La Regione Campania si è costituita depositando memoria nella quale chiede respingersi il ricorso in quanto infondato. Osserva, infatti, la Regione che la legittimità della normativa impugnata è garantita dal comma 2 dell’art. 1, nel quale viene richiamata espressamente la necessità della osservanza della normativa vigente, con la conseguenza che la prosecuzione della attività estrattiva non potrebbe avvenire in contrasto con la normativa comunitaria e nazionale in tema di VIA. Si conclude dunque nel senso che la proroga («resa necessaria a cagione della non ancora completata attuazione del Piano regionale delle attività estrattive» e «limitata nel tempo»), da assentire con apposito provvedimento, non potrebbe derogare alle disposizioni in tema di VIA dovendosi porre in linea con le disposizioni di tutela ambientale, come emergerebbe da quanto stabilito nei commi 4 e 5 del medesimo art. 1.

5. – In prossimità dell’udienza, la Regione Campania ha depositato una memoria con la quale, insistendo per il rigetto del ricorso, ha precisato le ragioni e gli argomenti esposti nell’atto di costituzione.

In particolare, la Regione ha evidenziato che la disciplina “transitoria” in questione si è «resa necessaria, nelle more della attuazione del Piano regionale delle attività estrattive, al fine di evitare un ingiusto pregiudizio alle imprese del settore, le quali, in mancanza dello strumento di programmazione, non potrebbero acquisire nuove autorizzazioni e si vedrebbero costrette ad interrompere l’attività». Subordinando «la possibilità di proroga delle autorizzazioni» a «stringenti condizioni», la normativa impugnata non determinerebbe – come sostenuto dall’Avvocatura – una proroga ope legis, ma lascerebbe quest’ultima «soggetta ad una valutazione dell’Amministrazione a seguito di apposita istanza presentata dall’interessato». Nel consentire la proroga di autorizzazioni già «sottoposte ab origine ad una verifica di compatibilità», l’amministrazione «non potrebbe, in se de di rilascio di una – a tutti gli effetti – nuova (seppur provvisoria) autorizzazione omettere di considerare» gli elementi che la stessa legge impugnata espressamente richiama e, tra questi, anche la «normativa vigente»: sarebbero, perciò, «prive di fondamento» le censure mosse «in ordine all’automatismo della proroga ed all’elusione della scadenza del termine di autorizzazione».

L’intervento normativo in materia rientrerebbe, peraltro, «a pieno titolo nell’ambito delle competenze legislative ed amministrative di spettanza regionale», al pari di «quello previsto dall’art. 5 della l.r. 13 dicembre 1985, n. 54, come sostituito dall’articolo 4 della l.r. n. 17 del 13 aprile 1995 in materia di autorizzazione alla coltivazione di cave», nonché dall’art. 9 della stessa legge, come modificato dall’art. 8 della l.r. n. 17 del 1995, in materia di ricomposizione ambientale.

«Ulteriormente infondato» risulterebbe, poi, nell’«interpretazione costituzionalmente conforme», «il preteso contrasto con la disciplina in materia ambientale nazionale», «per contro nemmeno indicata nella normativa in esame», non essendo questo «l’oggetto della normazione». Limitandosi a «dettare una disciplina transitoria» su «materie di competenza regionale», la legge impugnata nulla, infatti, avrebbe previsto «in difformità alla disciplina di competenza statale con riguardo ai profili ambientali dell’attività d’impresa relativa alla coltivazione delle cave», come «nel secondo comma dell’art. 1 si ha cura di specificare».

«Nessuna deroga» sarebbe, in particolare, prevista alla VIA, «nei limiti in cui questa si renda necessaria o sia imposta dalla relativa disciplina statale», considerato che «oggetto della norma sono autorizzazioni scadute, che nella gran parte dei casi hanno già superato la valutazione di impatto ambientale»: nelle ipotesi «in cui il progetto di sfruttamento della cava (ed anche di ripristino ambientale) sia già stato sottoposto a valutazione di impatto ambientale», la proroga «non entrerà in contrasto con la normativa in materia di VIA». Ove, invece, «si renda necessario, il rilascio dell’autorizzazione (tenendo conto dei termini e della possibilità di proroga prevista dall’art. 26, comma 6, del d.lgs n. 152 del 2006) non potrà prescindere dall’acquisizione della VIA che, oltretutto, ai sensi dell’art. 7, comma 4 (All.ti III e IV) del d.lgs. n. 152 del 2006, è nella gran parte dei casi una VIA regionale».

Considerato in diritto

1. – Il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha impugnato gli articoli 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana, approvata dalla Assemblea regionale nella seduta del 25 novembre 2008, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio», prospettando il contrasto, quanto all’art. 1, con gli articoli 9, 11, 97 e 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s), della Costituzione, nonché con l’art. 14 dello statuto della Regione Siciliana, e, quanto all’art. 3, comma 2, con l’art. 97 della medesima Carta.

Sottolinea al riguardo il ricorrente che l’art. 1 della delibera legislativa impugnata prevede che, ove non sia stato completato il programma di coltivazione autorizzato, le autorizzazioni già rilasciate siano tutte indistintamente “prorogate di diritto” senza alcuna condizione e con termini di durata variabili, a prescindere dalla estensione delle aree interessate e dall’eventuale regime vincolistico degli ambiti territoriali in cui le stesse ricadano. Tale disciplina – soggiunge il ricorrente – introduce, nella sostanza, una previsione derogatoria rispetto alla normativa dettata dal legislatore regionale siciliano con l’art. 91 della legge regionale 3 maggio 2001, n. 6 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2001), volta a dare attuazione alla direttiva 27 giugno 1985 85/337/CEE, e successive modificazioni, concernente la valutazione di impatto ambientale (VIA) di determinati progetti pubbli ci e privati, con correlativa violazione della direttiva medesima. La disposizione censurata, infatti, nello stabilire un meccanismo di “proroga di diritto”, vanificherebbe la possibilità di sottoporre le autorizzazioni scadute o prossime alla scadenza alle verifiche inerenti alle procedure di rinnovo, impedendo, quindi, alla amministrazione, di procedere alla «valutazione degli interessi pubblici coinvolti» e di operare una «verifica preventiva delle situazioni vincolistiche e di assetto territoriale dei luoghi, eventualmente sopravvenute nel periodo di vigenza del provvedimento autorizzatorio originario». I progetti di cave, le cui autorizzazioni sarebbero “prorogate di diritto”, potrebbero, infatti, «essere stati approvati, nel rispetto della normativa all’epoca vigente e alle preesistenti situazioni di ordine ambientale, senza preventiva procedura di VIA o di verifica di impatto ambientale, nonché alla valutazione di compatibilit& #224; paesaggistica prevista dall’art. 146 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, come sostituito dall’art. 16 del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157».

Risulterebbe pertanto violato l’art. 9 della Costituzione, in quanto attraverso la previsione oggetto di impugnativa non verrebbe assicurata la dovuta tutela dell’ambiente, dal momento che la disciplina censurata esclude sostanzialmente la possibilità di verificare l’eventuale compromissione del territorio derivante dalla prosecuzione di diritto della attività estrattiva, consentendosi, addirittura, «l’attività all’interno di giacimenti minerari dismessi, nel dichiarato intento di assicurare l’abbandono in sicurezza, ancorché già non rilasciati in “sicurezza”, sulla base di una richiesta del privato corredata da perizia asseverata da tecnico abilitato». La delibera legislativa impugnata si porrebbe poi in contrasto anche con l’art. 11 della Costituzione, per violazione delle direttive comunitarie in tema di valutazione di impatto ambientale, posto che l’intera gamma delle aut orizzazioni scadute o prossime alla scadenza viene sottratta al controllo sulla sussistenza o sul permanere dei relativi presupposti di fatto e di diritto, anche in tema ambientale e di rispetto del regime vincolistico.

L’art. 1 della medesima delibera legislativa violerebbe anche l’art. 97 della Costituzione, in quanto, attraverso il denunciato meccanismo di proroga di diritto, si impedirebbe «agli organi amministrativi competenti di svolgere una adeguata istruttoria e di procedere alla ponderazione dei diversi interessi coesistenti, privilegiando invece la tutela di quelli economici del privato imprenditore, che peraltro potrebbe non avere completato il programma di coltivazione delle cave anche per propria negligenza e disinteresse».

In considerazione, poi, della sostanziale elusione delle direttive comunitarie e della disciplina statale in tema di valutazione di impatto ambientale che deriverebbe dal meccanismo normativo oggetto di impugnativa, si profilerebbe un contrasto anche con l’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione, considerato che il legislatore regionale siciliano «nell’esercizio della propria competenza legislativa esclusiva è sottoposto al rispetto degli standard minimi ed uniformi di tutela posti in essere dalla legislazione nazionale ex art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, oltre che al rispetto della normativa comunitaria di riferimento, secondo quanto previsto dall’art. 117, comma 1, della Costituzione». Inoltre, verrebbe ad essere correlativamente coinvolto anche l’art. 117, secondo comma, lettera e), della stessa Carta, in quanto la disposizione censurata, al pari di quelle che «realizzano effetti innova tivi sui livelli di sicurezza, che dovrebbero essere identici nell’intero territorio nazionale, potrebbe nei fatti realizzare alterazioni sotto il profilo della concorrenza in danno di quelle imprese che si trovano ad operare in regioni la cui disciplina più gravosa costringe ad affrontare oneri maggiori».

Risulterebbe infine violato anche l’art. 14 dello statuto della Regione Siciliana, il quale prevede la competenza legislativa esclusiva in materia di miniere, cave, torbiere e saline, in quanto verrebbe ad essere in concreto introdotta una «implicita deroga alla procedura di VIA e di verifica VIA, in palese dissonanza con quanto prescritto dagli artt. 23 e 32 del decreto legislativo 152/2006».

Il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana impugna, inoltre, l’art. 3, comma 2, della medesima delibera legislativa, il quale stabilisce il venir meno della sanzione della esclusione per un periodo di dieci anni dalla possibilità di ottenere l’autorizzazione all’attività estrattiva per coloro che abbiano svolto attività di escavazione non autorizzate, qualora ciò sia avvenuto per uno “sconfinamento accidentale” rispetto al programma autorizzato, salvo i casi di recidiva. A parere del ricorrente, infatti, tale disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 97 della Costituzione, in quanto la estrema genericità della fattispecie esimente la renderebbe applicabile, a prescindere dal danno ambientale arrecato, anche in casi di sconfinamento colposo ed ampio del giacimento autorizzato, per di più ingenerando dubbi e disparità applicative.

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollecitato la declaratoria di illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 45 del 10 novembre 2008, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive». Il provvedimento legislativo di che trattasi, che si compone di due soli articoli, prevede (art. 1, comma 1) che «Nelle more della completa attuazione del Piano regionale delle attività estrattive (PRAE), gli esercizi di cava a qualunque titolo regolarmente autorizzati ai sensi della legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, e successive modifiche, e per i quali sia intervenuto o interviene il termine di scadenza delle autorizzazioni prima del 30 giugno 2010, possono proseguire l’attività fino al 30 giugno 2010, a condizione di n on aver completato il progetto estrattivo». Entro tale scadenza deve essere completata anche la ricomposizione ambientale. Stabilisce, poi, il comma 3 del medesimo art. 1, che «I titolari delle autorizzazioni già scadute ai sensi del comma 1, entro e non oltre novanta giorni dalla pubblicazione della presente legge, presentano istanza al competente ufficio regionale delegato che emette il nuovo provvedimento di autorizzazione alla prosecuzione e ricomposizione ambientale, previa verifica di regolarità del deposito cauzionale ed accertamento del versamento di tutti i contributi richiamati dall’art. 19 della legge regionale 30 gennaio 2008, n. 1. Per le autorizzazioni scadute, che hanno già esaurito il progetto estrattivo, la nuova autorizzazione può prevedere solo la ricomposizione ambientale da effettuarsi entro il termine del 30 giugno 2010».

Ad avviso del ricorrente, la disposizione legislativa in questione si porrebbe in contrasto con l’indicato parametro di costituzionalità, in quanto la stessa difetterebbe della necessaria previsione che la verifica inerente alla procedura relativa alla valutazione di impatto ambientale, «non effettuata in sede di prima autorizzazione, debba obbligatoriamente precedere il rinnovo della prima autorizzazione successiva all’entrata in vigore della normativa VIA». Non senza sottolineare come anche la «ricomposizione ambientale» non possa sottrarsi alle stesse esigenze, risolvendosi la stessa «comunque in una ulteriore attività di estrazione di materiali al fine di rimodellare i profili di escavo per renderli idonei a successivi interventi di restauro ambientale».

3. – Coinvolgendo temi e problematiche consimili e presentando aspetti di connessione che ne consigliano la trattazione congiunta, i giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

4. – Le questioni sono entrambe fondate. Va premesso che, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, la materia nella quale devono essere collocate le discipline relative alla valutazione di impatto ambientale riguarda la tutela dell’ambiente (non espressamente prevista dallo statuto regionale) e rientra, perciò, nell’ambito della previsione di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, «trattandosi di procedure che valutano in concreto e preventivamente la “sostenibilità ambientale”» (da ultimo, le sentenze n. 225 e n. 234 del 2009, nonché la sentenza n. 1 del 2010, anche a proposito di concorso di competenze sullo stesso bene tra Stato e Regioni). L’asserita violazione di tale parametro deve, peraltro, essere esaminata innanzi tutto rispetto alla coesistente presunta violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione (ex multis, la sentenza n. 368 del 2008), prospettata, nella specie, in riferimento al dedotto contrasto con le direttive comunitarie in materia di VIA, a partire dalla direttiva 85/337/CEE e successive modificazioni ed integrazioni. Occorrerà, dunque, preliminarmente verificare se i provvedimenti legislativi oggetto di impugnativa si pongano o meno in linea con il precetto costituzionale che assegna alla legislazione esclusiva dello Stato la materia della tutela dell’ambiente.

Va altresì ricordato, al riguardo, che la disciplina statale relativa alla tutela dell’ambiente «viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza», salva la facoltà di queste ultime di adottare norme di tutela ambientale più elevata nell’esercizio di competenze, previste dalla Costituzione, che concorrano con quella dell’ambiente (sentenza n. 104 del 2008, con rinvio alla sentenza n. 378 del 2007).

5. – A proposito del ricorso proposto dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, può subito osservarsi come il nucleo delle censure dedotte ruoti attorno ad un rilievo senz’altro corretto. Attraverso la previsione, infatti, di un meccanismo legale che si limita, nella sostanza, ad introdurre una “proroga di diritto” per le autorizzazioni all’esercizio di cave rilasciate dal Distretto minerario, la delibera legislativa impugnata si sostituisce al provvedimento amministrativo di rinnovo, eludendo, quindi, non soltanto l’osservanza della relativa procedura già normativamente prevista, ma anche – e soprattutto – le garanzie sostanziali che quel procedimento mira ad assicurare, nel rispetto degli ambiti di competenza legislativa stabiliti dalla Costituzione (sul punto, la sentenza n. 271 del 2008). Garanzie che, nella specie, riposano, appunto, sulla necessità di verificare se l’attivi tà estrattiva a suo tempo assentita risulti ancora aderente allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della “proroga” o del “rinnovo” del provvedimento di autorizzazione.

È ben vero che la Regione Siciliana, nella relazione che accompagna l’originario disegno di legge, insistentemente evoca la non vulnerazione delle direttive CEE in tema di VIA, facendo leva sul rilievo che «i progetti in corso di esecuzione sono sottoposti alla disciplina della direttiva soltanto ove essi siano modificati o ampliati», mentre tale questione non si porrebbe affatto «per le mere proroghe di progetti in precedenza autorizzati». Il che consente alla stessa Regione di affermare che anche la disciplina dettata nella legge regionale 5 luglio 2004, n. 10 (Interventi urgenti per il settore lapideo e disposizioni per il riequilibrio del prezzo della benzina nelle isole minori), ove per i rinnovi delle autorizzazioni parimenti si derogava alla disciplina della VIA, introdotta in Sicilia con la legge regionale 3 maggio 2001, n. 6 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2001), non potesse reputarsi «elusiva delle direttive co munitarie in materia di valutazione di impatto ambientale». L’assunto – ancorché non ripreso nella memoria di costituzione della Regione – è però contrastato dal Commissario ricorrente, in base alla stessa pronuncia della Corte di giustizia richiamata (secondo una interpretazione opposta) dalla Regione resistente: vale a dire la sentenza 7 gennaio 2004, procedimento C-201/02. Ebbene, la cennata decisione della Corte (punti 44-47) si presta, obiettivamente, a letture “differenziate,” posto che le relative affermazioni si concentrano sul “distinguo” tra “mera modifica” di una autorizzazione esistente e “nuova autorizzazione” che non può essere sottratta alla VIA. Ma sembra indubbio che risulterebbe sicuramente “contrario all’effetto utile” della direttiva 85/337/CEE – tenuto conto del tempo trascorso da essa e dalla relativa attuazione in campo nazionale e regionale & #8211; un sistema che “prorogasse” automaticamente autoriz zazioni rilasciate in assenza di procedure di VIA (o, comunque, eventualmente, in assenza di VIA), in ipotesi più volte già “rinnovate”. In via astratta – e per assurdo – le leggi regionali potrebbero mantenere inalterato lo status quo, sostanzialmente sine die, superando qualsiasi esigenza di “rimodulare” i provvedimenti autorizzatori in funzione delle modifiche subite, nel tempo, dal territorio e dall’ambiente: con correlativa e sicura violazione non soltanto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, avuto riguardo al bene protetto dalla direttiva comunitaria, ma anche dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, coinvolgendo (attraverso la contestata previsione “derogatoria”) materia riservata alla legislazione statale.

D’altra parte, la circostanza che l’ordinamento regionale abbia previsto un termine di durata delle autorizzazioni all’esercizio delle attività estrattive «per un periodo massimo di quindici anni, in relazione alla qualità e all’entità del materiale da estrarre», stabilendo, al tempo stesso, la possibilità di rinnovo «previa nuova istruttoria da parte del distretto minerario» (art. 2 della legge regionale 1 marzo 1995, n. 19, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 9 dicembre 1980, n. 127, in ordine ai giacimenti di materiale da cava»), rende evidente che lo stesso legislatore regionale abbia postulato – come è naturale sia in ogni rapporto di durata – l’esigenza di un controllo ad tempus circa il permanere delle condizioni, soggettive ed oggettive, di legittimazione, in rapporto al (possibile) mutamento del quadro fattuale e normativo nel frattempo intervenuto.

In sostanza, eludere in via legislativa la prevista procedura amministrativa di rinnovo equivarrebbe a rinunciare al controllo amministrativo dei requisiti che, medio tempore, potrebbero essersi modificati o essere venuti meno, con esclusione, peraltro, di qualsiasi sindacato in sede giurisdizionale comune.

Per altro verso, va poi notato come la delibera legislativa contestata si collochi, a sua volta, quale eccezionale deroga rispetto ad altra legge regionale, anch’essa “eccezionalmente” derogatoria rispetto alla disciplina “a regime”. Con la già citata legge regionale n. 10 del 2004, infatti, sempre «al fine di consentire il superamento del grave stato di crisi del settore e il mantenimento dei livelli occupazionali delle imprese operanti nel settore dei materiali lapidei di pregio», è stata prevista la possibilità, per i titolari delle autorizzazioni, di ottenere il «rinnovo» delle autorizzazioni stesse al fine di completare il programma di coltivazione precedentemente assentito, anche in deroga «all’articolo 91 della legge regionale 3 maggio 2001, n. 6» (vale a dire, proprio alla disciplina regionale dettata in tema di valutazione di impatto ambientale). In sostanza, la previsione oggetto di censura finisce per consentire di sfuggire – attraverso il meccanismo della proroga ex lege – anche al controllo che la legge n. 10 del 2004 aveva previsto in sede di rinnovo delle autorizzazioni.

Va d’altra parte rammentato, a tal proposito, che, proprio in tema di autorizzazioni “postume,” la giurisprudenza della Corte di giustizia europea appare ispirata a criteri particolarmente rigorosi (sentenza 3 luglio 2008, procedimento C-215/06), essendosi ribadito che, «a livello di processo decisionale è necessario che l’autorità competente tenga conto il prima possibile delle eventuali ripercussioni sull’ambiente di tutti i processi tecnici di programmazione e di decisione, dato che l’obiettivo consiste nell’evitare fin dall’inizio inquinamenti ed altre perturbazioni, piuttosto che nel combatterne successivamente gli effetti». Il che suona difficilmente compatibile con un sistema che non prevedeva (o poteva non prevedere) l’obbligo della VIA, né all’atto della adozione del provvedimento autorizzatorio, né alla sua scadenza, posto che in luogo di una “nuova” autorizz azione (o di un “rinnovo” della precedente), si sostituisce ex lege la perdurante validità del vecchio titolo, senza possibilità di verificare se, a causa dell’esercizio della relativa (e legittima) attività, possa essersi cagionato o meno un danno per l’ambiente.

Quanto, poi, al limitato “impatto” concreto che la delibera legislativa presenterebbe, atteso il breve periodo di efficacia della normativa e la circoscritta portata delle aziende che ne beneficerebbero, il dato si presenta del tutto inconferente, posto che tali profili inciderebbero eventualmente soltanto sul quantum della eccedenza nell’esercizio della competenza legislativa esercitata, ma non certo sull’an. Per altro verso, neppure i segnalati profili di “eccezionalità” possono venire in discorso, giacché gli stessi non hanno nulla a che vedere con quegli aspetti di sicurezza e contingibilità che possono legittimare l’introduzione di previsioni derogatorie in tema di tutela ambientale (ad es., art. 6, comma 4, lettera c, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 recante «Norme in materia ambientale», e successive modificazioni, che esclude dal campo di applicazione del decreto «i piani di protezione civile in caso di pericolo per l’incolumità pubblica»).

La riscontrata violazione, ad opera della delibera legislativa impugnata, dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, assorbe gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale denunciati dal ricorrente.

Le ragioni enunciate a sostegno della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 1 della delibera legislativa in esame valgono anche in riferimento alla disposizione dettata dall’art. 3, comma 2, della medesima delibera legislativa, in quanto norma priva di reale autonomia nel contesto del provvedimento impugnato.

6. – Rilievi nella sostanza non dissimili possono formularsi anche in ordine al ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento alla legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive», trattandosi, anche in questo caso, di una disciplina di eccezionale prorogatio destinata a surrogare, ex lege ed in forma automatica, i controlli tipici dei procedimenti amministrativi di rinnovo delle autorizzazioni alla coltivazione delle cave.

Per la Regione Campania si riscontrano, peraltro, talune peculiarità. Anzitutto, la disciplina regionale di settore (quella fondamentale, antecedente alla disciplina nazionale sulla VIA: si veda, in particolare, la legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, recante «Coltivazione di cave e torbiere», e successive modificazioni ed integrazioni) prevede una durata massima delle autorizzazioni estrattive di venti anni, suscettibile di una “proroga dei termini,” ma non di una specifica procedura di rinnovo.

In secondo luogo, la normativa stessa fa rinvio, come condizione per il rilascio delle autorizzazioni, al rispetto delle prescrizioni previste dal PRAE (Piano regionale attività estrattive), le cui “vicissitudini”, a seguito di impugnative di vario genere, sono state ben scolpite nella relazione illustrativa della iniziativa legislativa de qua. Va anche rammentato, a tal proposito, come l’unica fonte che in qualche modo richiami l’obbligo di conformazione delle autorizzazioni alla VIA è contenuta nell’art. 79 della legge finanziaria regionale del 2008 (legge regionale 30 gennaio 2008, n. 1), a norma del quale si prevede che il Piano regionale delle attività estrattive sancisca che la istanza di autorizzazione o concessione debba «essere corredata dalla documentazione relativa alla Valutazione di Impatto Ambientale, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 1996 e successive modifiche, nonch 3; dalla documentazione relativa alla Valutazione di Incidenza (Direttiva Habitat – Art. 6 Direttiva 92/42/CEE e art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica n. 357/1997)».

Da ultimo, va rilevato che la normativa regionale non soltanto ha espressamente subordinato il rilascio delle autorizzazioni al rispetto del PRAE, ma ha addirittura espressamente precluso – con la legge finanziaria regionale del 2002 – la possibilità di «ogni tipo di rinnovo o nuova autorizzazione» fino alla approvazione del suddetto Piano, stabilendo, peraltro, con la successiva legge finanziaria del 2005, una “proroga” (con formulazione del tutto analoga a quella che compare nella odierna disciplina oggetto di censura) sino al 30 giugno 2006.

In sostanza, da un lato, nessun elemento normativo garantisce (ma, anzi, tutto sembra deporre per il contrario) che le autorizzazioni in corso di “esercizio” (originario o prorogato) fossero state – ab origine o in sede di proroga – assoggettate a valutazione di impatto ambientale; dall’altro, il perdurante regime normativo di mantenimento dello status quo cristallizza, ex lege, l’elusione dell’obbligo e, con esso, attraverso il meccanismo della legge-provvedimento, il mancato rispetto della normativa dettata in materia riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

D’altra parte, la tesi “interpretativa” proposta dalla Regione nella propria memoria deve ritenersi impraticabile, tanto sul piano testuale che su quello logico-sistematico. Per un verso, infatti, la norma, nel sancire l’obbligo che la “prosecuzione della attività” debba avvenire in conformità agli obiettivi del PRAE e nel “rispetto delle norme vigenti”, appare essere testualmente indirizzata ai soggetti autorizzati, piuttosto che all’organo deputato al rilascio del provvedimento di autorizzazione alla prosecuzione della attività stessa. Tant’è che quest’ultimo è chiamato a verificare (soltanto) la regolarità del deposito cauzionale e dei contributi, come requisito condizionante il provvedimento di proroga.

Da un punto di vista logico, poi, non è dato comprendere in base a quale elemento normativo o di “sistema” sia possibile dedurre che, mentre si impone esclusivamente la conformazione della attività da proseguire agli “obiettivi” del PRAE (e non, quindi, a tutte le relative previsioni, tra le quali – come si è detto – anche quella concernente la VIA), si dovrebbe ritenere compreso l’accertamento di compatibilità della prosecuzione della attività estrattiva alla valutazione di impatto ambientale (non prescritta dalla normativa regionale all’atto della originaria concessione), in virtù del generico richiamo al “rispetto delle norme vigenti”.

Per altro verso, non pare neppure conducente la tesi, sostenuta dalla Regione Campania nella memoria da ultimo depositata, secondo la quale la norma censurata sarebbe legittima giacché nulla prevederebbe «in difformità alla disciplina di competenza statale con riguardo ai profili ambientali dell’attività d’impresa relativa alla coltivazione delle cave», in sostanza reputandosi applicabile, in parte qua, la disciplina dettata in materia di VIA dal d. lgs. n. 152 del 2006. L’argomento non risulta persuasivo in quanto l’assoggettamento a quella disciplina non soltanto dovrebbe essere espresso, ma anche – e soprattutto – lo stesso dovrebbe fungere da presupposto condizionante il provvedimento di “proroga”, proprio perché quest’ultima – secondo quanto deduce la stessa memoria – si atteggia quale «nuovo esercizio della funzione amministrativa in cui l’Amministrazione è chiamata a verificare la sussistenza dei requisiti necessari...». D’altra parte, ove fosse valida la prospettazione della resistente, risulterebbe del tutto superfluo il richiamo alla

statale della VIA che, come si è detto, entra invece espressamente a far parte del Piano regionale delle attività estrattive, alla cui approvazione ed al cui rispetto l’intero sistema delle autorizzazioni è stato – altrettanto espressamente – subordinato.

Le ragioni che sostengono la declaratoria di illegittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 1 coinvolgono anche le previsioni dettate nei commi 4 e 5 dello stesso articolo 1, in quanto connesse al censurato “automatismo” della proroga.

7. – In conclusione, tutte le disposizioni legislative impugnate devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana approvata il 25 novembre 2008, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio»;

dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 68

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 5, 24, commi da 1 a 4, 25, commi 1, 3, 5 e 7 e 26, della legge della Regione Abruzzo 24 novembre 2008, n. 17 (Norme regionali contenenti l’attuazione della parte terza del d.lgs. n. 152/06 e s.m.i. e disposizioni in materia di personale), e degli articoli 1, commi 3 e 6, e 2 della legge della Regione Abruzzo 15 ottobre 2008, n. 14 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 marzo 2008, n. 2. Provvedimenti urgenti a tutela della Costa Teatina), promossi con ricorsi notificati il primo il 19-24 dicembre 2008 ed il secondo notificato il 23-29 dicembre 2008, depositati in cancelleria il 29 ed il 31 dicembre 2008 ed iscritti ai nn. 103 e 104 del registro ricorsi 2008.

Visto l’atto di costituzione, fuori termine, della Regione Abruzzo;

udito nell’udienza pubblica del 26 gennaio 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

uditi gli avvocati dello Stato Enrico Arena e Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 19-24 dicembre 2008 e depositato il successivo giorno 29 dello stesso mese (iscritto nel reg. ric. n. 103 del 2008), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’intero testo della legge della Regione Abruzzo 24 novembre 2008, n. 17 (Norme regionali contenenti l’attuazione della parte terza del d.lgs. n. 152/06 e s.m.i. e disposizioni in materia di personale), in riferimento agli artt. 121, secondo comma, e 126 della Costituzione, nonché all’art. 86, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo 28 dicembre 2006, nonché, in subordine, degli artt. 5, 24, commi da 1 a 4, 25, commi 1, 3, 5 e 7, e 26 della medesima legge, in riferimento agli artt. 3, 81, quarto comma, 97, terzo comma, 117, secondo comma, lettera s), 120, secondo comma, della Costituzione.

2. – Quanto all’impugnazione dell’intero testo della legge regionale n. 17 del 2008, sostiene il ricorrente che l’art. 86, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo avrebbe introdotto l’istituto della prorogatio, solo «quale sopravvivenza temporanea di limitati poteri in sostituzione dei titolari per i quali si è verificata la cessazione del mandato». Per la difesa dello Stato, infatti, dopo il termine della legislatura i Consigli regionali dispongono di poteri attenuati, confacenti alla loro situazione di organi in scadenza (sono richiamate le sentenze n. 196 del 2003, n. 515 del 1995 e n. 468 del 1991). Ne consegue che al Consiglio regionale spetta deliberare solo «in circostanze straordinarie o di urgenza, o per il compimento di atti dovuti».

Per il ricorrente l’impugnata legge regionale sarebbe priva di tali caratteri e pertanto violerebbe l’art. 121, secondo comma, Cost., ed anche l’art. 126 della Costituzione, in quanto ridurrebbe la portata degli effetti dello scioglimento del Consiglio.

3. – Il ricorrente ha impugnato l’art. 5 della legge regionale in oggetto recante «limiti ed indirizzi tecnici per lo scarico su suolo o strati superficiali del sottosuolo di acque reflue urbane, domestiche ed assimilabili alle domestiche».

Il denunciato art. 5 sarebbe in contrasto «sia con la normativa nazionale, sia con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione», giacché «non sono fissati i valori limite di emissione cui devono necessariamente attenersi gli scarichi di acque reflue urbane ed industriali, come previsto» dall’art. 103, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).

4. – Inoltre il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato diverse disposizioni della medesima legge in materia di personale regionale (gli artt. 24, commi da 1 a 4, 25, commi 1, 3, 5 e 7, e 26).

Successivamente il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato il 23 marzo 2009, ha dichiarato di rinunciare alla relativa impugnazione, attesa la sopravvenuta abrogazione delle denunciate disposizioni ad opera dell’art. 3 della legge della Regione Abruzzo 3 gennaio 2009, n. 2 (Disposizioni fiscali in materia di addizionale regionale all’accisa sul gas naturale ed imposta sostitutiva per le utenze esenti dall’accisa).

5. – Sempre con il medesimo ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri ha, altresì, proposto una istanza di sospensione della legge regionale in oggetto, ai sensi dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e dell’art. 21 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

6. – La Regione Abruzzo non si è costituita in questo giudizio.

7. – Con ricorso notificato il 23-29 dicembre 2008 e depositato il successivo giorno 31 dello stesso mese (iscritto nel reg. ric. n. 104 del 2008), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’intero testo della legge della Regione Abruzzo 15 ottobre 2008, n. 14 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 marzo 2008, n. 2. Provvedimenti urgenti a tutela della Costa Teatina), in riferimento ai “principi fondamentali in materia di prorogatio” e all’art. 86, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo, nonché, in subordine, degli artt. 1, commi 3 e 6, e 2 della medesima legge, in riferimento agli artt. 3, 41, 42, 43, 97, 117, commi primo, secondo, lettera s), e terzo, e 118 della Costituzione.

8. – L’intero testo della legge regionale n. 14 del 2008 è dal ricorrente impugnato per violazione dei «princìpi generali in tema di prorogatio» e dell’art. 86, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo.

Questa doglianza è sorretta dalle stesse argomentazioni addotte dal Presidente del Consiglio dei ministri nel ricorso avverso la legge della Regione Abruzzo n. 17 del 2008.

9. – Il ricorrente ha, inoltre, impugnato l’art. 1, comma 3, della legge n. 14 del 2008. Questa disposizione prevede che su aree destinate a determinate coltivazioni e produzioni, nonché sulle aree ad esse limitrofe, sia vietato l’insediamento di industrie che svolgano attività di prospezione, ricerca, estrazione, coltivazione e lavorazione di idrocarburi. Sono, altresì, vietati la trasformazione e l’ampliamento degli esistenti impianti.

Per il ricorrente le attività relative al settore degli idrocarburi sono da inquadrare nel settore della produzione di fonti di energia, che è materia disciplinata principalmente dalla legge 22 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico) e dal decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164 (Attuazione della direttiva 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell’articolo 41 della legge 17 maggio 1999, n. 144).

A norma dell’art. 1, comma 2, lettera c), della legge n. 239 del 2004, le attività di esplorazione, ricerca, coltivazione e stoccaggio di idrocarburi, sono soggette a concessione. Il rilascio della concessione, ai sensi del comma 7, lettera n), dell’art. 1 della medesima legge, è di competenza statale, sia pure d’intesa con la Regione. L’attività di prospezione degli idrocarburi è, invece, libera, alle condizioni indicate all’art. 4 del decreto legislativo n. 164 del 2000.

Pertanto, per il ricorrente l’impugnata disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., risultando violati i princìpi comunitari di libertà di circolazione delle persone e di stabilimento, di cui agli artt. 43 e 49 del Trattato U.E., nonché con gli artt. 41, 42 e 43 Cost., dato che la previsione regionale sancirebbe «di fatto, un esproprio di tale diritto per una durata potenzialmente illimitata e riguardante tutto il territorio regionale, senza la previsione di alcun indennizzo».

Inoltre, la denunciata disposizione violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto sarebbe in contrasto con i principi fondamentali dettati dal legislatore statale nella materia concorrente dell’energia, nonché l’art. 118 Cost., considerato che le funzioni amministrative in materia di impianti e infrastrutture energetiche sono, fatta eccezione per quelli di rilievo locale, di primaria competenza statale e le relative opere sono considerate dalle leggi statali di preminente interesse nazionale per la sicurezza del sistema elettrico e degli approvvigionamenti.

Infine, i divieti posti dalla censurata disposizione violerebbero il principio di leale collaborazione.

10. – Il ricorrente ha impugnato anche l’art. 1, comma 6, della legge regionale n. 14 del 2008, in relazione a tre distinti profili.

In primo luogo, l’estensione dei divieti previsti dall’art. 1, comma 3, agli interventi già muniti di permesso di costruire o comunque già autorizzati e, comunque possibili, fino all’entrata in vigore del piano di settore, solo previa approvazione del Consiglio regionale, urterebbe con la titolarità ministeriale in tema di rilascio dei titoli minerari.

Inoltre, sarebbe «di tutta evidenza» la violazione, ad opera della impugnata disposizione, del principio della certezza del diritto e del legittimo affidamento dei titolari di atti di autorizzazione legittimi e, quindi, del buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

In secondo luogo, la previsione che le attività in questione siano vietate nelle aree dei territori di taluni comuni fino alla definitiva approvazione del Piano del Parco nazionale della Costa Teatina contrasta con il fatto che la concreta istituzione del Parco della Costa Teatina – finora né istituito, né delimitato in via provvisoria – è affidata ad un decreto del Presidente della Repubblica, da emanare su proposta del Ministero dell’ambiente, d’intesa con la Regione interessata, mentre la delimitazione provvisoria, con adozione delle relative misure di salvaguardia, è demandata ad un provvedimento del Ministero dell’ambiente assunto d’intesa con la Regione ai sensi dell’art. 34, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette).

Ne conseguirebbe la violazione della competenza esclusiva del legislatore statale in tema di «tutela dell’ambiente», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., con specifico riferimento alle funzioni amministrative statali in materia di rilascio dei titoli minerari e di istituzione di Parchi nazionali di cui alla legge n. 394 del 1991.

In terzo luogo, infine, l’art. 1, comma 6, fissa un generale divieto, fino al 31 dicembre 2009, di rilascio di permesso di costruire per l’insediamento di industrie che svolgono attività nel settore idrocarburi.

Peraltro, la difesa dello Stato ricorda che verrebbero contraddetti i provvedimenti assunti a conclusione dei procedimenti unici previsti dalla legislazione vigente, dalla tipica e particolare efficacia, procedimenti ai quali partecipano anche le amministrazioni locali e regionali. Sicché, per il ricorrente, la contestata disposizione violerebbe gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 118 Cost., avendo la legge n. 239 del 2004, all’art. 1, commi 77 e seguenti, introdotto un procedimento unico per il rilascio dei titoli minerari, al quale partecipano le amministrazioni statali, regionali e locali interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).

11. – Il ricorrente ha impugnato anche l’art. 2 della legge regionale n. 14 del 2008, che prevede il potere dei concessionari o delle stazioni appaltanti di rideterminare la funzionalità dei programmi di metanizzazione regionale, assistiti da finanziamenti ai sensi di precedenti leggi regionali, in deroga a queste e operando riduzioni di lavori o opere sui piani originariamente approvati.

Secondo la difesa dello Stato, la fattispecie contemplata dalla denunciata disposizione non potrebbe rientrare nella ipotesi di variante in corso d’opera per motivi di «esigenze derivanti da sopravvenute disposizioni legislative e regolamentari» ex art. 132, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), atteso che s’intendono per sopravvenienze di diritto quelle che determinano la necessità di adeguare l’opera per renderla utilizzabile allo scopo prefissato. Al contrario, la denunciata disposizione riguarderebbe opere conformi allo scopo pubblico fissato dall’art. 11 della legge 28 novembre 1980, n. 784 (Norme per la ricapitalizzazione della GEPI, per la razionalizzazione e il potenziamento dell’industria chimica, per la salvaguardia dell’unità funzionale, della contin uità della produzione e della gestione degli impianti del gruppo Liquigas-Liquichimica e per la realizzazione del progetto di metanizzazione) e dall’art. 9 della legge 7 agosto 1997, n. 266 (Interventi urgenti per l’economia), concernenti la metanizzazione del Mezzogiorno.

Pertanto, il denunciato art. 2 violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., per contrasto con i princìpi della politica energetica nazionale, come specificati dall’art. 1, comma 3, lettere a), b) c), d), g) ed i), della legge n. 239 del 2004.

La stessa disposizione sarebbe, inoltre, lesiva dei principi di efficacia dell’azione amministrativa, di cui all’art. 97 Cost., e della corretta ed economica gestione di risorse pubbliche.

12. – Con atto depositato il 2 luglio 2009, e dunque tardivamente, si è costituita in questo giudizio la Regione Abruzzo.

12.1. – Quanto alla impugnazione dell’intera legge n. 14 del 2008, la difesa regionale contesta l’idoneità dell’evocato art. 86 dello statuto abruzzese a fungere da parametro di costituzionalità, atteso che il medesimo nulla dice intorno alla natura ed all’ampiezza dei poteri esercitabili dal Consiglio regionale in regime di prorogatio.

Anche il parallelismo con la prassi parlamentare non parrebbe trovare fondamento, così come improprio si rivelerebbe il riferimento alla citata giurisprudenza di questa Corte, poiché semmai occorrerebbe riferirsi alla recente sentenza n. 196 del 2003.

12.2. – In ordine alla impugnazione dell’art. 1, comma 3, la difesa della resistente sostiene che la censurata disposizione va considerata specificazione della legislazione regionale in tema di tutela delle produzioni vitivinicole, olivicole e frutticole di pregio. Legislazione mai impugnata e attuativa del diritto comunitario, sia con riferimento alla tutela della salute, sia in relazione alla tutela della libertà di concorrenza. Anzi, la difesa della resistente sostiene che la denunciata disciplina in realtà recepirebbe quanto statuito dal legislatore statale, soprattutto con la legge n. 394 del 1991, e che la medesima si porrebbe nel solco tracciato dal regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno).

12.3. – Per la resistente il censurato art. 1, comma 6, costituirebbe esercizio dei poteri di autotutela e di conformazione dell’ordinamento alle nuove disposizioni emanate in questo ambito, stante la necessità non solo di conformarsi alla normativa comunitaria, ma anche di allineare il regime concessorio degli impianti finora esercitati alle attività della Costa Teatina.

12.4. – Infine, quanto alla asserita incostituzionalità dell’art. 2 della legge regionale in parola, l’evocato art. 132 del decreto legislativo n. 163 del 2006, oltre a non poter essere addotto quale parametro di giudizio, non impedirebbe comunque alla Regione di attuare nel dettaglio il quadro generale definito a livello statale.

Considerato in diritto

1. – Con due distinti ricorsi (iscritti al reg. ric. n. 103 e n. 104 del 2008), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha anzitutto sollevato questione di legittimità costituzionale, nell’intero testo, della legge della Regione Abruzzo 24 novembre 2008, n. 17 (Norme regionali contenenti l’attuazione della parte terza del d.lgs. n. 152/06 e s.m.i. e disposizioni in materia di personale) e della legge della Regione Abruzzo 15 ottobre 2008, n. 14 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 marzo 2008, n. 2. Provvedimenti urgenti a tutela della Costa Teatina).

Più precisamente, entrambi i ricorsi denunciano la violazione, quale parametro interposto, dell’art. 86, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo, a mente del quale «in caso di scioglimento anticipato e di scadenza della legislatura, il Consiglio e l’Esecutivo regionale sono prorogati sino alla proclamazione degli effetti nelle nuove elezioni, indette entro tre mesi dal Presidente della Giunta, secondo le modalità definite dalla legge elettorale».

Con il primo dei due ricorsi indicati in epigrafe, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 121, secondo comma, e 126 della Costituzione. Con il secondo, lo stesso ricorrente si duole della violazione dei «princìpi generali in tema di prorogatio».

1.1. – Inoltre, in subordine, con il ricorso iscritto al reg. ric. n. 103 del 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, 24, commi da 1 a 4, 25, commi 1, 3, 5 e 7, e 26 della legge regionale n. 17 del 2008, in riferimento agli artt. 3, 81, quarto comma, 97, terzo comma, 117, secondo comma, lettera s), e 120, secondo comma, della Costituzione.

Con il ricorso iscritto al reg. ric. n. 104 del 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 3 e 6, e 2 della legge regionale n. 14 del 2008, in riferimento agli artt. 3, 41, 42, 43, 97, 117, commi primo, secondo, lettera s), e terzo, e 118 della Costituzione.

Successivamente alla proposizione del ricorso, la Regione Abruzzo ha adottato la legge regionale 18 dicembre 2009, n. 32 (Modifiche alla legge regionale 10 marzo 2008, n. 2, e successive modifiche. Provvedimenti urgenti a tutela della costa teatina). Questa legge non solo modifica lo stesso titolo della legge n. 2 del 2008 (non si parla più di “costa teatina”, ma di territorio regionale), ma sostituisce l’art. 1 della legge n. 2 del 2008 con altra disposizione, notevolmente diversa da quella sotto più profili censurata.

1.2. – Il ricorso iscritto al reg. ric. n. 103 del 2008 contiene, altresì, istanza di sospensione, ai sensi dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87, della legge regionale n. 17 del 2008.

2. – In considerazione della identità del preliminare profilo di illegittimità costituzionale fatto valere nei due ricorsi e della analogia degli altri profili, i ricorsi possono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3. – Con atto depositato il 23 marzo 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato di rinunciare all’impugnazione degli articoli 24, commi da 1 a 4, 25, commi 1, 3, 5 e 7, e 26 della legge regionale n. 17 del 2008, attesa la sopravvenuta abrogazione delle denunciate disposizioni ad opera dell’art. 3 della legge della Regione Abruzzo 3 gennaio 2009, n. 2 (Disposizioni fiscali in materia di addizionale regionale all’accisa sul gas naturale ed imposta sostitutiva per le utenze esenti dall’accisa).

4. – Le questioni di legittimità costituzionale che investono l’intero testo delle due leggi regionali impugnate sono fondate.

4.1. – Questa Corte ha già avuto occasione di riferirsi alla eventualità che i poteri dei Consigli delle Regioni ad autonomia ordinaria possano essere prorogati al periodo nel quale questi sono stati sciolti in previsione delle imminenti nuove elezioni.

Nel periodo precedente alla modificazione introdotta dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni), l’art. 3, comma 2, della legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale), disponeva semplicemente che i Consigli «esercitano le loro funzioni fino al 46° giorno antecedente alla data delle elezioni per la loro rinnovazione, che potranno aver luogo a decorrere dalla quarta domenica precedente il compimento del periodo di cui al primo comma». Pertanto, questa disposizione, letteralmente interpretata, sembrava negare l’estensibilità a queste assemblee rappresentative dell’istituto della prorogatio nel periodo pre-elettorale, malgrado esso fosse previsto per le Camere (artt. 61, secondo comma, e 77, secondo comma, Cost.) e per i Consigli delle R egioni a statuto speciale (art. 4 della legge costituzionale 23 febbraio 1972, n. 1, recante «Modifiche al termine stabilito per la durata in carica dell’Assemblea regionale siciliana e dei Consigli regionali della Sardegna, della Valle d’Aosta, del Trentino-Alto Adige, del Friuli-Venezia Giulia»).

Peraltro, la giurisprudenza di questa Corte – pur in presenza dell’esigenza di non condizionare le nuove assemblee rappresentative da parte di quelle precedentemente in carica – ha riconosciuto, al fine di garantire la continuità funzionale di queste ultime, che anche i Consigli regionali, durante la fase pre-elettorale e fino alla loro sostituzione, disponessero «di poteri attenuati confacenti alla loro situazione di organi in scadenza, analoga, quanto a intensità di poteri, a quella degli organi legislativi in prorogatio» (sentenza n. 468 del 1991).

Questa lettura è stata ribadita dalla successiva sentenza n. 515 del 1995, nella quale questa Corte ha coniugato il principio della rappresentatività politica del Consiglio regionale «con quello della continuità funzionale dell’organo, continuità che esclude che il depotenziamento possa spingersi ragionevolmente fino a comportare una indiscriminata e totale paralisi dell’organo stesso».

Il quadro normativo è notevolmente mutato con la legge costituzionale n. 1 del 1999, che ha attribuito allo statuto ordinario la definizione della forma di governo e l’enunciazione dei princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione, in armonia con la Costituzione (art. 123, primo comma, Cost.). Nel contempo, la disciplina del sistema elettorale e dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità è stata demandata allo stesso legislatore regionale, sia pure nel rispetto dei princìpi fondamentali fissati con legge della Repubblica, «che stabilisce anche la durata degli organi elettivi» (art. 122, primo comma, Cost.).

Sulla base di queste innovazioni e di quanto successivamente previsto nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), la sentenza n. 196 del 2003 di questa Corte ha affermato che «una interpretazione sistematica delle citate nuove norme costituzionali conduce a ritenere che la disciplina della eventuale prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o dimissioni, e degli eventuali limiti dell’attività degli organi prorogati, sia oggi fondamentalmente di competenza dello statuto della Regione, ai sensi del nuovo articolo 123, come parte della disciplina della forma di governo regionale: così come è la Costituzione (art. 61, secondo comma; art. 77, secondo comma) che regola la prorogatio delle Camere parlamentari».

Peraltro, nel disciplinare questo profilo, gli statuti «dovranno essere in armonia con i precetti e con i principi tutti ricavabili dalla Costituzione, ai sensi dell’art. 123, primo comma, della Costituzione (sentenza n. 304 del 2002)».

Con la medesima sentenza questa Corte ha riconosciuto la competenza esclusiva del legislatore statale per «l’ipotesi dello scioglimento o rimozione “sanzionatori”», prevista dall’art. 126, primo comma, Cost.

4.2. – In effetti, l’art. 86, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo, dispone che, «in caso di scioglimento anticipato e di scadenza della legislatura, il Consiglio e l’Esecutivo regionale sono prorogati sino alla proclamazione degli eletti nelle nuove elezioni, indette entro tre mesi dal Presidente della Giunta, secondo le modalità definite dalla legge elettorale».

Si tratta di una disposizione che non reca alcuna espressa limitazione ai poteri esercitabili dal Consiglio e dalla Giunta regionale nel periodo successivo alla indizione delle elezioni, come, invece, è stato opportunamente previsto in forma espressa da alcuni statuti regionali, restringendo – sia pure attraverso scelte linguistiche diversificate – i poteri consiliari ai soli adempimenti urgenti e indifferibili (si vedano gli artt. 27, settimo comma, dello statuto dell’Emilia-Romagna; 30 dello statuto della Lombardia; 29 dello statuto delle Marche; 44, terzo comma, dello statuto dell’Umbria).

4.3. – La disposizione dello Statuto abruzzese di cui al terzo comma dell’art. 86 (così come le disposizioni analogamente generiche di altri statuti regionali) non può che essere interpretata come facoltizzante il solo esercizio delle attribuzioni relative ad atti necessari ed urgenti, dovuti o costituzionalmente indifferibili, e non già certo come espressiva di una generica proroga di tutti i poteri degli organi regionali.

L’esistenza di questi limiti è, infatti, immanente all’istituto della stessa prorogatio a livello nazionale, come confermato dalla costante prassi parlamentare in tal senso (al di là di sue circoscritte e marginali eccezioni), in applicazione dell’art. 61, secondo comma, Cost. A livello nazionale resta nettissima la diversità fra la prorogatio ed il caso eccezionale della proroga dei poteri parlamentari, previsto dal secondo comma dell’art. 60 Cost. per il solo periodo bellico.

La stessa giurisprudenza di questa Corte, che ha riconosciuto l’istituto della prorogatio per le assemblee regionali, si è sempre riferita al riconoscimento ad esse della eccezionale possibilità di esercitare alcuni dei loro poteri per rispondere a speciali contingenze, quale ragionevole soluzione di bilanciamento tra il principio di rappresentatività ed il principio di continuità funzionale.

D’altra parte, è evidente che nell’immediata vicinanza al momento elettorale, pur restando ancora titolare della rappresentanza del corpo elettorale regionale, il Consiglio regionale non solo deve limitarsi ad assumere determinazioni del tutto urgenti o indispensabili, ma deve comunque astenersi, al fine di assicurare una competizione libera e trasparente, da ogni intervento legislativo che possa essere interpretato come una forma di captatio benevolentiae nei confronti degli elettori.

L’importanza di questo istituto nella configurazione della forma di governo della Regione è stata affermata da questa Corte nella sentenza n. 196 del 2003, con il riconoscimento di una riserva di statuto, cui spetta disciplinare la prorogatio, pur sempre «in armonia con i precetti e con i principi tutti ricavabili dalla Costituzione».

Da ciò discende la necessità che la disposizione di cui al terzo comma dell’art. 86 dello statuto della Regione sia interpretata come legittimante l’istituto della prorogatio, ma nell’ambito dei suoi limiti connaturali. Limiti che, ove appunto non espressi dalla disciplina statutaria, potrebbero successivamente essere definiti tramite apposite disposizioni legislative di attuazione dello statuto o anche semplicemente rilevare nei lavori consiliari o dallo specifico contenuto delle leggi adottate.

4.4. – Peraltro, la successiva legislazione della Regione Abruzzo si è sviluppata sull’erroneo assunto che lo statuto non recasse alcun limite ai poteri del Consiglio in regime di prorogatio, dal momento che l’art. 3 della legge regionale 19 marzo 2002, n. 1 (Disposizioni sulla durata degli organi e sull’indizione delle elezioni regionali), che ha sostituito l’art. 3 della legge n. 108 del 1968, si è limitato ad escludere dall’area della applicazione della succitata disposizione statutaria le situazioni conseguenti all’applicazione dell’art. 126, primo comma, Cost., prevedendo per il resto semplicemente che «in caso di scioglimento anticipato, il Presidente della Giunta, la Giunta ed il Consiglio regionale sono prorogati fino all’insediamento del nuovo Consiglio».

È evidente che la generale e generica affermazione della proroga, per il lungo periodo elettorale, di tutti gli organi regionali, senza la previsione di alcun limite sostanziale o procedimentale, urta con la ratio dell’istituto della prorogatio come punto di bilanciamento fra il principio di rappresentatività e quello della continuità delle istituzioni.

4.5. – Ora, le due leggi regionali oggetto dell’odierno giudizio sono state approvate successivamente allo scioglimento del Consiglio e, dunque, in regime di prorogatio.

Invero, in data 17 luglio 2008 il Presidente della Regione ha comunicato al Presidente del Consiglio regionale le proprie dimissioni dalla carica, rese note con decreto del Vicepresidente 21 luglio 2008, n. 91. A norma dell’art. 44, comma 5, dello statuto regionale, per effetto delle predette dimissioni è intervenuto lo scioglimento del Consiglio regionale. Con il decreto del Vicepresidente della Regione 13 agosto 2008, n. 111, sono state indette le elezioni regionali, che si sono svolte il 14 e 15 dicembre 2008.

In questo lasso di tempo il Consiglio regionale non ha provveduto a selezionare le materie da disciplinare in conformità alla natura della prorogatio, limitandole ad oggetti la cui disciplina fosse oggettivamente necessaria ed urgente; né dai lavori preparatori risulta che siano state addotte specifiche argomentazioni in tal senso.

La legge regionale n. 14 del 2008 è stata approvata dal Consiglio nella seduta n. 114 del 30 settembre 2008 e la legge regionale n. 17 del 2008 nella seduta n. 121 del 7 novembre 2008.

4.6. – Sulla base di quanto in precedenza esposto in ordine all’interpretazione dell’art. 86, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo ed in considerazione del loro contenuto, le leggi regionali n. 14 e n. 17 del 2008 devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 86, terzo comma, dello statuto regionale in relazione all’art. 123 Cost.

5. – Restano assorbite le residue censure, ivi compresa la decisione sull’istanza di sospensione delle leggi regionali impugnate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la illegittimità costituzionale della legge della Regione Abruzzo 15 ottobre 2008, n. 14 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 marzo 2008, n. 2. (Provvedimenti urgenti a tutela della Costa Teatina), e della legge della Regione Abruzzo 24 novembre 2008, n. 17 (Norme regionali contenenti l’attuazione della parte terza del d.lgs. n. 152/06 e s.m.i. e disposizioni in materia di personale);

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 69

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 12 e dell’articolo 12, comma 4, in combinato disposto con l’art. 2, comma 2, lettera e), della legge della Regione Veneto 30 novembre 2007, n. 32 (Regolamentazione dell’attività dei centri di telefonia in sede fissa – phone center), promossi dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con due ordinanze del 23 febbraio 2009 iscritte ai nn. 106 e 132 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 15 e 19, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione della Regione Veneto;

udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2010 e nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

uditi gli avvocati Ezio Zanon e Andrea Manzi per la Regione Veneto.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza iscritta al r.o. n. 106 del 2009, il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, nonché del combinato disposto di cui agli articoli 12, comma 4, e 2, comma 2, lettera e), della legge della Regione Veneto 30 novembre 2007, n. 32 (Regolamentazione dell’attività dei centri di telefonia in sede fissa – phone center).

1.1. – Premette il rimettente che, ai sensi del censurato art. 12, recante la disciplina transitoria, «i titolari dei centri di telefonia in sede fissa che già esercitano attività di cessione al pubblico di servizi telefonici alla data di entrata in vigore della presente legge sono tenuti a: a) richiedere l’autorizzazione di cui all’articolo 4 al comune competente per territorio entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge; b) porsi in regola con le prescrizioni previste dall’articolo 4, comma 3 e dall’articolo 9 entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, salvo proroga concessa dal comune, fino ad un massimo di dodici mesi, in caso di comprovata necessità e su istanza motivata» (comma 1).

Ai sensi del successivo comma 2, il Comune dispone «la chiusura immediata dei centri di telefonia in sede fissa di cui al comma 1 quando il titolare o il gestore o gli altri soggetti indicati dall’articolo 3, comma 3, non risultano in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 3, comma 1».

Il comma 3, poi, prescrive al competente Comune di effettuare la ricognizione dei centri di telefonia in sede fissa di cui al comma 1 e di disporne la chiusura «in caso di decorrenza del termine di cui al comma 1, lettera b), senza che il titolare abbia provveduto a porsi in regola con le prescrizioni previste dall’articolo 4, comma 3 e dall’articolo 9».

Infine, il comma 4 stabilisce che «nei centri di telefonia in sede fissa di cui al comma 1 cessa, dalla data di entrata in vigore della presente legge, ogni attività diversa da quella di cui all’articolo 2, comma 2, lettere b) ed e)», cioè ogni attività non accessoria a quella di telefonia.

Precisa al riguardo il rimettente che l’art. 4 della legge regionale in oggetto prevede e disciplina l’autorizzazione comunale allo svolgimento dell’attività qui considerata, mentre il successivo art. 9 contempla i requisiti igienico-sanitari dei locali.

Inoltre, l’art. 2, comma 2, lettera e), qualifica come «attività commerciale accessoria» «ogni attività riferita a servizi e prodotti strettamente connessi alla cessione al pubblico di servizi di telefonia».

2. – Riferisce il Tribunale di essere chiamato a giudicare dell’impugnazione, da parte della titolare di un centro di telefonia in sede fissa (phone center), del provvedimento del Comune di Padova del 25 luglio 2008, di rigetto della domanda di autorizzazione presentata dalla stessa ricorrente. Con l’impugnato provvedimento, l’amministrazione comunale ha disposto la contestuale chiusura dell’attività, «in quanto all’interno dei locali destinati alla attività di telefonia viene esercitata l’attività di trasferimento internazionale di denaro (transfer money) – agenzia finanziaria, non considerata attività commerciale accessoria alla attività di telefonia e pertanto in contrasto con quanto previsto dall’art. 2, comma 3, e 12, comma 4 della legge regionale n. 32/2007».

Riferisce il TAR rimettente di aver accolto l’istanza cautelare presentata dalla ricorrente sospendendo il provvedimento impugnato.

Espone il giudice a quo che la ricorrente esercita l’attività di telefonia in sede fissa in seguito alla presentazione, in data 27 marzo 2006, della dichiarazione di inizio attività al Ministero delle comunicazioni, nonché sulla base della licenza della Questura di Padova, come da domanda presentata in data 31 marzo 2006.

La ricorrente ha dichiarato di avere presentato al Comune di Padova, in data 15 febbraio 2008, la domanda di autorizzazione prescritta dall’art. 12 in oggetto. Nella domanda la ricorrente ha precisato che «il money transfer è stato chiuso».

L’adìto Comune, con nota del 16 aprile 2008, ha comunicato l’avvio del procedimento di diniego e di chiusura dell’attività, all’esito di un sopralluogo nel corso del quale sarebbe stato accertato il perdurante svolgimento, congiuntamente al servizio di telefonia, dell’attività di trasferimento internazionale di denaro.

3. – In punto di rilevanza, sostiene il rimettente che l’accoglimento della presente questione di legittimità costituzionale «sarebbe in grado di per sé di soddisfare in modo pieno l’interesse perseguito dalla ricorrente giacché, per effetto della dichiarata incostituzionalità del citato art. 12, verrebbe meno la necessità di uno specifico e autonomo provvedimento autorizzatorio comunale per consentire l’esercizio della attività di phone center».

Il TAR è, infine, dell’avviso che l’accoglimento della domanda cautelare non tolga rilevanza alla questione di legittimità costituzionale, dato che la sospensiva è stata accordata in via temporanea fino alla ripresa del giudizio cautelare successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale (al riguardo sono citate le sentenze n. 183 del 1997, n. 30 del 1995, n. 451 del 1993 e n. 444 del 1990).

4. – In punto di non manifesta infondatezza, per il rimettente l’attività svolta dai centri di telefonia in sede fissa è qualificabile, alla luce di quanto dispone il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), come fornitura al pubblico di servizi di comunicazione elettronica: ciò alla luce della sentenza n. 350 del 2008, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), e della sentenza n. 25 del 2009, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge della Regione Veneto n. 32 del 2007.

Inoltre, l’attività di trasferimento di denaro all’estero (money transfer) non può essere fatta rientrare nell’ambito della «attività commerciale accessoria (...) riferita a servizi e prodotti strettamente connessi alla cessione al pubblico di servizi di telefonia». Il servizio di trasferimento internazionale di denaro, infatti, appare analogo al servizio offerto dal sistema interbancario. Esso, inoltre, non implica necessariamente l’utilizzo dei servizi telefonici o telematici del centro di telefonia in sede fissa.

4.1. – Tutto ciò premesso, il rimettente censura la disciplina transitoria di cui all’art. 12 della legge regionale n. 32 del 2007 per contrasto con l’art. 117 Cost., «in relazione al sistema di riparto delle competenze legislative Stato-Regione», nella parte in cui prescrive l’obbligo dell’autorizzazione comunale, nel rispetto dei requisiti di cui agli articoli 3, 4 e 9, anche per i titolari di centri di telefonia in sede fissa già attivi alla data di entrata in vigore della stessa legge regionale.

A questo proposito, il giudice a quo richiama la sentenza n. 350 del 2008, con la quale questa Corte ha statuito che confligge con le scelte operate dal legislatore statale in tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di semplificazione procedimentale l’introduzione, ad opera del legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento autorizzatorio per lo svolgimento dell’attività dei centri di telefonia.

Quanto al caso di specie, al giudice a quo appare evidente che le statuizioni rese da questa Corte con la sentenza n. 350 del 2008 «si riflettono sulla disciplina – transitoria, ma non solo – introdotta dalla Regione Veneto con l’art. 12 della legge n. 32 del 2007». La previsione dell’obbligo di munirsi di autorizzazione comunale appare confliggere con l’art. 117 della Costituzione per le medesime ragioni che hanno indotto questa Corte a dichiarare l’incostituzionalità della disciplina legislativa posta dalla Regione Lombardia.

4.2. – Il rimettente censura, altresì, il combinato disposto di cui agli artt. 12, comma 4, e 2, comma 2, lettera e), della legge regionale qui scrutinata, in forza del quale è vietato, a decorrere dalla data di entrata in vigore della stessa legge regionale, lo svolgimento di attività commerciali non accessorie a quella di telefonia, tra le quali rientrerebbe quella di trasferimento di denaro all’estero.

La denunciata disciplina produrrebbe una discriminazione idonea a tradursi in una restrizione ingiustificata al principio costituzionale di libera iniziativa economica, in contrasto, quindi, con gli artt. 3 e 41 Cost. Per il giudice a quo, il legislatore veneto avrebbe introdotto un elemento di rigidità del sistema che si tradurrebbe in una «limitazione quantitativa dell’offerta economica di servizi, in danno dei gestori di phone center nei riguardi dei quali, diversamente da quanto avviene per altri operatori economici, è ingiustificatamente preclusa la possibilità di cumulare l’esercizio dell’attività di cessione al pubblico di servizi telefonici con lo svolgimento di un’altra attività economica – il trasferimento all’estero di denaro, appunto – pienamente compatibile e liberamente esercitatile dai titolari di attività non disomogenee (come rivendite di tabacchi, ricevitorie e internet point)».

Al riguardo, il rimettente richiama la segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato 24 gennaio 2008, n. AS 443 con la quale si rileva che «il divieto di svolgimento, nei centri di telefonia fissa, di servizi diversi dalla cessione al pubblico di servizi telefonici e dell’attività commerciale accessoria (...) rappresenta una ingiustificata limitazione quantitativa e qualitativa della offerta, in contrasto con le esigenze di salvaguardia della concorrenza e, peraltro, con l’art. 3, lettera c), del decreto legge n. 223 del 2006 che, in una prospettiva di liberalizzazione degli accessi al mercato, esclude l’applicazione di limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali, fatta salva la distinzione tra settore alimentare e non alimentare».

Per l’autorità rimettente, il combinato disposto degli artt. 12, comma 4, e 2, comma 2, lettera e), della legge regionale n. 32 del 2007 violerebbe altresì gli articoli 3 e 97 Cost., sotto l’aspetto della irragionevolezza, connessa al carattere sostanzialmente retroattivo del divieto di cumulo tra le diverse attività economiche.

Rievocata la giurisprudenza costituzionale sulla retroattività delle leggi, il giudice a quo rileva che le aspettative dei titolari e dei gestori dei centri di telefonia in sede fissa già attivi di poter svolgere – e continuare a svolgere – anche altre attività, e non solo le attività accessorie alla telefonia, appaiono essere state irragionevolmente frustrate.

5. – La Regione Veneto, intervenuta nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 4 maggio 2009, ritiene le prospettate questioni inammissibili e, comunque, infondate.

5.1. – Irrilevante si rivelerebbe, secondo la difesa regionale, la censura dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 12, atteso che la chiusura del centro di telefonia in sede fissa risulta essere stata disposta per la violazione del divieto di esercitare attività di trasferimento internazionale di denaro.

Al riguardo, proprio in relazione ai suddetti commi 1, 2 e 3 risulterebbe carente la descrizione della fattispecie concreta.

5.2. – Nel merito, per la Regione interveniente l’asserita violazione del riparto delle attribuzioni legislative non sussisterebbe, avendo la legge regionale in parola disciplinato, nell’esercizio di una potestà legislativa residuale, gli aspetti commerciali dei centri di telefonia in sede fissa.

La prescritta autorizzazione, in aggiunta alla dichiarazione di inizio attività prevista dal Codice delle comunicazioni elettroniche, mira – secondo la difesa regionale – a verificare che i locali nei quali si svolge l’attività di telefonia siano idonei e rispettino le norme in materia edilizia, igienico-sanitaria e di sicurezza.

Quanto, poi, al divieto di esercitare, all’interno dei centri di telefonia in sede fissa, attività diverse da quelle accessorie, esso riposa sulla volontà di precludere lo svolgimento di attività commerciali diverse da quelle per le quali il gestore ha conseguito la prescritta autorizzazione. Per l’esplicazione di tali attività i gestori devono uniformarsi alla specifica disciplina di settore e devono conseguire l’apposito titolo abilitativo.

Peraltro – precisa la difesa regionale – lo svolgimento di attività non consentite non è punito con la chiusura del centro di telefonia, essendo al contrario comminata una sanzione pecuniaria. Nel caso di specie, dunque, il Comune di Padova, disponendo la cessazione dell’attività, avrebbe interpretato in maniera scorretta la disciplina legislativa in oggetto.

Infondata sarebbe, infine, la censura basata sulla pretesa violazione dell’art. 41 della Costituzione. Nel bilanciamento degli interessi contemplati da questa previsione costituzionale, risulterebbero preminenti la sicurezza, la libertà e la dignità umana «il cui rispetto può essere garantito unicamente mediante la verifica del rispetto dei requisiti necessari per svolgere ciascuna attività economica».

6. – Con ordinanza iscritta al r.o. n. 132 del 2009, il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, nonché del combinato disposto di cui agli articoli 12, comma 4, e 2, comma 2, lettera e), della legge della Regione Veneto n. 32 del 2007.

6.1. – Espone il giudice a quo di essere stato chiamato a sindacare la legittimità di atti amministrativi del Comune di Conegliano e della Regione Veneto, impugnati da alcuni titolari di centri di telefonia in sede fissa.

Riferisce il rimettente che i ricorrenti nel giudizio principale sono titolari, da alcuni anni, di centri di telefonia in sede fissa. Essi svolgono, altresì, attività di trasferimento all’estero di denaro (money transfer), quali sub-mandatari di una importante società di servizi finanziari.

I ricorrenti, con il ricorso introduttivo, hanno chiesto l’annullamento dell’ordinanza del Sindaco di Conegliano 25 settembre 2007, n. 270, recante i «requisiti igienici, di pubblica sicurezza degli orari per l’attivazione di centri di telefonia in sede fissa (phone center)», nella parte in cui detta prescrizioni generali in materia, estese altresì alle attività già insediate, pena la sospensione dell’attività «per il periodo necessario al realizzo o al ripristino delle condizioni previste dai punti citati». È, altresì, impugnata la delibera della Giunta regionale 27 luglio 2006, n. 2346, recante le «linee guida regionali in materia di requisiti igienici per l’attivazione di centri di telefonia in sede fissa (phone center)». I ricorrenti chiedono, infine, la condanna del Comune di Conegliano al risarcimento del danno.

Con ricorso per motivi aggiunti, i ricorrenti hanno chiesto l’annullamento della successiva ordinanza del Sindaco di Conegliano 13 dicembre 2007, n. 357, con la quale – revocata l’ordinanza n. 270 – è stato ingiunto agli esercenti le attività di centri di telefonia in sede fissa presenti sul territorio comunale di uniformarsi alle sopravvenute disposizioni della legge regionale n. 32 del 2007.

7. – In punto di rilevanza, ritiene il rimettente che l’ordinanza n. 357 del 2007, nel disporre che i gestori di centri di telefonia in sede fissa si adeguino alle disposizioni contenute nella legge regionale n. 32 del 2007, e nello stabilire che nei suddetti centri di telefonia non sono ammesse attività commerciali non accessorie rispetto alla cessione al pubblico di servizi telefonici tra cui, in particolare, il servizio di trasferimento di denaro internazionale, appare idonea a produrre effetti gravemente lesivi degli interessi vantati dai ricorrenti.

Più precisamente, l’immediata lesività dell’atto impugnato è ascrivibile, innanzitutto, alla parte in cui esso prescrive l’obbligo di adeguamento a quanto previsto dagli articoli 4 e 9 della legge regionale in parola. L’effetto pregiudizievole è, poi, imputabile alla parte in cui, sia pure implicitamente, vieta di svolgere il servizio di trasferimento internazionale di denaro «poiché tutti i ricorrenti dichiarano di ricavare, dal servizio stesso, introiti significativi». Per il giudice a quo, la circostanza che il Comune non abbia, finora, obbligato i gestori alla dismissione del servizio di, trasferimento internazionale di denaro e che gli stessi non siano stati, fino a questo momento, sanzionati dal medesimo Comune per la violazione del divieto anzidetto, «non elide il carattere immediatamente e direttamente lesivo della prescrizione dell’ordinanza secondo la quale nei centri di telefonia un sede fissa non è ammessa l’attività di trasferimento internazionale di denaro, a fronte di un divieto ex lege che decorre dal 19 dicembre 2007, atteso che risulta evidente come i ricorrenti continuino a svolgere il servizio di trasferimento di denaro all’estero a titolo assolutamente precario».

Similmente – prosegue il rimettente – il fatto che l’adeguamento ai requisiti debba avvenire, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), della legge regionale in questione, entro un anno dalla data della entrata in vigore della legge medesima, salvo proroga concessa dal Comune, non toglie all’ordinanza il suo carattere precettivo e vincolante per i destinatari dell’atto, e, quindi, la sua idoneità a pregiudicare gli interessati, tenuto conto della dichiarata impossibilità di rispettare i requisiti richiesti, giacché «le dimensioni dei locali a disposizione dei ricorrenti sono tali da non potersi pretendere la benché minima modifica rispetto alle dotazioni esistenti».

In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente espone le medesime argomentazioni sviluppate nell’ordinanza iscritta al r.o. n. 106 del 2009.

8. – La Regione Veneto, costituitasi nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 1° giugno 2009, ritiene le prospettate questioni inammissibili e, comunque, infondate.

8.1. – La difesa regionale, in via preliminare, ritiene irrilevante la questione di costituzionalità relativa all’art. 12 della legge regionale n. 32 del 2007 nella parte in cui prescrive il conseguimento di un’apposita autorizzazione e nella parte in cui impone la conformazione ai nuovi requisiti.

Il Comune di Conegliano non avrebbe disposto la chiusura dei centri di telefonia non in regola, e non avrebbe imposto la dismissione del servizio di trasferimento internazionale di denaro. Come riconosciuto nella stessa ordinanza di rimessione, i ricorrenti nel giudizio principale continuano a svolgere regolarmente la loro attività, ivi compresa quella di trasferimento di denaro, senza alcun pregiudizio economico.

La censura sarebbe, poi, inammissibile anche per carente descrizione della fattispecie concreta.

8.2. – Nel merito, la difesa regionale espone le medesime argomentazioni sviluppate nell’atto di intervento nel giudizio di costituzionalità instaurato con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 106 del 2009.

9. – In data 20 gennaio 2010, la Regione Veneto ha depositato fuori termine una memoria nel giudizio di legittimità costituzionale instaurato con l’ordinanza di cui al r.o. n. 132 del 2009, fissato per l’udienza pubblica del 9 febbraio 2010.

10. – Nella medesima data, la difesa regionale ha depositato una memoria di identico contenuto nel giudizio di costituzionalità instaurato con l’ordinanza di cui al r.o. 106 del 2009, fissato per la camera di consiglio del 10 febbraio 2010.

In tale atto, la interveniente, oltre a ribadire le eccezioni di inammissibilità già formulate, rileva come medio tempore sarebbe intervenuta la cessazione dell’attività imprenditoriale da parte della ricorrente e la cancellazione dal registro delle imprese della stessa a far data dal 12 maggio 2009. Ciò determinerebbe l’irrilevanza sopravvenuta delle questioni in oggetto.

10.1. – Nel merito la Regione, rilevato che le motivazioni poste dal rimettente a base delle censure di costituzionalità sono mutuate dalla sentenza n. 350 del 2008, critica in modo analitico le argomentazioni addotte nella citata pronuncia.

Per la difesa regionale, i centri di telefonia in sede di fissa non costituirebbero modalità di esplicazione del diritto di accesso ai mezzi di comunicazione elettronica. Sicché, il Codice delle comunicazioni, di attuazione della normativa comunitaria, non sarebbe ad essi applicabile.

In particolare, la direttiva 7 marzo 2002, n. 2002/21/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica – Direttiva quadro) individuerebbe i servizi consistenti esclusivamente o prevalentemente nella trasmissione di segnali su reti di comunicazioni elettroniche, e non ai servizi per accedere alla reti di comunicazione.

Nel Codice delle comunicazioni, l’accesso al terminale telefonico fornito dai centri di telefonia in sede fissa non rientrerebbe nella definizione di «servizio di comunicazione elettronica» data dall’art. 1 dello stesso Codice.

Tuttavia, «eccezionalmente», l’art. 25 del Codice richiede al gestore di un servizio di telefonia pubblica a pagamento lo stesso tipo di autorizzazione prevista per l’“operatore”, cioè per l’impresa autorizzata a fornire una rete o lo strumento di supporto ad essa. Ma questo sarebbe l’unico elemento che accomunerebbe le due figure.

Inoltre, la Regione contesta che dal citato art. 25 e dall’allegato 9 al Codice risultino elementi per ritenere che nell’autorizzazione unica ivi prevista siano assorbite anche le autorizzazioni necessarie per l’impiego dei locali in cui è svolta l’attività.

Più in generale, il suddetto Codice non abbraccerebbe, nell’ambito delle competenze legislative statali, ogni aspetto delle attività collegate alla disciplina delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica e rientrante nelle funzioni istituzionali delle Regioni e degli enti locali. Lo stesso art. 5 del Codice farebbe salve le competenze legislative e regolamentari delle Regioni e Province autonome.

In definitiva, per la interveniente sarebbe del tutto inappropriata l’affermazione, contenuta nella sentenza n. 350 del 2008, secondo cui la disciplina del Codice delle comunicazioni si estenderebbe ai trasferimento internazionale di denaro, con ciò venendo meno il presupposto normativo sul quale riposa la competenza legislativa esclusiva dello Stato.

10.2. – Quanto alle ragioni sottese alla disciplina sottoposta al vaglio di questa Corte, la difesa regionale osserva come con la denominazione di centri di telefonia in sede fissa si identifichino attività commerciali ove, accanto all’attività di telefonia pubblica, sono svolte ulteriori e molteplici attività. Con la citata locuzione s’intenderebbe, perciò, fare riferimento ad una «sorta atipica di pubblico esercizio coinvolgente vari tipi di attività», tra i quali quella di «connessione telefonica internazionale da posto fisso».

L’adozione della legge regionale n. 32 del 2007 sarebbe stata determinata dalla volontà di imporre l’adeguamento dei locali agli standard previsti per le attività commerciali. È stata, perciò, introdotta la necessità di un’autorizzazione subordinata al ricorrere di specifici presupposti, analogamente a quanto avviene per ogni altra tipologia di attività di commercio, al fine di «governare in sede amministrativa locale le forme di vita sociale occasionate dalla presenza di un servizio di interesse collettivo (…) in assenza di principi generali o criteri provenienti dal legislatore nazionale».

Quanto al divieto di esercitare, all’interno dei centri di telefonia in sede fissa, attività non accessoria a quella di telefonia, il legislatore regionale avrebbe inteso «evitare lo svolgimento di attività diverse da quella per il quale il gestore è stato autorizzato». Ciò in quanto l’autorizzazione all’apertura e all’esercizio di centri in questione non comprenderebbe l’autorizzazione all’esercizio di altre attività. Altrettanto varrebbe per l’attività di trasferimento internazionale di denaro per lo svolgimento della quale dovrebbe essere conseguita apposita autorizzazione.

Insussistente sarebbe, altresì, l’asserito contrasto delle disposizioni censurate con l’art 41 Cost. dal momento che, nel bilanciamento di interessi imposto da tale previsione, risulterebbero prevalenti la sicurezza, la libertà e dignità umana il cui rispetto potrebbe essere garantito solo mediante il controllo dei requisiti previsti per lo svolgimento di ciascuna attività economica.

Neppure vi sarebbe, inoltre, l’asserita violazione dell’art. 117 Cost. giacché il legislatore veneto avrebbe inteso disciplinare solo gli aspetti commerciali dei centri di telefonia in sede fissa.

In definitiva, la Regione Veneto rivendica non solo la propria competenza nella suddetta materia, ma anche «il ruolo istituzionale dell’ente Regione di concorrere, quale soggetto costituzionale, a perseguire nelle proprie materie gli obiettivi fondamentali di convivenza civile come delineati nei principi fondamentali della nostra Costituzione». I problemi sottesi all’introduzione della legge censurata non potrebbero essere risolti in base ad una logica di mero riparto delle competenze, assegnandone la esclusiva disciplina allo Stato. In tal modo si allontanerebbe la responsabilità del governo del territorio dai problemi locali con conseguente «accentuazione delle risposte in chiave di interventi di ordine e sicurezza pubblica anziché di preventiva organizzazione dei rapporti civili e amministrativi» attraverso l’esercizio dei compiti istituzionali degli enti locali.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale del Veneto, con le ordinanze iscritte al r.o. nn. 106 e 132 del 2009, adottate nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, nonché del combinato disposto di cui agli articoli 12, comma 4, e 2, comma 2, lettera e), della legge della Regione Veneto 30 novembre 2007, n. 32 (Regolamentazione dell’attività dei centri di telefonia in sede fissa – phone center), in riferimento agli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione.

2. – I giudizi a quibus sono stati instaurati su iniziativa di alcuni gestori di centri di telefonia in sede fissa, già attivi alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 32 del 2007, i quali hanno impugnato atti amministrativi fondati sulla censurata disciplina e destinati ad incidere, in senso ostativo, sullo svolgimento delle rispettive attività.

3. – Il rimettente censura, innanzitutto, l’art. 12 della legge regionale in oggetto, nella parte in cui prescrive l’obbligo di conseguire l’autorizzazione comunale, nel rispetto dei requisiti di cui agli articoli 3, 4 e 9 della stessa legge, anche per i titolari di centri di telefonia in sede fissa che già esercitano attività di cessione al pubblico di servizi telefonici alla data di entrata in vigore della stessa legge regionale. La censurata disposizione violerebbe l’art. 117 Cost., in relazione al riparto delle competenze di Stato e Regioni, essendo incompatibile con le scelte operate dal legislatore statale in tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di semplificazione procedimentale l’introduzione, ad opera del legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento autorizzatorio per lo svolgimento dell’attività di telefonia in sede fissa (come statuito da que sta Corte nella sentenza n. 350 del 2008).

Il rimettente censura, altresì, il combinato disposto di cui agli artt. 12, comma 4, e 2, comma 2, lettera e), della legge regionale in parola, in forza del quale è vietato, a decorrere dalla data di entrata in vigore della stessa legge regionale, lo svolgimento di attività commerciali non accessorie a quella di telefonia, tra le quali quella di trasferimento di denaro all’estero (c.d. money transfer). Il censurato combinato disposto violerebbe gli artt. 3 e 41 Cost., avendo introdotto una discriminazione idonea a tradursi in una restrizione ingiustificata al principio costituzionale di libera iniziativa economica, nonché gli artt. 3 e 97 Cost., trattandosi di disciplina irragionevolmente retroattiva idonea a frustrare le aspettative dei titolari e dei gestori dei centri di telefonia in sede fissa già attivi, di poter svolgere, e continuare a svolgere, anche altre attività e non solo le attività accessorie alla telefon ia.

4. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

5. – In via preliminare, sono da rigettare le eccezioni di inammissibilità prospettate dalla difesa regionale in entrambi i giudizi.

5.1. – Nel giudizio instaurato con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 106 del 2009, la Regione ha eccepito, innanzitutto, l’inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di costituzionalità relativa ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 12, atteso che la chiusura del centro di telefonia in sede fissa risulta essere stata disposta per la violazione del divieto di esercitare attività di trasferimento internazionale di denaro, mentre nessuna contestazione sarebbe stata mossa in ordine al mancato rispetto delle prescrizioni di cui agli altri commi dell’art. 12.

I primi tre commi del censurato art. 12 contemplano, rispettivamente, l’obbligo di richiedere la prescritta autorizzazione comunale e l’obbligo di conformarsi alle prescrizioni previste dagli artt. 4 e 9; la chiusura immediata dei centri di telefonia in sede fissa privi dei requisiti di cui all’art. 3; la ricognizione dei centri di telefonia in sede fissa con conseguente chiusura dei medesimi in caso di mancato adeguamento alle suddette prescrizioni.

Dalla narrazione dei fatti sviluppata nell’ordinanza di rinvio, si evince chiaramente che il rimettente è stato chiamato a giudicare dell’impugnazione, da parte della titolare di un centro di telefonia in sede fissa, del provvedimento con cui il Comune ha rigettato la domanda di autorizzazione presentata dalla ricorrente. Con lo stesso provvedimento, l’amministrazione comunale ha disposto la contestuale chiusura dell’attività, «in quanto all’interno dei locali destinati alla attività di telefonia viene esercitata l’attività di transfer-money – agenzia finanziaria, non considerata attività commerciale accessoria alla attività di telefonia e pertanto in contrasto con quanto previsto dall’art. 2, comma 3, e 12, comma 4, della l.r. n. 32/2007».

La circostanza, messa in evidenza dalla Regione interveniente, che il Comune di Padova abbia disposto la chiusura del centro di telefonia in sede fissa anziché irrogare la sanzione pecuniaria ivi prevista, così interpretando scorrettamente la disciplina in parola, non incide sulla rilevanza della questione, trattandosi di profilo rimesso all’apprezzamento esclusivo del giudice a quo.

5.2. – Nel medesimo giudizio instaurato con l’ordinanza r.o. n. 106 del 2009, la difesa regionale ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità della questione per carente la descrizione della fattispecie concreta in relazione alle previsioni di cui ai primi tre commi del censurato art. 12.

Anche questa eccezione è priva di fondamento.

Dall’ordinanza di rimessione emerge chiaramente che la ricorrente esercita l’attività di telefonia in sede fissa in seguito alla presentazione della dichiarazione di inizio attività al Ministero delle comunicazioni, nonché sulla base della licenza del Questore di Padova; che la stessa ricorrente ha presentato al Comune di Padova la domanda di autorizzazione prescritta dall’art. 12 in esame e che l’adìto Comune ha comunicato l’avvio del procedimento di diniego e di chiusura dell’attività in relazione all’esito di un sopralluogo, eseguito dalla Polizia municipale, nel corso del quale sarebbe stato accertato lo svolgimento, congiuntamente al servizio di telefonia, dell’attività di trasferimento internazionale di denaro; che, infine, l’istanza di autorizzazione è stata rigettata.

Poiché, dunque, il rimettente ha operato una esauriente e circostanziata descrizione della fattispecie concreta l’eccezione deve essere rigettata.

5.3. – Altrettanto non fondata è l’eccezione di inammissibilità per irrilevanza sopravvenuta della questione formulata dalla Regione Veneto nella memoria presentata in prossimità della camera di consiglio.

Tale eccezione è motivata dalla circostanza che, medio tempore, sarebbero intervenute la cessazione dell’attività imprenditoriale da parte della ricorrente e la cancellazione dal registro delle imprese della stessa.

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza costituzionale il requisito della rilevanza riguarda solo il momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato, e non anche il lasso temporale successivo alla proposizione dell’incidente di costituzionalità. Di conseguenza, i fatti sopravvenuti non sono in grado di influire sul giudizio costituzionale (cfr., tra le molte, le sentenze n. 442 del 2008 e n. 288 del 2007, nonché l’ordinanza n. 110 del 2000).

5.4. – Nel giudizio instaurato con l’ordinanza r.o. n. 132 del 2009, la difesa regionale ha eccepito l’inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di costituzionalità relativa all’art. 12, nella parte in cui prescrive ai centri di telefonia in sede fissa già esistenti il conseguimento di un’apposita autorizzazione e nella parte in cui impone ai medesimi la conformazione ai nuovi requisiti: il Comune di Conegliano non avrebbe disposto la chiusura dei centri di telefonia non in regola, e non avrebbe imposto la dismissione del servizio di trasferimento internazionale di denaro. Di conseguenza, non vi sarebbe alcuna lesione grave ed attuale per i ricorrenti nel giudizio principale.

L’eccezione non è fondata.

Il giudice a quo svolge un ampio ragionamento in relazione a tale profilo preliminare, allegando motivazioni non implausibili sul punto circa la concreta ed attuale incidenza degli atti impugnati sulle situazioni giuridiche soggettive vantate dai privati ricorrenti. Ciò è sufficiente a ritenere infondata l’eccezione dal momento che spetta al rimettente valutare «la sussistenza dei requisiti e delle condizioni dell’azione giurisdizionale a patto che gli stessi non siano ictu oculi carenti» (sentenza n. 303 del 2007. Si vedano, inoltre, tra le più recenti, le sentenze n. 94 e n. 75 del 2009; n. 370, n. 223 e n. 39 del 2008; nonché l’ordinanza n. 170 del 2009).

5.5. – Non è, infine, fondata l’eccezione di inammissibilità prospettata per carente descrizione della fattispecie concreta, atteso che il giudice a quo ha analiticamente riferito i fatti di causa.

6. – Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge regionale n. 32 del 2007 è fondata.

6.1. – L’impugnata disposizione pone a carico dei titolari dei centri di telefonia in sede fissa, i quali già esercitano attività di cessione al pubblico di servizi telefonici alla data di entrata in vigore della legge regionale in oggetto, l’obbligo di munirsi dell’autorizzazione di cui all’art. 4 della stessa legge. Questo obbligo è corredato dall’accessoria prescrizione relativa all’adeguamento ai requisiti di cui agli artt. 4, comma 3, e 9 della medesima legge regionale.

Inoltre il quarto comma del medesimo art. 12 inibisce ai centri di telefonia già attivi «dalla data di entrata in vigore della presente legge, ogni attività diversa» da quella inerente ai servizi telefonici o riferita «a servizi e prodotti strettamente connessi alla cessione al pubblico di servizi di telefonia». Nei casi oggetto dei processi a quibus rileva, in particolare, lo svolgimento di attività di intermediazione finanziaria, peraltro soggetta ad una stringente serie di apposite autorizzazioni e controlli, secondo quanto prevede la legislazione statale in materia.

In caso di svolgimento dell’attività relativa ai centri di telefonia in sede fissa «senza la prescritta autorizzazione», il successivo art. 11, comma 2, della legge n. 32 del 2007 dispone la chiusura del centro di telefonia, oltre a comminare una sanzione amministrativa pecuniaria.

La previsione da parte del legislatore veneto di una specifica autorizzazione, ulteriore rispetto alla denuncia di inizio attività di cui all’art. 25 del Codice delle comunicazioni elettroniche, accomuna la disciplina in oggetto alla normativa dettata dalla Regione Lombardia con la legge 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), dichiarata incostituzionale da questa Corte con la sentenza n. 350 del 2008.

In tale pronuncia, alla luce del principio di libertà nell’attività di fornitura dei servizi qui considerati e del principio della massima semplificazione dei procedimenti, consacrati a livello comunitario e ribaditi nella legislazione nazionale con il Codice delle comunicazioni elettroniche, questa Corte ha giudicato costituzionalmente illegittimi gli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e 12 della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006 «in quanto la introduzione, ad opera del legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento autorizzatorio per lo svolgimento dell’attività dei centri di telefonia» risulta in contrasto «con le scelte operate dal legislatore statale in tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di semplificazione procedimentale».

In quella occasione si era – tra l’altro – notato che l’eventuale esistenza di ulteriori esigenze relative a queste attività e definite dallo Stato, dalle Regioni o dagli enti locali sulla base delle loro rispettive competenze «possono solo integrare la procedura autorizzativa prevista dall’art. 25 del Codice […] o temporaneamente ad essa sommarsi in casi di emergenza» (ci si riferiva alla speciale normativa, di cui all’art. 7 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, che tuttora – ai sensi del primo comma dell’art. 3 del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 144 – prevede la necessità di una apposita licenza del Questore per il gestore di un centro telefonico).

La disposizione qui scrutinata sostanzialmente ricalca la disciplina dettata dal legislatore lombardo e dichiarata costituzionalmente illegittima con la evocata pronuncia.

In entrambe le leggi regionali, infatti, l’obbligo di autorizzazione grava anche sui titolari di centri di telefonia in sede fissa già attivi. Tra le due discipline vi è, inoltre, piena corrispondenza quanto ai profili soggettivi, ai requisiti formali e sostanziali, alla validità temporale dell’autorizzazione.

La motivazione, già addotta da questa Corte a fondamento della declaratoria di illegittimità costituzionale della omologa disposizione legislativa lombarda, vale anche nell’odierno giudizio di legittimità costituzionale.

Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione dei criteri di riparto delle competenze di cui all’art. 117 della Costituzione, dell’art. 12 della legge regionale n. 32 del 2007.

7. – Con la sentenza n. 350 del 2008, questa Corte non si è limitata a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle sole previsioni relative all’autorizzazione comunale.

Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’intera legge regionale n. 6 del 2006: «invero, l’assetto normativo concepito dal legislatore lombardo s’irradia dalle suddette disposizioni che configurano l’autorizzazione ivi prevista quale nucleo essenziale del prescelto regime amministrativo. Tutti gli altri articoli della legge regionale censurata risultano avvinti da un inscindibile rapporto strumentale alle disposizioni dichiarate incostituzionali».

Anche la disciplina adottata dal legislatore veneto in tema di centri di telefonia in sede fissa si sviluppa a partire dalla previsione dell’autorizzazione comunale quale nucleo essenziale dell’intero impianto normativo.

La fissazione di requisiti morali e igienico-sanitari, l’introduzione di un registro dei centri di telefonia in sede fissa, la disciplina degli orari e delle modalità di esercizio, le prescrizioni urbanistiche (già dichiarate costituzionalmente illegittime da questa Corte con la sentenza n. 25 del 2009), la configurazione di misure interdittive, i meccanismi di vigilanza, la previsione di sanzioni e, da ultimo, la definizione di un apposito regime transitorio, sono tutti elementi rinvenibili (con solo marginali differenze) in entrambe le leggi regionali in parola, che operano in via accessoria e strumentale rispetto al fulcro dell’intera disciplina, vale a dire il regime autorizzatorio cui è subordinato lo svolgimento dell’attività di telefonia in sede fissa.

Per questo motivo, le ragioni che a suo tempo indussero questa Corte a caducare l’intero testo della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006, debbono essere confermate e ribadite nel presente giudizio, con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni vigenti della legge della Regione Veneto n. 32 del 2007, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge della Regione Veneto 30 novembre 2007, n. 32 (Regolamentazione dell’attività dei centri di telefonia in sede fissa – phone center);

b) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni della legge della Regione Veneto n. 32 del 2007.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 70

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 116, della legge della Regione Abruzzo 21 novembre 2008, n. 16 (Provvedimenti urgenti e indifferibili) promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 26-29 gennaio 2009, depositato in cancelleria il 3 febbraio 2009 ed iscritto al n. 8 del registro ricorsi 2009.

Udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

udito l’avvocato dello Stato Enrico Arena per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 81 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 116, della legge della Regione Abruzzo 21 novembre 2008, n. 16 (Provvedimenti urgenti e indifferibili).

Il ricorrente premette che la norma impugnata dispone che «L’art. 1, comma 1 della legge regionale 17 agosto 2006 n. 28 “Trattamento economico del personale trasferito alle Province” è così modificato: dopo le parole “è corrisposto, dagli enti di appartenenza”, le parole “un assegno ad personam riassorbibile” sono sostituite con le parole “un assegno ad personam non riassorbibile”».

Secondo l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Abruzzo 17 agosto 2006, n. 28 (Norme in tema di trattamento economico del personale trasferito alle Province), nel testo precedente alla modifica introdotta dall’art. 1, comma 116, della legge reg. n. 16 del 2008, «Al personale regionale transitato nei ruoli delle amministrazioni provinciali in attuazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli Enti Locali, in attuazione del Capo I della Legge 15 marzo 1997, n. 59) e delle LL.RR. 12 agosto 1998, n. 72 (Organizzazione dell’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale) e 3 marzo 1999, n. 11 (Attuazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112: Individuazione delle funzioni amministrative che richiedono l’unitario esercizio a livello regionale e conferimento di funzioni e compiti amministrativi agli Enti Locali ed alle Autonomie funzionali), è corrispo sto, dagli Enti di appartenenza, un assegno ad personam riassorbibile pari alla differenza del trattamento economico retributivo complessivo riferito all’esercizio 2004, al netto di missioni, straordinario ed eventuali emolumenti non appartenenti alla voce “retribuzione”, goduto presso l’amministrazione regionale e quello percepito presso l’amministrazione provinciale con decorrenza dall’esercizio 2005».

Ad avviso della difesa erariale, il comma 116 dell’art. 1 della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2008, accordando al personale regionale il vantaggio della non riassorbibilità dell’assegno personale, contrasterebbe con i principi di uguaglianza, di imparzialità, di buon andamento della pubblica amministrazione e di copertura delle spese, previsti dagli artt. 3, 97 e 81 della Costituzione.

In particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che il trasferimento di un dipendente da un ente pubblico ad un altro costituisce di per sé una misura di favore per il lavoratore, poiché evita che egli rimanga privo di occupazione, a causa del trasferimento delle competenze e della conseguente soppressione dei posti di lavoro da parte dell’ente di provenienza. Inoltre, aggiunge il ricorrente, il principio di carattere generale vigente nel pubblico impiego, per il quale ogni riforma, trasformazione o ristrutturazione deve far salvo il trattamento economico raggiunto dai dipendenti al momento della sua entrata in vigore, è stato costantemente attuato mediante la corresponsione di un assegno personale riassorbibile con la successiva progressione di carriera. Pertanto, in presenza di un trasferimento per il quale è già prevista la salvaguardia del trattamento economico, mediante l’assegno personale attribuito dall’art. 1 della legge reg. Abruzzo n. 28 del 2006 il riconoscimento a favore di una sola categoria dipendenti (quelli della Regione Abruzzo transitati alle Province) del permanente vantaggio economico dell’assegno personale non riassorbibile con i futuri miglioramenti costituirebbe una disparità di trattamento priva di razionale giustificazione, con conseguente violazione dell’art. 3 della Costituzione.

Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, poi, l’art. 1, comma 116, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2008 risulta contrario al principio di buona amministrazione enunciato dall’art. 97 Cost., perché con esso il legislatore regionale è intervenuto retroattivamente su un provvedimento legislativo (la legge regionale n. 28 del 2006) che disciplinava una fattispecie concreta per un arco temporale ben definito ed aveva già prodotto ed esaurito i suoi effetti.

Infine, secondo il ricorrente, sussisterebbe anche contrasto con l’art. 81, quarto comma, Cost., poiché la norma impugnata non indica i mezzi con cui fare fronte alle maggiori spese che essa comporta.

2. – Ritualmente notificato il ricorso, la Regione Abruzzo non si è costituita.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 81 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 116, della legge della Regione Abruzzo 21 novembre 2008, n. 16 (Provvedimenti urgenti e indifferibili).

La disposizione censurata modifica una precedente norma e, precisamente, l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Abruzzo 17 agosto 2006, n. 28 (Norme in tema di trattamento economico del personale trasferito alle Province), che disciplina il trattamento economico spettante ai dipendenti regionali transitati alle dipendenze delle Province a seguito della delega a queste ultime di funzioni amministrative precedentemente svolte dalla Regione. La norma prevede che, nel caso in cui al lavoratore trasferito alla Provincia spetti un trattamento retributivo inferiore rispetto a quello goduto quando era alle dipendenze della Regione, al lavoratore stesso deve essere attribuito un assegno personale pari alla differenza tra i due trattamenti economici. Nel suo testo originario, l’art. 1, comma 1, della legge reg. n. 28 del 2006 prevedeva che tale assegno fosse riassorbibile. La norma oggetto della presente questione ha modificato la disposizione del 200 6, stabilendo che l’assegno, erogato ai dipendenti aventi diritto con decorrenza dal 2005, non sia riassorbibile.

Ad avviso del ricorrente, l’art. 1, comma 116, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2008 violerebbe l’art. 3 Cost., perché sarebbe fonte di una disparità di trattamento priva di razionale giustificazione rispetto agli altri dipendenti pubblici, per i quali vale il principio generale secondo cui l’assegno personale erogato in casi analoghi è riassorbibile. La norma impugnata violerebbe, poi, l’art. 81, quarto comma, Cost., poiché non indica i mezzi con i quali far fronte alle maggiori spese che essa comporta, nonché l’art. 97 Cost., perché, intervenendo retroattivamente su un provvedimento legislativo che disciplinava una fattispecie concreta per un arco temporale ben definito ed aveva già prodotto ed esaurito i suoi effetti, lederebbe il principio di buon andamento dell’amministrazione.

2. – La questione, sollevata in riferimento all’art. 81, quarto comma, Cost., è fondata.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che, in virtù della predetta norma costituzionale, le leggi istitutive di nuove spese debbono recare un’esplicita indicazione del relativo mezzo di copertura e che a tale obbligo non sfuggono le disposizioni regionali (sentenze n. 213 del 2008 e n. 359 del 2007).

Orbene, la norma oggetto della presente questione è sicuramente fonte di aumento della spesa complessiva per il personale degli enti provinciali, perché qualsiasi incremento retributivo, invece di determinare una corrispondente diminuzione dell’assegno personale, si aggiunge integralmente all’assegno medesimo, il quale resta fisso nel suo ammontare originario.

Il legislatore regionale, pertanto, avrebbe dovuto quantificare l’aggravio di spesa derivante dalla disposizione legislativa e provvedere specificamente alla sua copertura, cosa che esso non ha fatto.

In particolare, tale onere non può considerarsi assolto dalle sole due disposizioni in tema di copertura finanziaria rinvenibili nella legge reg. Abruzzo n. 16 del 2008 e, cioè, dall’art. 1, commi 119 e 120.

Invero, il primo stabilisce che «Agli oneri derivanti dall’applicazione della presente legge si provvede mediante gli stanziamenti iscritti sui pertinenti capitoli di spesa del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008». Si tratta di una disposizione generica che non contiene una puntuale e specifica determinazione dell’onere finanziario derivante dal precedente comma 116, onde non è possibile verificare l’idoneità degli stanziamenti già iscritti nel bilancio 2008 a far fronte a quell’onere.

Il secondo dispone che allo stato di previsione della spesa di cui alla legge di bilancio per l’esercizio finanziario 2008 sono apportate le variazioni in termini di competenza e di cassa elencate nell’Allegato 2 alla stessa legge n. 16 del 2008. Tale Allegato non contiene alcuna voce alla quale possa essere ricondotta la spesa relativa all’assegno personale spettante ai dipendenti regionali trasferiti alle Province.

Va quindi dichiarata l’illegittimità della norma impugnata per violazione dell’art. 81, quarto comma, della Costituzione.

3. – Le questioni sollevate in riferimento gli artt. 3 e 97 Cost. restano assorbite.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 116, della legge della Regione Abruzzo 21 novembre 2008, n. 16 (Provvedimenti urgenti e indifferibili).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 71

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), promosso dal Tribunale di Torino nel procedimento vertente tra C.M. e l’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 31 ottobre 2008, iscritta al n. 13 del registro ordinanze 2009, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione di C.M. e dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 12 gennaio 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

uditi gli avvocati G. Sante Assennato per C.M. e A.R. per l’INPS e l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Torino, nel corso di un procedimento volto al riconoscimento della contribuzione figurativa relativa a due periodi di congedo obbligatorio per maternità avvenuti fuori del rapporto di lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 31 ottobre 2008, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), per violazione degli artt. 3, 31 e 37 della Costituzione.

In punto di fatto il rimettente riferisce che la ricorrente nel giudizio principale chiede la condanna dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) al ricalcolo della pensione di vecchiaia di cui è titolare dal 1° luglio 1995, tenendo conto dei periodi sopra indicati, verificatisi nel 1961 e nel 1966, e utilizzabili, ai sensi dell’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 26 marzo 200l, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nei termini della contribuzione figurativa.

Il Tribunale osserva che l’art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 151 del 2001, come anteriormente interpretato, consentiva il riconoscimento della contribuzione in esame a chi era iscritto al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti.

In particolare, la nozione di «iscritti» contenuta nel citato art. 25, comma 2, era interpretata dalla giurisprudenza di legittimità e contabile, nonché dalla circolare n. 102 del 31 maggio 2002 emessa dall’INPS, in senso atecnico e diretta a ricomprendere tutte quelle persone la cui posizione contributiva era gestita da un ente previdenziale, essendo irrilevante la circostanza che al momento della domanda di riconoscimento della contribuzione figurativa l’iscritto fosse in servizio o già pensionato.

Da ciò sarebbe conseguito, a parere del rimettente, l’accoglimento della domanda proposta dalla ricorrente.

Il Tribunale rileva, però, che l’intervenuto art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, ha stabilito che gli articoli 25 e 35 del decreto legislativo n. 151 del 2001 si applicano solo nei confronti degli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo.

Tale mutamento del quadro normativo, a parere del rimettente, comporta il rigetto della domanda proposta dalla ricorrente, in quanto quest’ultima, al momento dell’entrata in vigore del decreto n. 151 del 2001 non era né in servizio, in quanto pensionata dal 1° luglio 1995, né destinataria di trattamento più favorevole rispetto a quello derivante dalla novella e da essa fatto salvo.

Il Tribunale rileva che la disposizione censurata, nel mutare l’uniforme interpretazione dell’art. 25, non può essere considerata norma interpretativa, ma innovativa con efficacia retroattiva, che fa dipendere l’accredito figurativo da una circostanza fortunosa e del tutto casuale e cioè dal fatto che il richiedente sia in servizio in un determinato giorno.

Il giudice a quo ritiene, pertanto, che l’art. 2, comma 504, della legge n. 244 del 2007 si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, il quale limita e circoscrive le condizioni di ammissibilità della legge interpretativa, inibendone l’utilizzo ove la nuova norma, da un lato, non possa in alcun modo essere ricondotta nell’ambito dei possibili significati della disposizione interpretata e, dall’altro, si appalesi decisamente irrazionale, per l’innovazione introdotta surrettiziamente.

Altresì violati sarebbero, sempre secondo il rimettente, gli artt. 31 e 37 della Costituzione, che impongono al legislatore di tutelare con misure adeguate la maternità e, in particolare, la donna lavoratrice.

2. – Si è costituita la ricorrente nel giudizio principale chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o, nel merito, fondata la questione sollevata dal Tribunale di Torino.

In via preliminare, la parte privata rileva che il rimettente non ha esplorato la possibilità di giungere ad una interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata, ritenendola, in ragione del suo carattere innovativo, applicabile solo per il futuro.

In via subordinata, la ricorrente nel giudizio a quo osserva che, qualora la norma dovesse intendersi meramente interpretativa, sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 31 e 37 della Costituzione per gli stessi motivi esposti dal rimettente.

3. – Si è costituito in giudizio l’INPS chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata infondata.

Quanto alla presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, l’Istituto di previdenza rileva che la norma censurata si limita ad attribuire uno dei possibili significati alla norma interpretata e, quindi, non ha alcun valore innovativo con effetto retroattivo, peraltro precluso alle sole norme in materia penale.

La difesa dell’INPS osserva che è errata la premessa argomentativa da cui muove il rimettente.

La disposizione censurata, infatti, non sarebbe intervenuta in presenza di un consolidato indirizzo interpretativo, in quanto le sentenze della Corte di cassazione richiamate nell’ordinanza di rimessione sarebbero inconferenti, mentre quella della Corte dei conti proverebbe l’esistenza di diverse letture del termine «iscritti» contenuto nell’art. 25 del d.lgs. n. 151 del 2001, così come ulteriormente confermato dalla circolare n. 8 del 28 febbraio 2003 dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP).

L’INPS osserva, infine, che il rimettente ha affermato la presunta irragionevolezza della norma censurata in modo apodittico, comportando essa l’individuazione delle possibili destinatarie del beneficio dell’accredito figurativo sulla base di un elemento del tutto accidentale e cioè dell’essere state in servizio il giorno dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001.

Quanto alla presunta violazione degli artt. 31 e 37 della Costituzione, l’INPS rileva che rientra nella discrezionalità del legislatore individuare i limiti di tutela della lavoratrice madre, dovendo quest’ultimo contemperare tale esigenza di tutela con gli altri interessi costituzionali coinvolti, tra i quali l’equilibrio della spesa pubblica.

4. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari la questione infondata.

La difesa erariale osserva che la disposizione censurata si limita ad attribuire all’art. 25 del d.lgs. n. 151 del 2001 una delle sue possibili letture, dissipando in tal modo i dubbi ermeneutici che erano sorti in ordine alla sua applicazione, non essendo essa, diversamente da quanto sostenuto dal rimettente, oggetto di un univoco indirizzo interpretativo.

L’Avvocatura ritiene, pertanto, che la norma censurata non contrasti con il principio di ragionevolezza e di affidamento, assumendo a tal fine rilievo la circostanza che questa fa salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data della sua entrata in vigore.

Per quanto attiene alla presunta violazione degli artt. 31 e 37 della Costituzione, la difesa erariale osserva che la norma censurata non ha eliminato la contribuzione figurativa, ma si è limitata a regolarne alcuni aspetti afferenti alla sua disciplina, risultando in tal modo espressione della discrezionalità del legislatore nella conformazione dei diversi istituti posti a tutela della maternità.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008) nella parte in cui, nell’interpretare l’art. 25 del decreto legislativo 26 marzo 200l, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), prevede che «Le disposizioni degli articoli 25 e 35 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, si applicano agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo […]».

2. – La questione non è fondata.

E’ necessario procedere alla ricostruzione del quadro normativo.

2.1 – I contributi figurativi sono riconosciuti all’assicurato per i periodi nei quali non è stata svolta attività lavorativa e, quindi, non sono stati effettuati versamenti di contributi obbligatori. I periodi di contribuzione figurativa sono computati ai fini del calcolo del diritto alla pensione e del relativo importo.

Per l’accreditamento dei contributi figurativi sono riconosciuti, tra gli altri, i periodi di gravidanza e puerperio.

In particolare, l’art. 14, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 593 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), al fine di apprestare un’adeguata tutela alle lavoratrici madri, ha riconosciuto l’accredito del contributo figurativo per i periodi di maternità obbligatoria ricadenti fuori dal rapporto di lavoro, ma dopo il 1° gennaio 1994.

Il d.lgs. n. 151 del 2001, da un lato, ha abrogato l’art. 14, riconoscendo il suddetto beneficio indipendentemente dalla collocazione temporale del periodo di maternità (art. 86); dall’altro, ha previsto che «In favore dei soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, i periodi corrispondenti al congedo di maternità di cui agli articoli 16 e 17, verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, sono considerati utili ai fini pensionistici, a condizione che il soggetto possa far valere, all’atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro […]» (art. 25, comma 2).

2.2 – Il dubbio di costituzionalità avanzato dal Tribunale di Torino presuppone l’esistenza, prima dell’intervento della norma oggetto di censura, di un’univoca interpretazione, da parte della giurisprudenza e della prassi amministrativa, del termine «iscritti» contenuto nell’art. 25 del d.lgs. n. 151 del 2001, secondo la quale tale termine era riferito sia ai soggetti in attività sia a quelli già pensionati.

Sulla base di ciò il rimettente ritiene che la norma censurata, laddove stabilisce che la contribuzione figurativa prevista dall’art. 25 è riconosciuta solo agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001, non può essere considerata meramente interpretativa, ma pone una nuova disciplina con carattere retroattivo in contrasto con il principio di ragionevolezza, nonché con gli artt. 31 e 37 della Costituzione.

2.3 – Tale costruzione si fonda su presupposti errati.

Le sentenze della Corte di cassazione (n. 22244 del 2004, n. 18273 del 2005, n. 15081 del 2008), richiamate nell’ordinanza di rimessione, affrontano aspetti del tutto differenti da quello oggetto del presente giudizio. Le indicate pronunce affermano, infatti, che il beneficio dell’accredito figurativo per maternità, previsto dall’art. 25 del d.lgs. n. 151 del 2001, spetta anche in relazione agli eventi antecedenti al 1° gennaio 1994, essendo venuta meno la limitazione temporale disposta dall’art. 14 del d.lgs. n. 503 del 1992 abrogato dall'art. 86 del d.lgs. n. 151 del 2001).

La sentenza della Corte dei conti n. 7 del 2006, riportata dal giudice a quo, seppure pertinente al dubbio di costituzionalità sollevato, prova, in ragione della forma con la quale è stata adottata (Sezioni Riunite – in sede giurisdizionale), l’esistenza di diversi orientamenti interpretativi riferiti alla nozione di «iscritti» contenuta nell’art. 25 del d.lgs. n. 151 del 2001.

Ciò è confermato anche dalla prassi amministrativa: con la circolare n. 102 del 31 maggio 2002, richiamata dal Tribunale, l’INPS ha stabilito che, al fine del riconoscimento della contribuzione figurativa, è indifferente la circostanza se il richiedente al momento della presentazione della domanda svolga, o meno, attività lavorativa. A questa interpretazione si contrappone quella dell’INPDAP che, con la circolare n. 8 del 28 febbraio 2003, ha concesso il beneficio indicato a condizione che il richiedente fosse iscritto attivo e, quindi, prestasse servizio al momento della domanda.

In tale ultimo senso si è successivamente espresso anche l’INPS, con la circolare n. 100 del 14 novembre 2008.

2.4 – Ricostruito in tal modo il quadro applicativo dell’art. 25 del d.lgs. n. 151 del 2001, risulta che la norma censurata non si pone in contrasto con l’indicato art. 3 della Costituzione, in quanto essa ha natura interpretativa e non innovativa, atteso che la sua portata precettiva è compatibile, come dimostrato dai contrasti interpretativi sopra descritti, rispetto alla sopra indicata disciplina previgente.

Questa Corte ha costantemente affermato nella sua giurisprudenza il principio secondo cui «Il legislatore può emanare norme che precisino il significato di preesistenti disposizioni anche se non siano insorti contrasti giurisprudenziali, ma sussista comunque una situazione di incertezza nella loro applicazione, essendo sufficiente che la scelta imposta rientri tra le possibili varianti di senso del testo interpretato e sia compatibile con la sua formulazione» (sentenza n. 170 del 2008).

2.5 – La norma censurata non contrasta, poi, con gli artt. 31 e 37 della Costituzione, in quanto non incide sull’an del diritto alla pensione, ma solo marginalmente sul quantum; laddove il mancato aumento del trattamento previdenziale goduto da chi, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001, già era in pensione, non vale a far considerare tale emolumento insufficiente ai fini della tutela imposta dalle norme costituzionali indicate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), sollevata dal Tribunale di Torino, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 72

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito del decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano, prot. n. H1/2008/Gab, del 25 settembre 2008, recante: «tabella dei giochi proibiti ai sensi dell’art. 110 del T.U.L.P.S. - RD 18 giugno 1931, n. 773», promosso dalla Provincia autonoma di Bolzano con ricorso notificato il 13 novembre 2008, depositato in cancelleria il 21 novembre 2008 ed iscritto al n. 22 del registro conflitti tra enti dell’anno 2008.

Udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano.

Ritenuto in fatto

1.- Con ricorso, notificato il 13 novembre 2008, depositato il successivo 21 novembre, la Provincia autonoma di Bolzano ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano (prot. n. H1/2008/Gab) del 25 settembre 2008, recante «tabella dei giochi proibiti ai sensi dell’art. 110 del T.U.L.P.S. - R.D. 18 giugno 1931, n. 773», trasmesso al Presidente della Provincia autonoma di Bolzano con nota prot. Mass. H1/2008/Gab. del 26 settembre 2008.

La ricorrente premette che, con nota del 26 settembre 2008, la Questura di Bolzano trasmetteva al Presidente della predetta Provincia la tabella contenente l’elenco dei giochi proibiti, unitamente al testo integrale del decreto del 25 settembre 2008 con cui la stessa era stata approvata, chiedendone l’esposizione, previa vidimazione da parte dell’autorità competente al rilascio della licenza, in tutte le sale da biliardo o da gioco e negli altri pubblici esercizi, compresi i circoli privati autorizzati alla pratica del gioco o all’installazione di apparecchi da gioco ubicati nei singoli comuni. Con lo stesso provvedimento venivano altresì disciplinati l’installazione e l’uso degli apparecchi da gioco automatici, semiautomatici ed elettronici.

Con il predetto atto, il Questore avrebbe operato una illegittima invasione delle competenze provinciali in materia di «esercizi pubblici» e di «spettacoli pubblici» di cui agli artt. 9, primo comma, numeri 6 e 7, e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e di tutte quelle attribuzioni già spettanti all’autorità di pubblica sicurezza, ma assegnate al Presidente della Provincia dall’art. 20 del medesimo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione. Il citato atto sarebbe lesivo, oltre che delle richiamate norme statutarie e dell’art. 107 dello stesso statuto, anche delle norme di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1973, n. 686 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernente esercizi pubblici e spettacoli pu bblici), ed al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), nonché in violazione degli artt. 6, 97 e 117 Cost. e dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

Sulla base delle richiamate disposizioni, l’ordinamento individuerebbe nel Presidente della Provincia il titolare di poteri di pubblica sicurezza nelle materie di competenza provinciale, qualificando in via meramente residuale i poteri di pubblica sicurezza spettanti agli organi statali. Alla Provincia di Bolzano sarebbero attribuite competenze più ampie di quelle riconosciute alle Regioni ad autonomia ordinaria, non essendo possibile individuare nelle materie di competenza provinciale una netta separazione tra i compiti di polizia amministrativa locale e gli interventi a tutela della pubblica sicurezza.

La ricorrente ricorda, altresì, che, con la legge della Provincia autonoma di Bolzano 14 dicembre 1988, n. 58 (Norme in materia di esercizi pubblici), è stato ulteriormente chiarito (art. 11) che «nei pubblici esercizi possono essere tenuti e praticati i giuochi non vietati con decreto del presidente della giunta provinciale» ed analoga disposizione è enunciata dalla legge provinciale 13 maggio 1992, n. 13 (Norme in materia di pubblico spettacolo), che, all’art. 9, comma 1, lettera d), ha ribadito ancora una volta la competenza del Presidente della Provincia in merito alla individuazione dei giochi vietati.

Dal combinato disposto delle norme suindicate emergerebbe, dunque, inequivocabilmente che compete solo al Presidente della Provincia di Bolzano determinare quali giochi debbano essere vietati negli esercizi pubblici e di quali apparecchi da gioco siano vietati l’installazione ed il funzionamento, tenuto anche conto del fatto che le tabelle dei giochi proibiti hanno un carattere fortemente locale e circoscritto e non possono essere ricondotti a “ragioni di unitarietà” o “ragioni di uniformità” per tutto il territorio nazionale.

La Provincia sostiene, altresì, che l’adozione del provvedimento impugnato da parte del Questore costituisce espressione di poteri di polizia la cui rilevanza si esaurisce all’interno delle attribuzioni provinciali dirette ad amministrare la materia degli «spettacoli pubblici per quanto attiene alla sicurezza» e degli «esercizi pubblici», come ampiamente delimitata dalle richiamate norme statutarie e di attuazione statutaria, senza involgere quegli interessi ulteriori che è compito dello Stato curare attraverso la protezione dell’ordine pubblico.

Pertanto, la ricorrente chiede a questa Corte di dichiarare che non spetta allo Stato, e per esso al Questore della Provincia di Bolzano, stabilire con proprio decreto l’elenco dei giochi proibiti ed approvare la relativa tabella da esporre nei pubblici esercizi, nonché disciplinare l’installazione e l’uso degli apparecchi da gioco, e, per l’effetto, annullare il decreto del 25 settembre 2008 nella sua interezza.

3.- Non ha svolto attività difensiva il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.- La Provincia autonoma di Bolzano assume che il decreto del Questore della medesima Provincia del 25 settembre 2008, recante la «tabella dei giochi proibiti ai sensi dell’art. 110 del T.U.L.P.S.» e la disciplina dell’installazione e dell’uso degli apparecchi da gioco violerebbe gli articoli 9, primo comma, numeri 6 e 7, 16 e 20 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché l’art. 107 dello stesso statuto e le relative norme di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1973, n. 686 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernente esercizi pubblici e spettacoli pubblici), ed al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti l egislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), oltre agli artt. 6, 97 e 117 Cost. ed all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

L’atto sarebbe, infatti, lesivo delle competenze provinciali in materia di «esercizi pubblici» e «spettacoli pubblici per quanto attiene alla pubblica sicurezza» assegnate dalle predette norme, comprensive anche delle attribuzioni inerenti a detta materia e concernenti la pubblica sicurezza.

A sostegno di tale assunto la Provincia ricorda che lo statuto, agli artt. 9, primo comma, nn. 6) e 7), e 16, ha devoluto alle Province autonome la competenza legislativa concorrente – e la corrispondente competenza amministrativa – in materia di «spettacoli pubblici per quanto attiene alla pubblica sicurezza» ed «esercizi pubblici». Nelle medesime materie, peraltro, il Presidente della Provincia esercita «le attribuzioni spettanti all’autorità di pubblica sicurezza» (art. 20, primo comma, dello statuto).

Spetterebbe, dunque, alla Provincia, e per essa al suo Presidente, stabilire l’elenco dei giochi proibiti ed approvare la relativa tabella da esporre nei pubblici esercizi, nonché disciplinare l’installazione e l’uso degli apparecchi da gioco nei medesimi esercizi pubblici.

2.- Il ricorso non è fondato.

Il decreto impugnato è stato adottato in attuazione dell’art. 110 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), il quale attribuisce al Questore il compito di predisporre ed approvare la tabella dei giochi vietati, vidimata dalle autorità competenti al rilascio della licenza, e disciplina le modalità di installazione ed uso dei giochi leciti. Più precisamente, la suddetta norma: (1) definisce la nozione di apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici d’azzardo e quella di apparecchi e congegni idonei per il gioco lecito; (2) vieta i primi e consente i secondi; (3) detta le sanzioni per le violazioni della disciplina relativa ai primi; (4) stabilisce le prescrizioni che limitano l’utilizzo dei secondi (divieto di utilizzo per i minorenni, tipologia dei luoghi ove essi possono essere installati, necessità di un limite massimo del loro numer o in relazione alle dimensioni, all’ubicazione ed alla natura dell’attività del locale che li ospita, ecc.).

Questa Corte ha già riconosciuto che «tutte queste prescrizioni attengono chiaramente alla materia dell’ordine pubblico e sicurezza non compresa nell’articolo 9 dello Statuto e che l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato» (sentenza n. 237 del 2006). In tale materia «rientra non soltanto la disciplina dei giochi d’azzardo, ma, inevitabilmente, anche quella relativa ai giochi che (…) non sono ritenuti giochi d’azzardo (si tratta delle ipotesi di cui al comma 6 dell’art. 110 TULPS)» (sentenza n. 237 del 2006), considerati i caratteri comuni dei giochi – aleatorietà e possibilità di vincite in denaro – cui si riconnette un disvalore sociale, la conseguente forte capacità di attrazione e concentrazione di utenti e la probabilità altrettanto elevata di usi illegali degli apparecchi impiegati per lo svolgimento degli ste ssi anche nel caso dei giochi leciti. Rispetto alle finalità di tutela dell’interesse pubblico ad una regolare e civile convivenza perseguite dal legislatore statale, il luogo o il locale in cui si sono realizzati certi comportamenti (installazione ed uso di apparecchi da gioco) è solo un elemento fattuale che non può spostare l’ordine delle competenze.

D’altra parte, questa Corte ha più volte affermato che le Province autonome non sono titolari di competenza propria nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza, nella materia cioè relativa «alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico», inteso quest’ultimo quale «complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale», stante la riserva esclusiva allo Stato dei provvedimenti non riconducibili alla polizia amministrativa (sentenza n. 129 del 2009). Alla Provincia autonoma di Bolzano ed al suo Presidente sono, pertanto, attribuiti, in relazione alle materie di propria spettanza, solo compiti di polizia amministrativa, sempre che la loro rilevanza si esaurisca all’interno delle attribuzioni regionali dirette a disciplinare le richiamate materie, senza toccare quegli interessi di fondamen tale importanza per l’ordinamento che è compito dello Stato curare attraverso la tutela dell’ordine pubblico.

Su queste basi, risulta evidente che il provvedimento impugnato non ha determinato alcuna lesione delle attribuzioni provinciali e non è riconducibile ai poteri di polizia assegnati al Presidente della Provincia in materia di esercizi pubblici, posto che l’individuazione dei giochi proibiti e la disciplina di quelli leciti risponde ad esclusive esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. La circostanza che l’osservanza di tali prescrizioni sia imposta nei locali destinati ad ospitare pubblici esercizi non vale, infatti, a sottrarre la disciplina in questione alla materia riservata alla potestà legislativa statale, essendo il predetto provvedimento estraneo alle finalità che contraddistinguono la disciplina degli esercizi pubblici.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che spettava allo Stato, e per esso al Questore della Provincia autonoma di Bolzano, stabilire con proprio decreto (prot. n. H1/2008/Gab) del 25 settembre 2008, trasmesso al Presidente della Provincia di Bolzano con nota prot. Mass. H1/2008/Gab. del 25 settembre 2008, la «tabella dei giochi proibiti ai sensi dell’art. 110 del T.U.L.P.S. - R.D. 18 giugno 1931, n. 773», da esporre nei pubblici esercizi, nonché disciplinare l’installazione e l’uso degli apparecchi da gioco automatici, semiautomatici ed elettronici.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 73

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale promosso dal Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, nel procedimento penale a carico di C. A. con ordinanza del 21 gennaio 2009, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza dibattimentale emessa il 21 gennaio 2009 in un processo per lesioni personali aggravate e continuate, il Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, ha sollevato, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione – consente al giudice di disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche quando si tratti di prove dalle quali le parti sono decadute per mancato o irrituale deposito della lista prevista dall’art. 468 cod. proc. pen. e, a seguito di tale decadenza, non vi sia stata alcuna acquisizione probatoria.

Il giudice rimettente riferisce che la richiesta di prova testimoniale del pubblico ministero era stata dichiarata inammissibile, a causa del tardivo deposito di detta lista. La parte pubblica aveva quindi chiesto che la prova fosse ammessa ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. – in forza del quale, «terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prove» – senza peraltro indicare né le ragioni del mancato tempestivo deposito della lista né quelle della assoluta necessità di assunzione delle testimonianze. All’istanza si era opposta la difesa, eccependo l’illegittimità costituzionale della norma ora citata per violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost.

Al riguardo, lo stesso rimettente ricorda preliminarmente come in ordine all’interpretazione dell’art. 507 cod. proc. pen. sia prevalso, dopo iniziali oscillazioni giurisprudenziali, l’orientamento meno restrittivo, fatto proprio dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 6 novembre 1992-21 novembre 1992, n. 11227, secondo il quale il potere previsto dalla norma censurata può essere esercitato dal giudice anche in rapporto a prove dalle quali le parti siano decadute (in particolare, per omessa o irrituale presentazione della lista di cui all’art. 468 cod. proc. pen.): dovendo intendersi per prove «nuove» tutte quelle non assunte in precedenza, e non già soltanto quelle sopravvenute o scoperte nel corso del dibattimento. Né, d’altro canto – sempre secondo le sezioni unite – assumerebbe valenza ostativa la circostanza che sia mancata qualsiasi acquisizione probatoria ad iniziativa delle parti: la locuzione «terminata l’acquisizione delle prove» non indicherebbe, infatti, il presupposto per l’esercizio del potere in questione, ma solo il tempo dell’istruzione dibattimentale a partire dalla conclusione del quale – nell’ipotesi normale in cui detta acquisizione vi sia stata – possono essere introdotte e assunte le nuove prove.

L’interpretazione ora ricordata – prosegue il rimettente – è stata avallata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 1993, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 cod. proc. pen. (oltre che dell’art. 468 dello stesso codice), in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 76, 77, 101, 102, 111 e 112 Cost.

Nell’occasione, la Corte ha osservato che, se è vero che l’esigenza di accentuare la terzietà del giudice ha condotto ad introdurre nel nuovo codice di rito un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse, è altrettanto vero, tuttavia, che tale opzione non poteva far trascurare che fine primario del processo penale è pur sempre quello della ricerca della verità e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.) – che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate – nonché al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale, non sono consone norme processuali che ostacolino in modo irragionevole l’accertamento del fatto storico, necessario per pervenire ad un a giusta decisione. Risulterebbe del resto contraddittorio, da un lato, garantire l’effettiva obbligatorietà dell’azione penale contro le negligenze e le deliberate inerzie del pubblico ministero, conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che questi formuli l’imputazione (art. 409, comma 5, cod. proc. pen.), e, dall’altro lato, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della medesima parte pubblica. Sicché, in conclusione, una interpretazione dell’art. 507 cod. proc. pen. diversa da quella adottata dalle sezioni unite della Corte di cassazione si sarebbe posta in contrasto non soltanto con la direttiva recata dall’art. 2, numero 73, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), ma anche con i richiamati precetti costituzionali.

Il dibattito, mai del tutto sopito, sulla corretta esegesi della norma censurata – continua il giudice a quo – è tornato, peraltro, «di attualità» a fronte del nuovo testo dell’art. 111 Cost. introdotto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, il quale, nei commi primo e secondo, stabilisce che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» e che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale».

Le sezioni unite della Corte di cassazione sono state, quindi, nuovamente chiamate a dirimere il contrasto insorto – sia pur «episodicamente» – nell’ambito delle sezioni semplici, in ordine alla possibilità di esercizio dei poteri probatori di natura officiosa del giudice nei casi di inerzia delle parti. Con la sentenza 17 ottobre 2006-18 dicembre 2006, n. 41281, dette sezioni unite hanno peraltro escluso che sull’assetto codicistico abbia influito la riforma dell’art. 111 Cost.: la quale avrebbe accentuato, bensì, il principio fondante del processo accusatorio – la formazione della prova nel contraddittorio delle parti – ma senza innovare quanto al principio dispositivo, che, pur ispirando i sistemi accusatori, non li caratterizza in modo altrettanto «decisivo». Secondo la Corte di cassazione, d’altronde, il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. – esercitabile solo in caso di «ass oluta necessità» – non rappresenterebbe un residuo del modello inquisitorio, ma varrebbe piuttosto ad assicurare un processo veramente «giusto», posto che, quanto più ampie sono le informazioni probatorie a disposizione del giudice, tanto più è probabile che la sentenza sia equa e aderente ai fatti. Né l’acquisizione d’ufficio delle prove da parte del giudice farebbe venir meno la sua terzietà: non comprendendosi perché non debba essere considerato «terzo» un giudice scrupoloso, il quale intenda evitare di giudicare con informazioni insufficienti, quando sarebbe possibile colmare le lacune esistenti.

Tanto premesso, il giudice a quo reputa di dover aderire all’interpretazione dominante dell’art. 507 cod. proc. pen., stante l’«autorevolezza» della decisione ora ricordata. Assume, tuttavia, che in tale lettura la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 111 Cost., in quanto lesiva del principio di terzietà ed imparzialità del giudice: principio che rappresenta l’«ineludibile strumento» di attuazione e garanzia del «giusto processo» delineato dalla Carta costituzionale.

Ad avviso del rimettente, non sarebbe infatti convincente l’affermazione secondo la quale sarebbe maggiormente «terzo» un giudice che acquisisca d’ufficio l’intero materiale probatorio, rispetto ad un giudice il quale valuti gli elementi di prova sottoposti alla sua attenzione dalle parti nel rispetto del codice di rito, e decida, solo all’esito dell’effettivo espletamento dell’istruzione dibattimentale, se sia indispensabile provvedere ad una integrazione degli anzidetti elementi.

Nell’escludere la lesione del principio costituzionale evocato, la Corte di cassazione non avrebbe, in effetti, tenuto conto adeguatamente del fatto che, nel caso di specie – tutt’altro che raro nella pratica – il giudice non si trova di fronte ad un materiale probatorio insufficiente o lacunoso, ma all’«inesistenza della prova a causa dell’inammissibilità della lista testimoniale» del pubblico ministero.

Né gioverebbe far leva, in senso contrario, sulla circostanza che il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. è esercitabile solo in caso di «assoluta necessità». In mancanza di assunzione di prove dell’accusa, l’assoluta necessità sarebbe, infatti, «in re ipsa», essendo evidente che, ove non si avvalesse di detto potere, il giudice dovrebbe pronunciare una sentenza di assoluzione per carenza di prova del fatto contestato.

La modifica dell’art. 111 Cost., d’altro canto, se pure non ha costituzionalizzato il principio dispositivo nel processo penale, ha comunque circondato di garanzie oggettive e soggettive l’acquisizione delle prove legittimamente utilizzabili per l’affermazione della responsabilità penale. Tali garanzie verrebbero, tuttavia, «inevitabilmente meno» alla luce dell’interpretazione censurata, la quale avrebbe un effetto «abrogante» non soltanto dell’art. 468 cod. proc. pen. – vanificando la sanzione di inammissibilità ivi prevista – ma anche dello stesso art. 507 cod. proc. pen. Detta interpretazione consentirebbe, difatti, al giudice – ed anzi gli imporrebbe (in forza del richiamo all’obbligatorietà dell’azione penale e alla funzione fondamentale del processo penale di ricerca della verità) – di disporre l’assunzione d’ufficio delle prove non solo nel caso di tardiva presentazione della lista dei testimoni, ma anche quando questa non sia stata depositata affatto. E ciò, persino se nel fascicolo del dibattimento non sia presente alcun atto che consenta al giudice di orientarsi nella vicenda processuale sottoposta al suo esame: con la conseguenza che egli si troverebbe ad esercitare il potere in questione senza essere a conoscenza dell’identità dei testimoni, della loro qualifica, delle circostanze su cui sono chiamati a deporre e, dunque, senza essere in grado di effettuare una seria e motivata valutazione sulla «rilevanza e pertinenza» della prova.

2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

La difesa erariale rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 111 del 1993, si è già espressa in materia, affermando che, se pure il diritto alla prova delle parti ha un ruolo centrale nella struttura del processo (come attesta il rigoroso regime di decadenza dalle prove), non è, tuttavia, possibile da ciò dedurre che tale regime abbia anche un effetto preclusivo dell’introduzione ad iniziativa del giudice delle prove necessarie per l’accertamento dei fatti, rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti o dalle quali siano decadute.

Oltre che da un complesso di ulteriori previsioni – quali, segnatamente, quelle degli artt. 189, 190, comma 2, 508, comma 1, 511, 511-bis e 603, comma 3, cod. proc. pen. – è soprattutto dallo stesso art. 507 cod. proc. pen. che si desume l’inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova: norma, questa, che – come già affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 241 del 1992 – conferisce al giudice il potere-dovere di integrazione, anche d’ufficio, delle prove nell’ipotesi in cui la carenza o l’insufficienza, per qualsiasi ragione, dell’iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza dei fatti del processo, per consentirgli di pervenire ad una giusta decisione.

La disposizione censurata – connettendosi alla lata previsione della direttiva enunciata all’art. 2, numero 73, della legge delega n. 81 del 1987 («potere del giudice di disporre l’assunzione di mezzi di prova») – è stata, in effetti, introdotta «con una visione più realistica della funzione del giudice, che può e deve essere anche di supplenza dell’inerzia delle parti». Secondo la citata sentenza n. 111 del 1993, «il legislatore delegante ha cioè esattamente considerato – in armonia con l’obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall’art. 3, secondo comma, Cost. – che la “parità delle armi” delle parti normativamente enunciata può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, sì che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di t aluna di esse, così evitando assoluzioni o condanne immeritate».

Né – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – inciderebbe sulla validità di tali conclusioni la modifica apportata al testo dell’art. 111 Cost. dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, trattandosi di modifica che – per le ragioni evidenziate dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 41281 del 2006, citata dallo stesso rimettente – non ha influito sull’assetto codicistico per l’aspetto considerato.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione ed alla quale il rimettente reputa di dover aderire – consente al giudice di disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche quando si tratti di prove dalle quali le parti sono decadute per mancato o irrituale deposito della lista prescritta dall’art. 468 cod. proc. pen. e, a seguito di tale decadenza, sia mancata ogni acquisizione probatoria.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, in tale lettura, il principio di terzietà ed imparzialità del giudice, sancito dall’art. 111 della Costituzione quale «cardine» del «giusto processo». Detto principio rimarrebbe, infatti, inevitabilmente compromesso allorché il giudice non si limiti ad integrare, all’esito dell’istruzione dibattimentale, elementi di prova insufficienti o lacunosi sottoposti alla sua attenzione dalle parti, ma acquisisca d’ufficio l’intero materiale probatorio necessario ai fini della decisione.

Né rileverebbe, in senso contrario, la circostanza che il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. sia esercitabile solo in caso di «assoluta necessità»: giacché, in mancanza di prove dell’accusa, l’assoluta necessità sarebbe «in re ipsa», essendo evidente che, ove non si avvalesse di detto potere, il giudice dovrebbe assolvere l’imputato per carenza di prova del fatto contestato.

In tal modo, verrebbero anche meno le «garanzie oggettive e soggettive» con le quali il nuovo testo dell’art. 111 Cost. circonda l’acquisizione delle prove legittimamente utilizzabili per l’affermazione della responsabilità penale. Non soltanto, infatti, la sanzione di inammissibilità prevista dall’art. 468 cod. proc. pen. rimarrebbe vanificata, ma il giudice sarebbe costretto in ogni caso ad assumere d’ufficio le prove: e ciò, anche quando la lista delle prove orali, anziché essere depositata in ritardo, non sia stata depositata affatto e non si rinvenga, nel fascicolo per il dibattimento, alcun elemento orientativo, con conseguente insussistenza delle condizioni per effettuare una seria e motivata valutazione sulla «rilevanza e pertinenza» della prova.

2. – La questione non è fondata.

3. – Nel formulare il quesito di costituzionalità, il giudice rimettente mostra, in effetti, di muovere dall’implicito presupposto che il potere di ammissione delle prove previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. abbia carattere necessariamente officioso. Tale convinzione contrasta, tuttavia, con il dato normativo, dal quale emerge inequivocamente, al contrario, che il potere in discussione può essere esercitato dal giudice sia d’ufficio che su istanza di parte. Lo attestano le parole «anche d’ufficio», presenti nella norma censurata, e – ancor più chiaramente – le previsioni dell’art. 151 disp. att. cod. proc. pen., essenziali per una corretta esegesi della disciplina e che, nel regolare l’ordine di assunzione delle nuove prove disposte ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., distinguono specificamente, da un lato, la situazione attinente alle prove «richieste dalle parti» (comma 1), ch e devono essere assunte secondo l’ordine previsto dall’art. 496 del codice; dall’altro, la situazione delle prove orali introdotte d’ufficio dal giudice (comma 2), il quale dà inizio egli stesso direttamente alla relativa assunzione e, a seconda dell’esito di essa (favorevole o no all’una o all’altra parte), stabilisce poi quale delle due debba condurre l’esame diretto (ai sensi dell’art. 498 cod. proc. pen.), restando ovviamente all’altra il diritto all’eventuale controesame.

Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo e che ha suscitato il dubbio di costituzionalità, si verte, in effetti, nella prima di queste due ipotesi. Non si tratta, cioè, di prove individuate dal giudice, da lui introdotte e alla assunzione delle quali egli stesso dovrebbe, almeno in un primo momento, dare corso. Si tratta, invece, di prove (nella specie, testimoniali) ricercate da una delle parti (nella specie, il pubblico ministero) e di cui è la parte medesima a chiedere l’ammissione, sia pure non più – a causa dell’intervenuta decadenza per tardivo deposito della lista – nell’esercizio pieno del diritto alla prova previsto dall’art. 190, comma 1, cod. proc. pen. (che imporrebbe al giudice di ammettere le prove stesse, purché non manifestamente irrilevanti o superflue), quanto piuttosto in base al diverso e più restrittivo criterio considerato dalla norma censurata (l’assoluta neces sità dell’acquisizione).

In questa situazione – indipendentemente da ogni considerazione circa il problema della compatibilità col parametro costituzionale evocato degli interventi probatori officiosi del giudice (tema sul quale questa Corte ebbe a prendere posizione, anteriormente alla modifica dell’art. 111 Cost., con la sentenza n. 111 del 1993) – il vulnus lamentato dal giudice a quo resta escluso per una ragione pregiudiziale: e, cioè, che non risulta configurabile neppure una reale deroga al principio dispositivo, in base al quale il giudice è chiamato a giudicare sulla base di quanto allegato e provato dalle parti. Manca, di conseguenza, in radice la possibilità di ipotizzare una lesione del principio di imparzialità del giudice – principio cui ineriscono, più che a quello di terzietà, le censure del rimettente, in quanto relative al rapporto tra giurisdizione e decisione – con riguardo al rischio, anche soltant o astratto, di una impropria assunzione da parte del giudice di compiti dell’accusa o della difesa, atta a trasformarlo in un “alleato” dell’uno o dell’altro dei contendenti.

Irrilevante, a tali fini, è che il parametro di esercizio del potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. sia distinto, e più rigoroso, di quello che presiede in via ordinaria all’ammissione delle prove in virtù dell’art. 190, comma 1, cod. proc. pen. E ciò, specie ove si consideri che, secondo quanto affermato in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (sia pure nell’ambito di un panorama interpretativo non privo di oscillazioni), ove ricorra il presupposto dell’assoluta necessità dell’assunzione, l’esercizio del potere in discorso – segnatamente se sollecitato dalle parti – è doveroso per il giudice, non essendo rimessa alla sua discrezionalità la scelta tra l’acquisizione della prova e il proscioglimento (o la condanna) dell’imputato (si tratta, dunque – non diversamente da quello previsto dall’art. 190, comma 1, cod. proc . pen. – di un potere-dovere).

Né vale obiettare che, allorché il giudice ripristina, tramite l’applicazione dell’art. 507 cod. proc. pen., poteri probatori da cui una parte è decaduta, finisce inevitabilmente per favorire questa, collaborando, di fatto – laddove essa si identifichi nel pubblico ministero – alla costruzione della piattaforma probatoria d’accusa in una situazione nella quale dovrebbe altrimenti assolvere l’imputato per carenza di prova del fatto contestato. Vero è che l’esercizio del potere di cui all’art. 507 cod. proc. pen. può ridondare, in concreto, a potenziale vantaggio della parte che sollecita la prova (peraltro, solo in via di ipotesi, la cui realizzazione è comunque sempre legata al concreto risultato probatorio, al quale può concorrere e sul quale può incidere la controparte mediante il controesame). Ma ciò non può essere concepito come indice di «parzialità»: l’ammissione di una prova a richiesta di parte giova sempre, per definizione, a chi, avendo formulato la richiesta stessa (tempestiva o tardiva che sia), si veda accordato uno strumento argomentativo da impiegare a sostegno della propria tesi e pur sempre sottoposto alla verifica della escussione dialettica dibattimentale. La prospettiva del giudice è, in effetti, diversa da quella della parte: il giudice ammette la prova in quanto risponda al criterio legale, parametrato sulla sua idoneità a permettere una decisione causa cognita (nella specie, in termini di indispensabilità); che poi la prova, una volta introdotta nel processo, torni a beneficio della parte istante è una delle possibili conseguenze naturali, non un dato che entri nella valutazione del giudice in sede di ammissione.

4. – Nelle considerazioni che precedono è già insita, per altro verso, l’infondatezza dell’ulteriore assunto del rimettente, secondo il quale l’interpretazione censurata vanificherebbe la sanzione dell’inammissibilità, prevista dall’art. 468, comma 1, cod. proc. pen. per il mancato o irrituale deposito della lista dei testimoni (ovvero dei periti, dei consulenti tecnici o delle persone indicate nell’art. 210 cod. proc. pen.) di cui le parti intendano chiedere l’esame.

A prescindere dalla scarsa pertinenza di tale deduzione alla censura di compromissione dell’imparzialità del giudice – evocando essa, semmai, un profilo di incongruenza del sistema – le sezioni unite della Corte di cassazione hanno adeguatamente evidenziato, in entrambe le pronunce citate dallo stesso giudice a quo (sentenze 6 novembre 1992-21 novembre 1992, n. 11227 e 17 ottobre 2006-18 dicembre 2006, n. 41281), che diritto delle parti alla prova e potere(-dovere) di ammissione della prova ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. hanno parametri diversi: negativo il primo (non manifesta superfluità o irrilevanza); positivo la seconda (assoluta necessità).

L’esercizio del potere di cui all’art. 507 cod. proc. pen. non “neutralizza”, pertanto, la sanzione di inammissibilità, in quanto la parte decaduta ai sensi dell’art. 468, comma 1, cod. proc. pen. rischia di vedersi comunque denegata, o ristretta, l’ammissione delle prove a suo favore: e ciò, anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna precedente acquisizione probatoria.

5. – Ovviamente si deve rispettare il principio del contraddittorio e il diritto di difesa, assicurando alla parte che subisce il recupero della prova avversaria (nel caso di specie, l’imputato) adeguati strumenti “di reazione”, che gli consentano di contrastare le conseguenze di comportamenti della controparte elusivi del divieto di prove a sorpresa, ad evitare le quali è preordinata la discovery prevista dall’art. 468, comma 1, cod. proc. pen.

Al riguardo, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità – e viene rimarcato anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione nelle sentenze dianzi citate – che, pur in assenza di una espressa indicazione normativa in tale senso, nel caso di esercizio del potere qui in esame, spetta ad ogni parte con interesse contrapposto il diritto alla prova contraria ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen.; diritto del quale devono essere garantiti, peraltro, in concreto, anche le condizioni e i tempi di esercizio, secondo quanto già previsto dall’art. 6, comma 3, lettere b) e d), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 111, terzo comma, Cost.

6. – Ogni altro rilievo proposto dal giudice a quo con riguardo al parametro costituzionale evocato non risulta pertinente alla situazione di specie.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, dal Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 74

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 24 della delibera legislativa della Regione Siciliana 4 dicembre 2008 (disegno di legge n. 240-85-213-256-278-296-299), recante «Composizione delle giunte. Status degli amministratori locali e misure di contenimento della spesa pubblica. Soglia di sbarramento nelle elezioni comunali e provinciali della Regione. Disposizioni varie», promosso dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana con ricorso notificato il 13 dicembre 2008, depositato in cancelleria il 19 dicembre 2008 ed iscritto al n. 99 del registro ricorsi 2008.

Udito nella camera di consiglio del 4 novembre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 13 dicembre 2008, depositato il successivo 19 dicembre, il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha promosso, in riferimento agli articoli 97, 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione, 14 e 17 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione Siciliana), ed in relazione agli artt. 43 e 49 del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 della delibera legislativa della Regione Siciliana, approvata dall’Assemblea regionale nella seduta del 4 dicembre 2008 (disegno di legge n. 240-85-213-256-278-296-299), recante «Composizione delle giunte. Status degli amministratori locali e misure di contenimento della spesa pubblica. Soglia di sbarramento nelle elezioni comunali e provinciali della Regione. Dispos izioni varie»;

che, ad avviso del ricorrente, la norma impugnata, nella parte in cui stabilisce la proroga di ulteriori quarantotto mesi, dalla data della loro naturale scadenza, dei contratti di affidamento provvisorio nel settore dei trasporti pubblici locali, di cui alla legge regionale 22 dicembre 2005, n. 19, «nelle more dell’entrata in vigore della disciplina comunitaria di cui al regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007, pubblicato nella GUUE serie L 315 del 3 dicembre 2007, al fine di assicurare la continuità del servizio di trasporto pubblico locale e di rendere più agevole agli enti locali il graduale compimento degli atti necessari all’applicazione della suddetta disciplina», riprodurrebbe, sostanzialmente, l’art. 31, comma 2, del disegno di legge n. 665-721-724, recante «Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2008», approvato dall’Assemblea regionale il 26 genn aio 2008 ed impugnato dinanzi a questa Corte costituzionale con ricorso del successivo 2 febbraio;

che, secondo il Commissario dello Stato, il citato art. 24 proroga, anche se per un periodo più breve di quello previsto dalla disposizione in precedenza impugnata (sino al 2015, anziché al 2019), i contratti di affidamento provvisorio del servizio pubblico di trasporto su strada, di cui all’art. 27 della legge regionale n. 19 del 2005, sottoscritti nel 2007, «nelle more della definitiva adozione del piano regionale di riassetto organizzativo e funzionale del trasporto pubblico locale», i quali traggono origine dalla trasformazione – operata dalla legge regionale n. 19 del 2005 – dei «rapporti concessori vigenti già accordati dalla Regione e dai Comuni, ai sensi della legge 28 settembre 1939 n. 1822 e della legge regionale 4 giugno 1964, n. 10», quindi prorogherebbe ben oltre il doppio la durata originaria dei contratti, indipendentemente dall’espletamento di procedure di evidenza pubblica;

che, a suo avviso, la proroga di un contratto di appalto di servizi o forniture stipulato da un’amministrazione pubblica darebbe luogo ad una figura di trattativa privata, non consentita, e da ritenersi ammissibile soltanto per cause determinate da fattori che non coinvolgono la responsabilità dell’amministrazione aggiudicatrice, essendo, quindi, ragionevole «dubitare della legittimità della proroga di contratti come quelli in specie non ancora prossimi alla scadenza, per i quali nei fatti si intende consentire alla pubblica amministrazione di rinviare l’indizione di una nuova gara che invece ben potrebbe concludersi entro il termine del contratto pubblico attualmente in vigore»;

che, pertanto, la proroga disposta dalla norma impugnata violerebbe, anzitutto, l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto sarebbe suscettibile di alterare il regime di libero mercato delle prestazioni e dei servizi, in violazione degli obblighi comunitari in materia di affidamento della gestione dei servizi pubblici, derivanti dagli artt. 43, 49 e seguenti del Trattato istitutivo della Comunità europea, ponendosi, inoltre, in contrasto con le direttive 31 marzo 2004, n. 2004/17/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali), e 31 marzo 2004, n. 2004/18/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi), recepite con decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contrat ti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE);

che, secondo il ricorrente, questa Corte ha ricondotto la proroga ope legis di un contratto pubblico di servizi alla materia “tutela della concorrenza” (sentenza n. 320 del 2008), spettante alla competenza esclusiva dello Stato, da ritenersi lesa dalla proroga stabilita dalla norma impugnata, la quale derogherebbe al principio del ricorso alle procedure di gara;

che, in contrario, non rileverebbe la riconducibilità della disposizione impugnata alla materia dei trasporti, attribuita alla competenza legislativa concorrente della Regione Siciliana, in quanto essa violerebbe le norme comunitarie sopra indicate ed inciderebbe, comunque, sulla materia “tutela della concorrenza”, anche in quanto la disciplina statale di settore (art. 18 del decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, recante “Conferimento alle regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”) stabilisce che devono essere eliminati gli assetti monopolistici ed introdotte regole concorrenziali di gestione;

che, ad avviso del ricorrente, l’espletamento delle procedure concorsuali sarebbe preordinato a garantire la tutela della concorrenza, quindi la qualità e l’economicità del servizio pubblico, nonché la puntuale attuazione delle norme comunitarie in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi di trasporto locale (in particolare, del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio 23 ottobre 2007 n. 1370, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio (CEE) n. 1191/69 e (CEE) n. 1107/70), in armonia con quanto stabilito dall’art. 4-ter del decreto del Presidente della Repubblica 17 dicembre 1953, n. 1113, recante «Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia di comunicazioni e trasporti» (aggiunto dall’art. 7 del decreto legislativo 11 settembre 2000, n. 296), il quale impone il ricorso alle «procedure concorsuali in conformità alla normativa comunitaria e nazionale sugli appalti pubblici di servizi», per la scelta del gestore del servizio di trasporto pubblico di interesse regionale e locale;

che, inoltre, il citato art. 24, imponendo agli imprenditori privati modifiche autoritative ed unilaterali a contratti di affidamento provvisorio stipulati originariamente per la durata di tre anni, ponendo di fatto a loro carico oneri e obbligazioni non valutati preventivamente, né negoziati all’atto di conclusione del contratto, inciderebbe anche nella materia “diritto civile” (rectius: “ordinamento civile”);

che, infine, secondo il Commissario dello Stato, la norma impugnata, disponendo una proroga che determina il “raddoppio” della durata dei contratti di affidamento provvisorio in corso, violerebbe l’art. 97 Cost., in quanto eluderebbe l’obbligo del rispetto dei criteri di economicità ed efficacia ai quali dovrà ispirarsi il nuovo assetto del servizio di trasporto pubblico locale quale risultante dal piano regionale in cui dovrà essere prevista la ridefinizione della rete e la determinazione dei servizi minimi e delle unità di rete.

Considerato che il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli artt. 97, 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione, 14 e 17 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione Siciliana), in relazione agli artt. 43 e 49 del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 della delibera legislativa della Regione Siciliana, approvata dall’Assemblea nella seduta del 4 dicembre 2008 (disegno di legge n. 240-85-213-256-278-296-299), recante «Composizione delle giunte. Status degli amministratori locali e misure di contenimento della spesa pubblica. Soglia di sbarramento nelle elezioni comunali e provinciali della Regione. Disposizioni varie»;

che, successivamente all’impugnazione, la predetta delibera legislativa è stata pubblicata come legge della Regione Siciliana 16 dicembre 2008, n. 22 (Composizione delle giunte. Status degli amministratori locali e misure di contenimento della spesa pubblica. Soglia di sbarramento nelle elezioni comunali e provinciali della Regione. Disposizioni varie), con omissione della disposizione oggetto di censura;

che l’intervenuto esaurimento del potere promulgativo, che si esercita necessariamente in modo unitario e contestuale rispetto al testo deliberato dall’Assemblea regionale, preclude definitivamente la possibilità che le parti della legge impugnate ed omesse in sede di promulgazione acquistino o esplichino una qualche efficacia, privando così di oggetto il giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis, ordinanze n. 304 del 2008, n. 358 e n. 229 del 2007; n. 389, n. 340 e n. 136 del 2006);

che, pertanto, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, deve dichiararsi cessata la materia del contendere.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 75

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 2, della legge della Regione Liguria 20 ottobre 2008, n. 37 (Modifiche alla legge regionale 28 aprile 2008, n. 10 – disposizioni collegate alla legge finanziaria 2008) e dell’art. 20 della legge della Regione Liguria 24 dicembre 2008, n. 44 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2009), promossi dal Presidente del Consiglio dei ministri con due ricorsi notificati il primo il 19-24 dicembre 2008 ed il secondo spedito per la notifica il 23 febbraio 2009, depositati in cancelleria il 23 dicembre 2008 ed il 3 marzo 2009, rispettivamente iscritti al n. 102 del registro ricorsi 2008 ed al n. 13 del registro ricorsi 2009.

Visti gli atti di costituzione della Regione Liguria;

udito nell’udienza pubblica del 26 gennaio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi l’avvocato dello Stato Enrico Arena per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Orlando Sivieri per la Regione Liguria.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 19-24 dicembre 2008, depositato il successivo 23 dicembre (ed iscritto al reg. ric. n. 102 del 2008), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale in via principale dell’art. 1, comma 2, della legge della Regione Liguria 20 ottobre 2008, n. 37 (Modifiche alla legge regionale 28 aprile 2008, n. 10 – disposizioni collegate alla legge finanziaria 2008), in riferimento all’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e), della Costituzione;

che la citata norma è impugnata nella parte in cui ha inserito il comma 2-bis nell’art. 34 della legge regionale 28 aprile 2008, n. 10 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2008), il quale – provvedendo sulla riorganizzazione della società per azioni Sviluppo Genova – stabilisce che: «Qualora si pervenga all’esercizio del controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi da parte della regione, anche in forma associata, previa intesa fra i soci, gli enti, le aziende, le agenzie regionali e le società controllate direttamente o indirettamente dalla regione, possono affidare, tramite specifiche convenzioni, prestazioni finalizzate alla produzioni di beni e servizi» alla predetta società Sviluppo Genova, già costituita per il recupero di aree industriali dismesse della Provincia di Genova e che, alla data di proposizione del primo ricorso, era partecipata al 52,5% da Regione Liguria, Provincia di G enova e Comune di Genova; al 24,5% da società pubblico-private; al 23% da istituti bancari;

che la norma impugnata, secondo il ricorrente, violerebbe, in primo luogo, l’art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione agli artt. 43 e 49 del Trattato CE, in quanto, oltre ad ipotizzare un controllo della Regione Liguria analogo a quello sui propri servizi sulla società Sviluppo Genova futuro ed eventuale, consentirebbe anche alle società, dalla Regione direttamente o indirettamente controllate, l’affidamento diretto di prestazione di beni o servizi alla predetta società, in assenza dei presupposti richiesti a detto fine dall’ordinamento comunitario e dall’ordinamento nazionale;

che la medesima norma sarebbe, inoltre, lesiva della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza, violando l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., perché in contrasto con l’art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonchè interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), come convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), e successivamente modificato;

che nel giudizio si è costituita la Regione Liguria, chiedendo, anzitutto, che la Corte dichiari la cessazione della materia del contendere, a seguito della modifica apportata alla norma impugnata dall’art. 20 della legge regionale 24 dicembre 2008, n. 44 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2009), la quale dimostrerebbe che la società Sviluppo Genova dovrebbe operare realmente quale società in house, legata alla Regione da un rapporto di “controllo analogo” e, in subordine, sostenendo che il ricorso debba essere dichiarato infondato;

che, con un secondo ricorso, spedito per la notifica il 23 febbraio 2009, depositato il successivo 3 marzo 2009 (iscritto al reg. ric. n. 13 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato anche la suddetta norma sostitutiva di quella impugnata con il primo ricorso, introdotta dall’art. 20 della legge regionale n. 44 del 2008, la quale ha stabilito che «la Regione opera affinché si verifichino le condizioni perché Sviluppo Genova spa agisca come società in house sulla quale la Regione esercita il controllo analogo a quello sui propri servizi, previa intesa con gli altri soci pubblici. Qualora entro dodici mesi dall’entrata in vigore della presente legge il capitale sociale di Sviluppo Genova non sia totalmente detenuto da soci pubblici e non siano verificate le condizioni previste per operare quale società in house, la Giunta regionale attiva l e procedure per la dismissione della partecipazione»;

che tale norma, nella parte in cui prevede solo un impegno della Regione a creare condizioni tali che Sviluppo Genova S.p.A. agisca come società in house sulla quale la Regione esercita un controllo “analogo” a quello che ha sui propri servizi, «previa intesa con gli altri soci pubblici», violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., perché si porrebbe in contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in materia di affidamento di prestazioni in house (artt. 43 e 49 del Trattato CE, oggi artt. 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), in quanto il controllo previsto dalla disposizione non sarebbe un controllo strutturale, effettivo e svincolato da qualsiasi condizione futura ed eventuale, ma futuro ed eventuale, quindi lesivo dei principi desumibili dai citati artt. 43 e 49 (oggi artt. 49 e 56);

che anche in tale giudizio si è costituita la Regione Liguria, la quale ha depositato memoria, nell’imminenza dell’udienza pubblica, chiedendo che la Corte dichiari cessata la materia del contendere in quanto la norma impugnata è stata abrogata dall’art. 21, comma 4, della legge regionale 28 dicembre 2009, n. 63 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2010).

Considerato che, con i ricorsi indicati in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, rispettivamente, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge della Regione Liguria 20 ottobre 2008, n. 37 (Modifiche alla legge regionale 28 aprile 2008, n. 10 – disposizioni collegate alla legge finanziaria 2008), nella parte in cui ha inserito il comma 2-bis nell’art. 34 della legge regionale 28 aprile 2008, n. 10 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2008), relativo alla riorganizzazione della società per azioni Sviluppo Genova, nonché dell’art. 20 della successiva legge regionale 24 dicembre 2008, n. 44 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2009), che ha sostituito il predetto comma 2-bis dell’art. 34 della legge regionale n. 10 del 2008, in riferimento all’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e), della Costituzione;

che l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 37 del 2008 è censurato in quanto, oltre ad ipotizzare un controllo futuro ed eventuale da parte della Regione Liguria sulla società per azioni Sviluppo Genova, consentirebbe anche alle società direttamente o indirettamente controllate dalla Regione stessa, l’affidamento diretto di prestazione di beni o servizi alla predetta Sviluppo Genova S.p.A., in assenza di tutti i presupposti prescritti dall’ordinamento comunitario e dall’ordinamento nazionale in relazione all’affidamento in house, ponendosi in contrasto con i principi della libertà di stabilimento e di circolazione dei servizi, oltre che con la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di tutela della concorrenza e quindi con l’art. 117, primo e secondo comma, lettera e), Cost.;

che l’art. 20 della legge regionale n. 44 del 2008 ha sostituito l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 37 del 2008, ma è stato, tuttavia, anch’esso impugnato in quanto, prevedendo un mero impegno della Regione a creare condizioni tali che la società per azioni Sviluppo Genova agisca come società in house, stabilirebbe un controllo della medesima Regione su tale società futuro ed eventuale e non strutturale ed effettivo, in contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in materia di affidamento di prestazioni in house;

che la sostanziale omogeneità dei contenuti delle norme impugnate, l’identità di alcune delle censure proposte e dei parametri invocati rendono opportuna la riunione dei giudizi;

che, successivamente alla proposizione dei ricorsi, è entrato in vigore l’art. 21, comma 4, della legge della Regione Liguria 28 dicembre 2009, n. 63 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2010), il quale ha stabilito espressamente l’abrogazione dell’intero articolo 34 della legge regionale 28 aprile 2008, n. 10 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria 2008) «così come modificato dalla legge regionale 20 ottobre 2008, n. 37, dalla legge regionale 6 giugno 2008, n. 14 e dalla legge regionale 24 dicembre 2008, n. 44» ed inerente alla riorganizzazione della citata società per azioni Sviluppo Genova;

che la suddetta abrogazione è stata disposta a seguito dell’adozione della delibera della Giunta regionale del 22 dicembre 2009 n. 1873, che ha stabilito l’«Avvio di procedura di dismissione, ai sensi dell’art. 20 della legge regionale 24 dicembre 2008, n. 44 [..], della partecipazione detenuta in Sviluppo Genova S.p.A.», in quanto la Regione ha ritenuto non potessero verificarsi le condizioni stabilite in ordine al riassetto societario della stessa, necessarie per configurarla quale società in house della Regione;

che, pertanto, il suindicato intervento normativo, che ha comportato l’abrogazione dell’intero art. 34 della legge regionale n. 10 del 2008, relativo alla riorganizzazione della Sviluppo Genova S.p.A., può ritenersi totalmente satisfattivo delle pretese avanzate con i ricorsi, in quanto l’avvenuta abrogazione è effetto della dismissione della partecipazione regionale nella società in esame, a sua volta conseguente all’accertamento dell’impossibilità del verificarsi delle condizioni atte a configurare la predetta società quale società in house;

che i richiamati argomenti dimostrano, altresì, che le norme impugnate non hanno avuto medio tempore applicazione, essendo entrambe condizionate nella loro applicazione al verificarsi del presupposto che la Regione attuasse sulla predetta società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, nonché al soddisfacimento degli altri requisiti necessari a consentire la configurabilità della stessa quale società in house, condizioni che l’avvenuta dismissione della partecipazione regionale alla predetta società conferma non essersi mai realizzate;

che sono, perciò, venute meno le ragioni della controversia e conseguentemente va dichiarata la cessazione della materia del contendere.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara cessata la materia del contendere in ordine ai ricorsi indicati in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 76

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 40, comma 6, del decreto legislativo, 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo sostituito dall’art. 27, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia nel procedimento vertente tra D.C.A.I. e il Comune di Milano ed altra con ordinanza del 9 febbraio 2009, iscritta al n. 188 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con ordinanza del 9 febbraio 2009, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo sostituito dall’art. 27, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo);

che, nel giudizio principale, D.C.A.I. ha impugnato il provvedimento del Comune di Milano, di rigetto dell’istanza per la concessione dei contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione, previsti dall’art. 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo), nonché il bando dello stesso Comune e la delibera della Regione Lombardia, recanti i criteri per l’erogazione di detti contributi;

che il citato art. 40, comma 6, stabilisce: «Gli stranieri titolari di carta di soggiorno e gli stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo hanno diritto di accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni regione o dagli enti locali per agevolare l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione»;

che l’istanza della ricorrente è stata rigettata, in quanto ella non è titolare di un permesso di soggiorno della durata di anni due, requisito al quale gli atti amministrativi impugnati nel giudizio principale subordinano la concessione della provvidenza in esame, in virtù di una direttiva che, ad avviso del rimettente, avrebbe dato corretta applicazione alla norma censurata, che riguarderebbe anche i contributi previsti dall’art. 11 della legge n. 431 del 1998;

che, secondo il TAR, tale requisito sarebbe ragionevolmente preordinato allo scopo di evitare che ai lavoratori extracomunitari sia attribuita la gran parte dei fondi disponibili, come potrebbe accadere, in difetto di «un criterio di accesso che tenga conto della permanenza in Italia e del livello di non precarietà di tale residenza», dato che, di regola, essi versano in una condizione economicamente più disagiata rispetto ai cittadini italiani;

che siffatta esigenza sarebbe ragionevolmente tutelata dalla previsione che i contributi possono essere erogati ai lavoratori extracomunitari titolari di «carta di soggiorno» (recte: permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo); diversamente, la regola che richiede il possesso di un permesso di soggiorno della durata di anni due non la soddisferebbe «in modo razionale e conforme a parametri di uguaglianza», poiché «non tiene conto del periodo complessivo di permanenza nel nostro Paese e [del] le ragioni, spesso contingenti, che inducono il questore a rilasciare un permesso annuale, anziché biennale»;

che, infatti, l’art. 5, comma 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede che il permesso di soggiorno per lavoro subordinato non possa avere durata superiore ad un anno, qualora l’istante abbia stipulato un contratto di lavoro a tempo determinato, mentre «la frequente volatilità degli impieghi soprattutto per i lavoratori extracomunitari fa sì che spesso essi perdano un lavoro più stabile e, dopo un periodo di disoccupazione, debbano accettare un lavoro a tempo determinato anche dopo anni di permanenza in Italia»; nel caso in esame, la ricorrente avrebbe ridotto il suo impegno lavorativo, per accudire il nipote in tenera età, che vive con lei e, per questa ragione, il rinnovo del permesso di soggiorno le sarebbe stato concesso soltanto per un anno;

che, dunque, la norma censurata impedirebbe di valorizzare la circostanza che la ricorrente è titolare di permesso di soggiorno fin dal novembre 1998 e, secondo il giudice a quo, «l’adozione del mero criterio della durata del permesso di soggiorno senza riferimenti alla complessiva regolare presenza in Italia appare un criterio irragionevole che si presta ad ingiuste disparità di trattamento in violazione dell’art. 3 Cost.»;

che, infatti, potrebbe accadere che ad un lavoratore extracomunitario appena giunto in Italia sia rilasciato un permesso della durata di anni due mentre, «vista la validità dell’offerta lavorativa», «la stessa decisione potrebbe non essere assunta nei confronti di altro extracomunitario presente sul nostro territorio da dieci anni», con la conseguenza che, in tale ipotesi, soltanto il primo, non anche il secondo, potrebbe ottenere i contributi in esame;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

che, secondo la difesa erariale, la questione sarebbe inammissibile, in primo luogo, poiché il rimettente non ha indicato la nazionalità della ricorrente nel giudizio principale, circostanza rilevante, dato che, se ella fosse cittadina di uno Stato dell’Unione Europea, la norma censurata non sarebbe applicabile; in secondo luogo, in quanto il TAR chiede un intervento additivo, senza indicare una soluzione costituzionalmente obbligata, auspicando l’introduzione di «altre ed ulteriori fattispecie agevolative»;

che, nel merito, la norma censurata non violerebbe l’art. 3 Cost., poiché, nell’osservanza della giurisprudenza di questa Corte, garantirebbe la concessione dei contributi in esame ai lavoratori extracomunitari titolari almeno del permesso di soggiorno della durata di due anni, i quali, appunto per questo, vantano un titolo di legittimazione comprovante «il carattere non episodico e di non breve durata» della loro permanenza in Italia (sentenza n. 306 del 2008), così da scongiurare il rischio, paventato dallo stesso rimettente, che ad essi sia attribuita la maggior parte delle somme disponibili, in danno dei cittadini italiani;

che, peraltro, la ragionevolezza della norma in esame sarebbe confortata dagli argomenti svolti da questa Corte per dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1 (Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 – Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui tale disposizione prevede, tra i requisiti per la presentazione delle domande di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, che «i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda» (ordinanza n. 32 del 2008);

che, inoltre, il citato art. 40, comma 6, non realizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori extracomunitari, in quanto la durata del permesso di soggiorno non dipende da scelte discrezionali della pubblica amministrazione, ma è condizionata dalla durata del rapporto di lavoro subordinato, e sarebbe diversa la situazione di coloro che hanno stipulato un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ovvero a tempo determinato;

che, infine, la norma censurata dovrebbe essere coordinata con l’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il quale ha previsto che «i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi» in esame «devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione»;

che, secondo l’interveniente, detta disposizione inciderebbe sul profilo di irragionevolezza conseguente dalla mancata valorizzazione da parte della norma censurata del periodo di complessiva durata della presenza regolare in Italia, lacuna che, secondo il rimettente, avrebbe permesso di erogare i contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione ad un lavoratore extracomunitario appena giunto in Italia, ma in possesso di permesso di soggiorno biennale, e di negarne la corresponsione ad un lavoratore extracomunitario presente nel territorio dello Stato da un maggior numero di anni, ma titolare di un permesso di soggiorno di durata annuale.

Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo modificato dall’art. 27, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo);

che, ad avviso del rimettente, detta norma, stabilendo che «gli stranieri titolari di carta di soggiorno e gli stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo hanno diritto di accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni regione o dagli enti locali per agevolare l’accesso alle locazioni abitative», subordinerebbe la concessione dei contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione, previsti dall’art. 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo), al possesso da parte del lavoratore extracomunitario di un permesso di soggiorno della durata di anni due;

che, secondo il giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto «non soddisfa in modo razionale e conforme a parametri di uguaglianza» l’esigenza di garantire che la provvidenza in favore dei lavoratori extracomunitari sia subordinata ad una residenza non precaria in Italia, e per un tempo congruo, poiché non tiene conto del periodo complessivo di permanenza nel nostro Paese e delle ragioni, spesso contingenti, che indurrebbero il questore a rilasciare un permesso della durata di un anno, anziché di due anni;

che, a suo avviso, l’adozione del criterio della durata del permesso di soggiorno, svincolato da ogni riferimento «alla complessiva regolare presenza» del lavoratore extracomunitario in Italia, sarebbe irragionevole e realizzerebbe una ingiusta disparità di trattamento, poiché attribuisce rilevanza «ad un dato estrinseco, che non necessariamente è significativo rispetto alla ratio legis» del citato art. 40, comma 6, potendo accadere che un lavoratore extracomunitario, appena giunto in Italia, ottenga un permesso di soggiorno della durata di due anni, in considerazione della stipula di contratto di lavoro subordinato di durata indeterminata, diversamente da un altro lavoratore extracomunitario, che pure si trovi in Italia da «dieci anni»;

che l’eccezione della difesa erariale, di inammissibilità della questione, per difetto di motivazione sulla rilevanza, a causa della mancata indicazione della nazionalità della ricorrente nel giudizio principale, è infondata, poiché l’ordinanza di rimessione indica che la parte è titolare di permesso di soggiorno della durata di un anno, ai sensi del d.lgs. n. 286 del 1998, e che, nella specie, è applicabile la disciplina concernente i lavoratori extracomunitari, dimostrando così di avere accertato e considerato (implicitamente, ma chiaramente) che la ricorrente non è cittadina di uno Stato dell’Unione europea;

che, anteriormente alla data dell’ordinanza di rimessione, è entrato in vigore l’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il quale stabilisce: «ai fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi come definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione»;

che, sebbene detta norma sia anteriore rispetto all’ordinanza di rimessione e possa influire su uno dei profili del percorso argomentativo svolto per motivare la non manifesta infondatezza della questione, il TAR ha del tutto omesso di accertare (ed indicare) anzitutto se essa sia o meno applicabile nel giudizio principale, quindi di valutarne gli eventuali effetti;

che tale lacuna argomentativa si risolve in un difetto di motivazione sulla rilevanza, che comporta la manifesta inammissibilità della questione, indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla mancata esplicitazione da parte del rimettente delle ragioni che – alla luce della lettera della disposizione, e tenendo conto che il diritto sociale all’abitazione è riconducibile «fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione» (sentenze n. 209 del 2009 e n. 404 del 1988) – renderebbero inevitabile riferire la norma censurata anche ai contributi in esame, impedendone comunque un’interpretazione costituzionalmente orientata;

che, sotto un ulteriore profilo, la questione è manifestamente inammissibile anche in quanto l’ordinanza di rimessione censura il citato art. 40, comma 6, «nella parte in cui non tiene conto del periodo complessivo di permanenza» del lavoratore extracomunitario nel nostro Paese, prospettando, quindi, la necessità di una disciplina modulata avendo riguardo anche alla pregressa presenza in Italia, che peraltro neppure precisa, e, in tal modo, ha lasciato indeterminato il contenuto del richiesto intervento additivo, non indicando una soluzione costituzionalmente obbligata (ordinanza n. 70 del 2009);

che la questione deve, quindi, essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo modificato dall’art. 27, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con l’ordinanza in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 77

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), introdotto dall’art. 33 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), promosso dal Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo nel procedimento vertente tra M. P. e il Prefetto di Cuneo con ordinanza del 9 luglio 2009, iscritta al n. 249 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che, con ordinanza depositata in data 9 luglio 2009, il Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dell’art. 8-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), nella parte in cui prevede che – nel procedimento amministrativo avente ad oggetto l’adozione della ordinanza applicativa delle sanzioni amministrative a carico dell’emittente di assegni bancari privi di autorizzazione o di provvista – le deduzioni previamente presentate dall’interessato siano valutate dal Prefetto e non da altra autorità;

che il rimettente riferisce di essere chiamato a giudicare in merito alla opposizione presentata da tale M. P. avverso l’ordinanza, emessa nei confronti di quest’ultimo dal viceprefetto di Cuneo (in quanto delegato del Prefetto) il 10 febbraio 2009, con la quale è stato ingiunto al medesimo, a titolo di sanzione pecuniaria, il pagamento della somma di euro 2065,82 ed è stata irrogata la sanzione amministrativa accessoria del divieto di emettere assegni per la durata di 48 mesi;

che, tanto premesso, il Giudice di pace osserva come, a seguito della entrata in vigore dell’art. 33 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, 205), il quale ha modificato l’art. 8 della legge n. 386 del 1990 ed ha introdotto l’art. 8-bis nella medesima legge, le condotte di emissione di assegni bancari senza autorizzazione o senza provvista sono state depenalizzate;

che, prosegue il rimettente, nel caso di cui al citato art. 8-bis, la disciplina vigente prevede che il Prefetto, informato, a seconda dei casi, da chi ha elevato il protesto (o eseguito altro atto equivalente) o dalla stessa banca trattaria, provvede nei novanta giorni successivi a notificare all’interessato gli estremi della violazione commessa;

che, aggiunge il giudice a quo, questi, nei trenta giorni successivi, può presentare scritti difensivi e documenti, valutati i quali il Prefetto emette ordinanza con la quale ingiunge il pagamento di una sanzione pecuniaria, ovvero dispone motivatamente la archiviazione degli atti;

che, così delineata la normativa, il rimettente osserva che, in base ad essa, gli scritti difensivi dell’interessato dovranno essere oggetto di valutazione da parte del Prefetto, cioè dello stesso organo che ha contestato la violazione e che è chiamato a decidere se emettere o meno la ordinanza di pagamento;

che tale disciplina legislativa pare al rimettente illogicamente deteriore, in danno di chi abbia emesso un assegno senza autorizzazione o senza provvista, rispetto a quella relativa alla irrogazione delle altre sanzioni amministrative;

che, infatti, a mente degli artt. 17 e 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), la notificazione e la contestazione della violazione sono effettuate da organo diverso rispetto a quello che sarà chiamato a valutare le ragioni esposte in eventuali scritti difensivi e a determinare la sanzione;

che, ad avviso del rimettente, la disciplina invece delineata dall’art. 8-bis della legge n. 386 del 1990, la quale prevede che «sia sempre lo stesso prefetto tanto a redarre (recte: redigere) e a notificare gli estremi della violazione […] che a irrogare la sanzione previa valutazione delle deduzioni presentate con scritti difensivi e documenti fatti pervenire dal soggetto oggetto della contestazione», violerebbe il principio di eguaglianza nello svolgimento dell’azione amministrativa ed il diritto di far valere efficacemente le proprie ragioni, in quanto la sanzione viene irrogata da organo non terzo né gerarchicamente sovraordinato al Prefetto ma da quest’ultimo che già ha provveduto a contestare l’addebito;

che la descritta disciplina si porrebbe altresì in contraddizione con il principio che tutela la pienezza ed effettività del contraddittorio – instauratosi a seguito della presentazione delle deduzioni da parte dell’interessato – risultando questo minorato poiché la valutazione di dette deduzioni spetta all’organo che, sulla base delle informative ricevute, già ha contestato la violazione;

che, secondo quanto infine ritenuto dal rimettente, la discrezionalità del legislatore sarebbe stata esercitata in questa occasione in modo arbitrariamente irragionevole, posto che la procedura prevista sarebbe lesiva dell’art. 24 Cost., essendo il diritto di difesa vulnerato, «perché reso possibile solo attraverso una sorta di contraddittorio da svolgersi in un ambito e con un giudizio domestico»;

che è intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo nel senso della inammissibilità o infondatezza della questione sollevata;

che la difesa pubblica rileva, infatti, l’insufficiente descrizione della fattispecie, la quale impedisce la verifica della rilevanza della questione proposta;

che, aggiunge la difesa erariale, l’ordinanza, sarebbe priva della motivazione in ordine agli effetti che dalla declaratoria di illegittimità costituzionale deriverebbero nel giudizio a quo;

che, aggiunge la Avvocatura, la questione sarebbe comunque infondata, poiché diversamente da quanto asserito dal rimettente, anche la disposizione censurata prevede che la fase della constatazione iniziale della condotta non competa al Prefetto, ma a diverso soggetto, spettando al primo solo il compito di procedere alla notificazione degli estremi della violazione da altri contestata;

che, non sussistendo alcuna sostanziale differenza rispetto alla disciplina di cui alla legge n. 698 del 1981, non sarebbe ravvisabile alcuna disparità di trattamento, mentre non si riscontrerebbe la violazione dei principi costituzionali in tema di diritto di difesa in quanto, in questo caso, così come in base alla ordinaria disciplina in tema di sanzioni amministrative, la attività di accertamento materiale della violazione non sarebbe svolta dal medesimo organo cui è attribuito il compito di verificare, in contraddittorio con gli interessati ed alla luce delle deduzioni eventualmente presentate da costoro, la sussistenza delle condizioni per l’applicazione delle sanzioni.

Considerato che il Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 8-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), introdotto dall’art. 33 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), in quanto esso prevede che, nel procedimento volto alla emissione dell’ordinanza prefettizia di applicazione delle sanzioni a seguito della emissione di assegni bancari senza autorizzazione o privi di provvista, le deduzioni presentate dall’interessato successivamente alla contestazione della condotta illecita, siano valutate dal Prefetto e non da altra autorità;

che, con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., il giudice a quo, in sintesi, ritiene, per un verso, che la disposizione censurata sia irragionevole in quanto prevede che le predette deduzioni difensive siano valutate dallo stesso organo che ha contestato l’illecito amministrativo e che è competente per la irrogazione della sanzione, e, per altro verso, che siffatta procedura, in quanto, appunto, non prevede che l’organo preposto a contestare l’illecito sia distinto da quello che, valutate le deduzioni difensive, provvede, se del caso, alla irrogazione della sanzione, sia fonte di un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla normativa applicabile per gli illeciti amministrativi sanzionati ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale);

che, ad avviso del rimettente, il descritto meccanismo procedimentale si porrebbe anche in contrasto col diritto di difesa, presidiato dall’art. 24 Cost.;

che la questione è manifestamente inammissibile con riferimento agli enunciati parametri di cui agli artt. 3 e 113 Cost. mentre è manifestamente infondata con riferimento al parametro rappresentato dall’art. 24 Cost.;

che, in particolare, il Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo omette di considerare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non è utilmente evocabile quale parametro di legittimità costituzionale l’art. 24 Cost., ove la disposizione censurata abbia ad oggetto non un procedimento di natura giurisdizionale ma, come nel caso che qui interessa, esclusivamente una procedura di carattere amministrativo (ordinanze n. 210 del 1995, n. 103 del 1993 e n. 146 del 1963) e, siffatta erroneità, determina, quindi, la manifesta infondatezza della questione sollevata con riferimento a tale parametro;

che, con riferimento all’art. 113 Cost., il rimettente trascura del tutto di chiarire in che modo la norma oggetto dell’incidente di costituzionalità si porrebbe in contrasto con l’indicato parametro e che, quindi, sotto tale aspetto, la questione è manifestamente inammissibile;

che, infine, riguardo alla violazione dell’art. 3 Cost., sotto la duplice prospettazione della disparità di trattamento e della irragionevolezza intrinseca, il petitum formulato dal rimettente è oscuro e, comunque, esulante dai poteri di questa Corte;

che, infatti – pur prescindendosi dal rilievo che, attesa la incomparabilità tra le procedure sanzionatorie previste dalla legge n. 689 del 1981 e quelle contemplate dall’art. 8-bis della legge n. 386 del 1990, dovuta alle numerose peculiarità che rispettivamente le differenziano, l’una non può essere posta come termine di paragone dell’altra (da ultimo, sentenza n. 132 del 2009 e ordinanze n. 344 del 2008 e n. 405 del 2007) e che i dubbi formulati dal rimettente, in ordine alla ragionevolezza della attribuzione della competenza a valutare le deduzioni difensive allo stesso soggetto che ha contestato la commissione dell’illecito, non tengono conto del fatto che, nella specifica procedura ora in esame, la contestazione da parte del Prefetto non assume alcuna funzione valutativa, rendendosi essa non irragionevole in quanto il soggetto che ha riscontrato la emissione dell’assegno bancario privo di autorizzazione o senza provvista, e che di ciò informa il Prefetto territorialmente competente, potrebbe anche essere estraneo alla pubblica amministrazione e, persino, sprovvisto di potestà di carattere pubblico e, pertanto, come tale, non idoneo a contestare l’illecito –, deve osservarsi che non risulta chiaro nell’ordinanza se il rimettente, onde rimuovere i ritenuti vizi di costituzionalità, chiede a questa Corte di introdurre, anche nella ipotesi di emissione di assegni privi di autorizzazione o senza provvista, un meccanismo che, a guisa di quanto stabilito dall’art. 14 della legge n. 689 del 1981, preveda che la violazione sia contestata immediatamente dallo stesso soggetto (ovvero da funzionario della stessa amministrazione) che la ha accertata, oppure se egli chiede che, al medesimo fine di cui sopra, la Corte, intervenendo in via manipolativa sulla norma censurata, disponga affinché la competenza a prendere in esame le deduzioni difen sive presentate dall’interessato, nonché ad adottare i succ essivi provvedimenti – sanzionatori o di archiviazione – spetti ad un’autorità “sovraordinata” al Prefetto;

che siffatta ambiguità – non disgiunta dalla evidente, in ambedue i casi, funzione creativa dell’intervento demandato a questa Corte, come tale estraneo ai suoi poteri trattandosi di materia rimessa alla discrezionalità del legislatore – determina la manifesta inammissibilità, anche sotto gli indicati profili, della questione di legittimità costituzionale.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), introdotto dall’art. 33 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 113 della Costituzione, dal Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 8-bis della legge n. 386 del 1990 sollevata, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dal Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 78

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Varese nel procedimento penale a carico di V. T. ed altri, con ordinanza del 13 febbraio 2008, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza del 13 febbraio 2008, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Varese ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, al termine delle indagini preliminari, sia tenuto a formulare richiesta di archiviazione in ogni ipotesi nella quale il giudice per le indagini preliminari o il «tribunale del riesame», con provvedimenti non impugnati, si siano espressi sulla mancanza dei gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 cod. proc. pen., e non siano stati successivamente acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini;

che il rimettente riferisce che, nel procedimento a quo, la misura cautelare già disposta nei confronti degli attuali imputati era stata revocata dal Giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., per sopravvenuta mancanza di indizi di reità, alla luce delle indagini difensive svolte;

che l’ordinanza di revoca della misura non era stata impugnata dal pubblico ministero, il quale aveva indi esercitato l’azione penale, pur non avendo acquisito ulteriori elementi a carico degli imputati;

che i difensori degli imputati avevano eccepito la nullità della richiesta di rinvio a giudizio, assumendo che l’esercizio dell’azione penale sarebbe avvenuto in violazione dell’art. 405, comma 1-bis, cod. proc. pen. (violazione da reputare riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 178, lettera b, dello stesso codice): ciò in quanto l’ordinanza del giudice di merito non impugnata, costituente «giudicato cautelare», andrebbe assimilata alla pronuncia della Corte di cassazione ai fini dell’operatività del citato art. 405, comma 1-bis, cod. proc. pen., in forza del quale «il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle ind agini»;

che – ad avviso del rimettente – tale tesi non potrebbe essere condivisa, avendo la disposizione censurata natura eccezionale, in quanto derogatoria del principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost.: circostanza che impedirebbe di attribuirle, in via di interpretazione analogica od estensiva, una portata più ampia di quella risultante dalle espressioni usate;

che, recependo l’istanza subordinata dei difensori, il giudice a quo reputa, tuttavia, di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, cod. proc. pen. per contrasto con l’art. 3 Cost.;

che la norma censurata, limitando alla sola pronuncia della Corte di cassazione l’effetto preclusivo dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, creerebbe, infatti, un’irragionevole discriminazione tra situazioni identiche, in violazione del principio di uguaglianza;

che nessuna differenza sarebbe, infatti, ravvisabile nell’ipotesi in cui siano il giudice per le indagini preliminari o il tribunale del riesame, anziché la Corte di cassazione, ad un adottare un provvedimento in cui viene affermata l’insussistenza dei requisiti legittimanti la limitazione della libertà dell’indagato;

che la disposizione impugnata mirerebbe, in effetti, ad impedire che la pubblica accusa formuli richieste di rinvio a giudizio basate su un quadro indiziario del quale è stata riconosciuta l’inconsistenza nella fase cautelare, e che non risulti arricchito da alcun elemento ulteriore;

che, a tale fine, non sarebbe peraltro necessario percorrere tutti i gradi del giudizio cautelare: la pronuncia del giudice per le indagini preliminari che – tanto in sede di rigetto di una richiesta di misura cautelare, quanto in sede di accoglimento dell’istanza di revoca di una misura già adottata – accerti la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, non avrebbe, infatti, sul piano delle conseguenze in tema di libertà dell’indagato, una valenza inferiore rispetto al vaglio, pur qualificato, della Corte di cassazione, e non potrebbe produrre, quindi, effetti diversi in rapporto all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero;

che, per contro, esigendo l’intervento della Corte di cassazione, la norma censurata finirebbe per rimettere allo stesso pubblico ministero – ossia proprio all’organo le cui «prerogative» si intendono limitare – la «sorte processuale» dell’indagato, col risultato di esporre ad un diverso trattamento anche indagati nel medesimo procedimento: a fronte di una pronuncia cautelare a sé sfavorevole, il pubblico ministero potrebbe infatti decidere, a suo arbitrio, di non adire i giudici superiori, conservando così – pur in assenza di ulteriori elementi di accusa – la facoltà di esercitare l’azione penale.

Considerato che, con il quesito di costituzionalità, il giudice rimettente mira ad ampliare l’ambito di applicazione dell’art. 405, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), il quale stabilisce che, «al termine delle indagini», il pubblico ministero debba formulare richiesta di archiviazione allorché ricorrano due condizioni: e, cioè, da un lato, che «la Corte di cassazione si [sia] pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza», ai sensi dell’art. 273 cod. proc. pen.; e, dall’altro, che «non [siano] stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini»;

che il giudice a quo reputa, in particolare, eccessivamente restrittiva la prima delle due condizioni, assumendo che – onde evitare la violazione dell’art. 3 della Costituzione – l’obbligo dell’organo dell’accusa di chiedere l’archiviazione debba operare anche quando la gravità indiziaria, di cui all’art. 273 cod. proc. pen., sia stata esclusa dal giudice per le indagini preliminari o dal tribunale del riesame con decisione non impugnata e senza che ad essa abbia fatto seguito un arricchimento del materiale investigativo;

che con sentenza n. 121 del 2009, successiva all’ordinanza di rimessione, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima nella sua interezza la norma che il rimettente vorrebbe vedere ampliata, sul rilievo della incompatibilità della richiesta “obbligata” di archiviazione, da essa prefigurata, con gli artt. 3 e 112 Cost.;

che, di conseguenza, la questione di costituzionalità oggi in esame è divenuta priva di oggetto e va quindi dichiarata manifestamente inammissibile;

che, infatti, attenendo la questione alla medesima norma già rimossa dall’ordinamento con efficacia ex tunc dalla ricordata declaratoria di incostituzionalità, resta preclusa al giudice a quo una nuova valutazione della perdurante rilevanza del quesito, valutazione che sola potrebbe giustificare la restituzione degli atti al rimettente (con riferimento a questioni analoghe all’attuale, ordinanza n. 126 del 2009).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Varese con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N.79

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 7, della legge della Regione Abruzzo 24 marzo 2009, n. 4 (Principi generali in materia di riordino degli Enti locali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso spedito per la notifica il 26 maggio 2009, depositato in cancelleria il 3 giugno 2009 ed iscritto al n. 34 del registro ricorsi 2009.

Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

Ritenuto che con ricorso notificato il 26 maggio 2009 e depositato il successivo 3 giugno (iscritto nel reg. ric. n. 34 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 7, ultimo periodo, della legge della Regione Abruzzo 24 marzo 2009, n. 4 (Principi generali in materia di riordino degli Enti locali), pubblicata nel Bollettino ufficiale regionale n. 20 del 27 marzo 2009;

che l’impugnato art. 5, dopo aver disciplinato le nomine degli organi di vertice degli enti regionali, al comma 7 stabilisce che le indennità di carica degli amministratori, oltre a non poter essere cumulate con le indennità spettanti ai componenti delle Camere e del Parlamento europeo, non sono cumulabili con nessun altro emolumento fisso o variabile derivante da nomina politica di competenza regionale anche presso enti pubblici economici;

che, in particolare, questo divieto di cumulo, come testualmente dispone l’impugnato ultimo periodo dell’art. 5, «non vale per gli amministratori dei comuni al di sotto dei 5000 abitanti»;

che, secondo il ricorrente, la denunciata previsione violerebbe i princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica dettati dall’art. 2, commi 25 e 26, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2008);

che, più precisamente, il comma 25, dell’art. 2, nel sostituire l’art. 82, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), prevede: che i consiglieri comunali, provinciali, circoscrizionali, limitatamente ai comuni capoluogo di provincia, e delle comunità montane hanno diritto a percepire un gettone di presenza per la partecipazione a consigli e commissioni; che in nessun caso l’ammontare mensile può superare l’importo pari ad un quarto dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente; che nessuna indennità è dovuta ai consiglieri circoscrizionali;

che lo stesso art. 25 ha abrogato il comma 6 dell’art. 82, del decreto legislativo n. 267 del 2000, il quale consentiva il cumulo tra indennità di funzione e gettoni di presenza, ove dovuti per mandati elettivi presso enti diversi ricoperti dalla stessa persona;

che, dal canto suo, il comma 26 dell’art. 2 ha integralmente sostituito l’art. 83 del decreto legislativo n. 267 del 2000, fissando il divieto per i parlamentari nazionali ed europei, nonché per i consiglieri regionali, di percepire i gettoni di presenza previsti, per gli amministratori locali, dal decreto legislativo n. 267 del 2000;

che, dunque, la disposizione impugnata sarebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, «oltre che con l’art. 97 Cost.», per violazione dell’art. 82 del decreto legislativo n. 267 del 2000, come modificato, in quanto, nel fare eccezione al divieto con riferimento a qualsivoglia emolumento fisso o variabile, consentirebbe il venir meno del divieto generale di cumulo tra indennità di funzione e gettoni di presenza anche al di là dei limiti mensili ivi espressamente stabiliti, nonché per violazione dell’art. 83 dello stesso decreto legislativo n. 267 del 2000, come modificato, in quanto consentirebbe agli amministratori in parola di cumulare all’indennità, ad essi spettante, i compensi relativi alla partecipazione ad organi o commissioni comunque denominate anche se tale partecipazione è connessa all’esercizio di funzioni pubbliche;

che la disposizione impugnata sarebbe, altresì, in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, giacché la specifica eccezione così stabilita sarebbe irragionevole ed ingiustificata, oltre a porsi in evidente contrasto con il principio di eguaglianza, avendo introdotto un regime di favore esclusivamente nei confronti degli amministratori di piccoli comuni;

che la Regione Abruzzo, pur non costituitasi nel presente giudizio, ha presentato istanza di estinzione del giudizio per sopravvenuta cessazione della materia del contendere, giacché l’art. 6 della legge della Regione Abruzzo 4 agosto 2009, n. 12 (Disposizioni di carattere urgente ed indifferibile), ha abrogato l’impugnata disposizione e la stessa non ha avuto medio tempore applicazione alcuna;

che con atto notificato il 20 novembre 2009 e depositato il successivo 27 novembre, il Presidente del Consiglio dei ministri ha rinunciato al presente ricorso.

Considerato che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte convenuta, la rinuncia al ricorso comporta, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (cfr., tra le più recenti, la sentenza n. 247 del 2009 e le ordinanze n. 14 e n. 8 del 2010; n. 292, n. 136 e n. 48 del 2009).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente e Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

SENTENZA N. 80

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 413 e 414, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), promosso dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana nel procedimento vertente tra il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ed altri e A.F. e C.G. in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlia minore A.J.R., con ordinanza del 26 marzo 2009, iscritta al n. 230 del registro ordinanze 2009, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

Ritenuto in fatto

1. – Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con ordinanza del 26 marzo 2009, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, primo comma, 10, primo comma, 30, primo e secondo comma, 31, primo comma, 34, primo comma, 35, primo e secondo comma, 38, terzo e quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 413 e 414, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008).

In punto di fatto, il rimettente riferisce di essere investito dell’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nei confronti di A.F. e C.G., in proprio e in qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlia minore A.J.R, avverso il provvedimento cautelare emesso dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, con il quale si ordinava all’amministrazione il ripristino dell’assegnazione di un docente di sostegno alla indicata minore, per 25 ore settimanali.

La suddetta fase cautelare trae origine dal ricorso proposto dalle indicate parti private avverso il provvedimento con il quale l’amministrazione scolastica, in sede di formazione degli organici, aveva assegnato alla ricorrente, affetta da ritardo psicomotorio e crisi convulsive da encefalopatia grave, un docente solo per 12 ore settimanali.

Il citato provvedimento comprometteva, a parere dei ricorrenti, il diritto del disabile ad una effettiva assistenza didattica; diritto tutelato dalla Costituzione e da norme internazionali.

In punto di diritto, il rimettente, dopo aver riportato i motivi posti a fondamento dell’atto di appello avverso l’ordinanza cautelare indicata, osserva che il tema dell’inserimento dei disabili nella scuola è stato, in un primo momento, risolto dall’ordinamento per mezzo della creazione di scuole speciali e di classi differenziali; orientamento successivamente modificato a favore di una formazione che doveva avvenire in classi comuni nell’ambito della scuola pubblica mediante l’intervento di insegnanti di sostegno.

Tale nuovo indirizzo veniva, poi, ulteriormente rafforzato con la legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), la quale, nel fissare i principi della piena integrazione delle persone disabili, agli artt. 12 e 13 garantisce loro il necessario sostegno per mezzo di docenti specializzati, al fine della loro integrazione scolastica.

Il giudice a quo riporta le ulteriori norme che hanno confermato i suddetti principi e, in particolare, l’art. 40 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), che assicura l’integrazione scolastica degli alunni disabili con interventi adeguati al tipo ed alla gravità dell’handicap, compreso il ricorso all’ampia flessibilità organizzativa e funzionale delle classi, nonché la possibilità di assumere con contratto a tempo determinato insegnanti di sostegno in deroga al rapporto docenti ed alunni, indicato al comma 3 della suddetta disposizione, in presenza di handicap particolarmente gravi.

In particolare, il citato art. 40 non generalizza tutti i casi di disabilità, ma si ispira al diverso principio secondo il quale ciascun intervento deve tener conto del grado e della tipologia di deficit di cui è portatore il singolo individuo, ponendosi, in tal modo, in linea di continuità con quanto già previsto dagli artt. 3, 12, 16 e 17 della legge n. 104 del 1992, in ambito di istruzione e di formazione professionale dei disabili.

Il rimettente osserva che le disposizioni censurate hanno soppresso il trattamento in deroga previsto dall’art. 40, in tal modo contraddicendo la ratio che aveva caratterizzato l’indirizzo normativo sopra riportato, in ragione del quale ad un maggiore livello di disabilità deve corrispondere un maggior grado di assistenza, al fine di consentire al disabile di superare il suo svantaggio e di porlo in condizione di parità con gli altri.

La conclusione di tale iter argomentativo comporta, a parere del rimettente, che le disposizioni censurate, nel sottoporre ad un’unica disciplina tutti i disabili, non garantiscono a quelli che versano in condizioni di maggiore gravità il diritto alla integrazione scolastica.

Il rimettente ritiene, pertanto, che le norme censurare contrastino con la giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’esercizio di ogni diritto, anche se costituzionalmente garantito, può essere regolato e limitato dal legislatore, sempre che ciò sia compatibile con la funzione del diritto di cui si tratta e non si traduca in una sostanziale elusione dello stesso.

1.1. – Così ricostruita la fattispecie sottoposta al suo giudizio ed il quadro normativo di riferimento, il rimettente, in punto di non manifesta infondatezza, sostiene quanto segue:

1.1.1 – in primo luogo, il rimettente ritiene che i commi 413 e 414 dell’art. 2 della legge n. 244 del 2007 violano gli artt. 2, 3, 38, terzo e quarto comma, Cost.

In proposito il giudice a quo osserva che la Costituzione, nel riconoscere valore fondamentale alla persona come individuo, pone, a tal fine, a carico della collettività un obbligo di solidarietà, assumendo nel caso concreto rilievo l’art. 38, commi terzo e quarto, Cost., che sanciscono il diritto dei disabili all’educazione assegnando il correlativo obbligo allo Stato.

Rileva, poi, il giudice a quo che l’equiparazione di tutti i disabili compiuta dal legislatore sulla base delle norme censurate sarebbe anche irragionevole, poiché appresta lo stesso grado di assistenza a tutti i disabili, indipendentemente dal loro grado di disabilità, ponendo in essere una disparità di trattamento, in quanto proprio la gravità dell’handicap giustificava lo standard più elevato di tutela rispetto a quello minimo garantito per i disabili lievi e ciò al fine di assicurare a tutti lo stesso diritto all’istruzione.

A ciò conseguirebbe l’ulteriore violazione dell’art. 3, comma secondo, Cost., che impone allo Stato di rimuovere gli ostacoli che limitano lo sviluppo della persona umana.

Altri profili di irragionevolezza delle norme impugnate vengono individuati dal rimettente nel fatto che, da un lato, nel sopprimere il trattamento in deroga previsto per i disabili gravi, dette norme si pongono, tuttavia, l’obiettivo di rispettare i principi sulla integrazione degli alunni diversamente abili fissati dalla legge n. 104 del 1992, e, dall’altro, nel contemperare il diritto dei disabili gravi con l’esigenza di bilancio, fanno prevalere quest’ultima.

1.1.2 – I commi 413 e 414 dell’art. 2 della legge n. 244 del 2007 violano, secondo il rimettente, anche gli artt. 4, primo comma, 35 primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 38, terzo comma, Cost.

Se, infatti, gli artt. 4 e 35 Cost. tutelano e garantiscono il diritto al lavoro, l’art. 38 Cost. riconosce il suddetto diritto in capo ai disabili, con la conseguenza che le disposizioni censurate «facendo venir meno le condizioni minime per la integrazione scolastica» pregiudicano «anche ogni possibilità di […] avviamento professionale in contrasto con i parametri costituzionali suelencati».

1.1.3 – Il giudice a quo ritiene, poi, che le disposizioni censurate siano in contrasto con l’art. 10 Cost., in relazione agli artt. 2, 3, secondo comma, 4, primo comma, 35, primo e secondo comma e 38, terzo comma, Cost.

In particolare, l’art. 10, primo comma, Cost. impone l’adeguamento dell’ordinamento interno alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

Il rimettente, dopo aver premesso che l’ordinamento internazionale apparirebbe «univocamente orientato ad assicurare ai disabili una tutela effettiva e non meramente teorica», richiama diversi atti internazionali sia a livello universale che regionale a tutela dei disabili; atti che, a suo avviso, sarebbero stati violati dalle norme impugnate. In particolare, menziona la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre 1948; il Protocollo n. 1 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Parigi il 20 marzo 1952; la Carta sociale europea (riveduta), adottata a Strasburgo il 3 maggio 1996 e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006.

A completamento del quadro normativo internazionale ora indicato, il giudice a quo richiama, inoltre, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione a Nizza il 7 dicembre 2000, nonché il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa firmato a Roma il 29 ottobre 2004.

1.1.4 – Infine, il rimettente ritiene che le disposizioni censurate siano lesive degli artt. 34, primo comma e 38, terzo e quarto comma, Cost., in riferimento agli artt. 30, primo e secondo comma e 31, primo comma, Cost., i quali sanciscono i principi «che la scuola è aperta a tutti e che l’istruzione inferiore è obbligatoria, che anche i disabili hanno diritto all’educazione e che a questo compito provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato», anche in «funzione suppletiva rispetto alla famiglia».

Le norme censurate, a parere del rimettente, non garantirebbero tali diritti in quanto non assicurerebbero al disabile grave, come nel caso di specie, neppure l’istruzione obbligatoria cui ha diritto ex art. 34 Cost. e, conseguentemente, neppure quella di grado superiore, cui pure ha diritto ex art. 38, terzo comma, Cost., finalizzata al suo inserimento nel mondo del lavoro.

Con la disciplina impugnata risulterebbe essere venuta meno, altresì, la funzione affidata allo Stato per rendere effettivo il diritto all’istruzione ex art. 38, quarto comma, Cost., con conseguente ulteriore lesione del corrispondente compito affidato alla famiglia e, in via surrogatoria allo Stato, previsto dall’art. 30, primo e secondo comma, Cost.

Nella stessa «ottica si muove anche l’art. 31, primo comma, Cost. il quale fa carico allo Stato di agevolare l’adempimento dei compiti della famiglia (tra cui è ricompressa l’istruzione) ed appare perciò strutturalmente interconnesso con la concreta attuazione degli obblighi famigliari».

1.2. – In punto di rilevanza, il rimettente osserva che dagli atti di causa risulta provato lo stato di disabilità grave di cui è affetta la ricorrente (riconoscimento dall’apposita commissione medica, attribuzione per l’anno scolastico 2008/2009 delle 25 ore di sostegno settimanale) e che, stante il tenore letterale dell’art. 2, comma 414, della legge n. 244 del 2007, solo l’eventuale accoglimento della questione di legittimità sollevata potrebbe comportare il rigetto dell’appello cautelare e, conseguentemente, il ripristino delle 25 ore di sostegno settimanali; misura quest’ultima, precisa ancora il rimettente, che «le commissioni mediche e sociopedagogiche hanno ritenuto essere il minimo necessario per rendere effettivo» il diritto della ricorrente all’integrazione scolastica ed alla sua istruzione.

2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o infondata la questione sollevata dal Consiglio della giustizia amministrativa per la Regione Siciliana.

La difesa dello Stato, riportato il testo delle disposizioni censurate, osserva che il nostro Paese ha sempre posto come priorità l’inserimento degli alunni disabili nel mondo scolastico e, successivamente, nella vita lavorativa.

2.1. – Ricostruito il quadro normativo di riferimento, l’Avvocatura ritiene la questione inammissibile per non aver il rimettente motivato in ordine alla rilevanza della stessa.

In particolare, la normativa impugnata, comporta una riforma del sistema di tutela del disabile in grado di garantire a quest’ultimo la fruizione dei diritti costituzionali a lui assegnati. Il comma 413, infatti, pur limitando il numero di posti di insegnanti di sostegno, a decorrere dall’anno 2008-2009, «impone che […] venga assicurata la piena integrazione degli alunni disabili richiamando, a tal uopo, gli strumenti e le direttive» già individuati dall’art. 1, comma 605, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007) «e, pertanto, anche mediante compensazioni tra Province diverse».

Il rimettente non indica i motivi per i quali i suddetti strumenti e, in particolare, la citata compensazione (che consente l’adattamento dell’organico vigente alla dislocazione territoriale), non sono in grado di dare piena tutela alla ricorrente nel giudizio a quo.

Il giudice a quo avrebbe, infatti, erroneamente ritenuto che l’unica possibile tutela per la ricorrente poteva essere l’applicazione della deroga prevista dall’art. 40 della legge n. 499 del 1997, non tenendo conto che essa «si inseriva […] in un contesto normativo completamente diverso» da quello costituito dalle norme censurate.

2.2. – Nel merito, la difesa erariale ritiene la questione infondata.

Osserva l’Avvocatura che il rimettente chiede che sia riconosciuto il diritto ad un numero maggiore di ore di sostegno rispetto a quello individuato dai competenti organi amministrativi.

Tale diritto, a suo avviso, «non può essere identificato tout court con il diritto allo studio o alla salute», essendo più assimilabile ad una mera aspettativa verso lo Stato quale erogatore di pubblici servizi.

In sostanza, quindi, con la sollevata questione il rimettente chiede alla Corte l’adozione di una sentenza additiva che comporterebbe da un lato «nuove o maggiori spese a carico del bilancio statale senza indicare i mezzi per farvi fronte», in violazione dell’art. 81 Cost., e dall’altro, porterebbe la Corte a sostituirsi al legislatore, al quale è demandata l’individuazione delle concrete modalità con le quali realizzare la tutela invocata nel giudizio a quo.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, l’Avvocatura richiama la sentenza n. 251 del 2008 con la quale la Corte ha affermato che, in materia di tutela dei disabili, è compito del legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, individuare gli strumenti più idonei al fine di attuare la suddetta tutela, non potendo ciò essere richiesto alla Corte stessa.

In conclusione, le norme censurate sarebbero frutto del corretto esercizio della citata discrezionalità del legislatore che, nel bilanciare i diversi interessi coinvolti (quello allo studio del disabile e del contenimento della spesa pubblica), ha eliminato la possibilità di derogare al numero di ore di sostegno per i disabili più gravi, pur senza far venir meno il loro diritto all’educazione scolastica.

2.2.1 – In particolare, quanto alla presunta violazione degli artt. 2, 3 e 38 Cost., la difesa dello Stato ritiene che l’attuale disciplina non pregiudica i diritti del disabile, come sostenuto dal rimettente, in considerazione della molteplicità degli interventi normativi a favore di tali persone previsti dagli artt. 12, 13 e 14 della legge n. 104 del 1992.

Specificamente, è prevista l’istituzione, per i minori ricoverati, di classi ordinarie quali sezioni staccate della scuola statale (art. 12, comma 9); la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, eccetera (art. 13, comma 2, lett. a); la dotazione alle scuole e alle università di attrezzature tecniche e di sussidi didattici (art. 13, comma 2, lett. b) recte: comma 1, lett. a); l’obbligo per gli enti locali di garantire l’attività di sostegno con assegnazione di docenti specializzati (art. 13, comma 3); lo svolgimento di attività didattiche con piani educativi individualizzati (art. 13, comma 5); l’organizzazione dell’attività didattica secondo il criterio della flessibilità nell’articolazione delle classi e delle sezioni in relazione alla programmazione scolastica individualizzata (art. 14, comma 1, lett. b); la continuità educati va tra i diversi gradi di scuola (art. 14, comma 1, lett. c).

Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, tale molteplicità di interventi non può comportare che, laddove è previsto che siano garantite attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati (art. 13 citato), la persona disabile abbia «il diritto a vedersi attribuito un insegnante di sostegno per un numero di ore predeterminato», dovendo l’amministrazione provvedere in tal senso tenendo conto anche delle risorse economiche disponibili.

2.2.2 – Con il secondo motivo il rimettente sostiene che le disposizioni censurate si pongano in contrasto con gli artt. 4 e 35 Cost., in relazione all’art. 38, terzo comma, Cost., perché farebbero venir meno le condizioni minime per l’integrazione scolastica, con ripercussioni negative sull’avviamento professionale.

In ragione delle citate norme contenute nella legge n. 104 del 1992, l’Avvocatura ritiene che anche la censura in esame sia infondata.

Non sarebbe stato leso neanche l’inserimento del disabile nel mondo del lavoro, essendo quest’ultimo garantito da apposite norme contenute nella legge 12 marzo 1999, n. 68 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili).

2.2.3 – In relazione alla denunciata violazione dell’art. 10 Cost., l’interveniente rileva che tale disposizione si riferisce alle norme di diritto internazionale consuetudinario, laddove il giudice a quo si limita a richiamare norme pattizie «senza evidenziare le parti in cui le stesse sarebbero riproduttive di analoghe norme consuetudinarie esistenti nella Comunità internazionale».

L’Avvocatura osserva, inoltre, che le norme internazionali richiamate dal rimettente avrebbero carattere meramente programmatico e lascerebbero agli Stati la discrezionalità nell’individuare le misure con le quali assicurare la fruizione dei suddetti diritti.

2.2.4 – La difesa dello Stato sostiene, infine, che anche le censure relative alla violazione degli artt. 34 e 38 Cost., in relazione agli artt. 30 e 31 Cost. siano infondate, in quanto il legislatore non avrebbe pregiudicato il diritto del disabile all’istruzione obbligatoria di cui all’art. 34 Cost., data la molteplicità degli interventi disposti in tal senso e che la riduzione delle ore di sostegno consentirebbe, comunque, l’integrazione scolastica delle persone disabili.

Non sarebbe leso neanche il diritto del disabile all’inserimento nel mondo del lavoro, previsto dall’art. 38, terzo comma, Cost., e lo Stato non sarebbe venuto meno al suo obbligo di affiancare o sostituire la famiglia nella cura del disabile, come previsto dagli artt. 38, quarto comma, e 30, primo comma, Cost.

Considerato in diritto

1. – Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 413 e 414, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), nella parte in cui, rispettivamente, fissano un limite al numero degli insegnanti di sostegno e aboliscono la possibilità di assumere con contratto a tempo determinato i suddetti insegnanti, in deroga al rapporto docenti ed alunni indicato dall’art. 40, comma 3, della legge n. 449 del 1997, in presenza di disabilità particolarmente gravi.

Ad avviso del giudice rimettente le norme censurate violerebbero gli artt. 2, 3, 38, terzo e quarto comma, della Costituzione, in quanto, in contrasto con i valori di solidarietà collettiva nei confronti dei disabili gravi, ne impedirebbero «il pieno sviluppo, la loro effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese» ed introdurrebbero «un regime discriminatorio illogico e irrazionale» che non terrebbe conto del diverso grado di disabilità di tali persone, incidendo così sul nucleo minimo dei loro diritti.

Sarebbero, altresì, violati gli artt. 4, primo comma, 35, primo e secondo comma, in relazione all’art. 38, terzo comma, Cost., in quanto da tale violazione deriverebbe l’impossibilità per il disabile grave di conseguire «il livello di istruzione obbligatoria prevista», «quello superiore» e «l’avviamento professionale propedeutico per l’inserimento nel mondo del lavoro».

Le disposizioni statali sopra indicate sono, inoltre, sospettate d’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 10, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2, 3, 4, 35 e 38 Cost., in quanto si porrebbero in contrasto con «i principi (recte: norme) di diritto internazionale generalmente riconosciute a favore dei disabili», nonché con il diritto del disabile al pieno sviluppo della sua personalità (art. 2), con il principio di non discriminazione (art. 3), con il diritto all’educazione e all’inserimento nel mondo del lavoro (art. 38).

Infine, le norme censurate sono ritenute di dubbia compatibilità con gli artt. 34, primo comma, e 38, terzo e quarto comma, Cost., in relazione agli artt. 30, primo e secondo comma, e 31, primo comma, Cost., in quanto vanificano «per i disabili gravi la possibilità di accedere alla istruzione in tutte le sue forme e funzioni e disconosc[ono] gli obblighi in tal senso costituzionalmente previsti a carico dello Stato anche in funzione suppletiva della famiglia».

2. – In via preliminare, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità prospettata dal Presidente del Consiglio dei ministri sotto il profilo del difetto di rilevanza.

La difesa erariale osserva, infatti, che il comma 413, pur limitando il numero di posti di insegnanti di sostegno, «impone […] che venga assicurato lo sviluppo dei processi di integrazione degli alunni disabili, richiamando gli strumenti e le direttive individuati» dall’art. 1, comma 605, della citata legge n. 296 del 2006 «e, pertanto, anche mediante compensazioni tra Province diverse». Il rimettente, invero, nel sollevare la presente questione di legittimità costituzionale, non ha indicato i motivi per i quali i suddetti strumenti e, in particolare, la citata compensazione non sono in grado di dare piena tutela alla ricorrente nel giudizio a quo.

In realtà il giudice rimettente è chiamato a pronunciarsi su un provvedimento dell’amministrazione scolastica che, in applicazione delle disposizioni impugnate, ha negato il riconoscimento delle ore di sostegno inizialmente accordate, quindi tenendo conto anche degli strumenti alternativi previsti dalle suddette disposizioni, ivi compreso il citato meccanismo della compensazione delle province.

2.1. – Sempre in via preliminare devono essere dichiarate inammissibili le censure relative alla violazione degli artt. 4, primo comma, 35, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 38 Cost., nonché degli artt. 34, primo comma, e 38, terzo e quarto comma, Cost., in relazione agli artt. 30, primo e secondo comma, e 31, primo comma, Cost., in quanto non sufficientemente argomentate, risultando così formulate in modo generico ed apodittico (ex plurimis ordinanza n. 344 del 2008).

3. – Nel merito la questione è fondata.

Preliminarmente va precisato che i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità: alcune hanno carattere lieve ed altre gravi. Per ognuna di esse è necessario, pertanto, individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risulti essere affetta in concreto una persona.

Ciascun disabile è coinvolto in un processo di riabilitazione finalizzato ad un suo completo inserimento nella società; processo all’interno del quale l’istruzione e l’integrazione scolastica rivestono un ruolo di primo piano.

4. – Sotto il profilo normativo, il diritto all’istruzione dei disabili è oggetto di specifica tutela da parte sia dell’ordinamento internazionale che di quello interno. In particolare, per quanto attiene alla normativa internazionale, viene in rilievo la recente Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008 e ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18, il cui art. 24 statuisce che gli Stati Parti «riconoscono il diritto delle persone con disabilità all’istruzione». Diritto, specifica la Convenzione in parola, che deve essere garantito, anche attraverso la predisposizione di accomodamenti ragionevoli, al fine di «andare incontro alle esigenze individuali» del disabile (art. 24, par. 2, lett. c), della Convenzione).

Quanto all’ordinamento interno, in attuazione dell’art. 38, terzo comma, Cost., il diritto all’istruzione dei disabili e l’integrazione scolastica degli stessi sono previsti, in particolare, dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate); legge che, come già osservato da questa Corte, è volta a «perseguire un evidente interesse nazionale, stringente ed infrazionabile, quale è quello di garantire in tutto il territorio nazionale un livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionali fondamentali dei soggetti portatori di handicaps» (sentenza n. 406 del 1992).

In particolare, l’art. 12 della citata legge n. 104 del 1992 attribuisce al disabile il diritto soggettivo all’educazione ed all’istruzione a partire dalla scuola materna fino all’università (comma 2). Questa Corte ha già avuto modo di precisare che la partecipazione del disabile «al processo educativo con insegnanti e compagni normodotati costituisce, infatti, un rilevante fattore di socializzazione e può contribuire in modo decisivo a stimolare le potenzialità dello svantaggiato» (sentenza n. 215 del 1987).

Pertanto, il diritto del disabile all’istruzione si configura come un diritto fondamentale. La fruizione di tale diritto è assicurata, in particolare, attraverso «misure di integrazione e sostegno idonee a garantire ai portatori di handicaps la frequenza degli istituti d’istruzione» (sentenza n. 215 del 1987).

Tra le varie misure previste dal legislatore viene in rilievo quella del personale docente specializzato, chiamato per l’appunto ad adempiere alle «ineliminabili (anche sul piano costituzionale) forme di integrazione e di sostegno» a favore degli alunni diversamente abili (sentenza n. 52 del 2000).

Sempre nell’ottica di apprestare un’adeguata tutela dei disabili, in particolare per quelli che si trovano in una condizione di gravità, il legislatore, con la legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), all’art. 40, comma 1, ha previsto la possibilità di assumere, con contratti a tempo determinato, insegnanti di sostegno in deroga al rapporto alunni-docenti stabilito dal successivo comma 3. Il criterio numerico indicato dalla disposizione da ultimo richiamata è stato poi sostituito con il principio delle «effettive esigenze rilevate», introdotto dall’art. 1, comma 605, lett. b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007).

Le disposizioni censurate che prevedono, da un lato, un limite massimo nella determinazione del numero degli insegnanti di sostegno e, dall’altro, l’eliminazione della citata possibilità di assumerli in deroga, si pongono in contrasto con il riportato quadro normativo internazionale, costituzionale e ordinario, nonché con la consolidata giurisprudenza di questa Corte a protezione dei disabili fin qui richiamata.

E’ vero che, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore nella individuazione delle misure necessarie a tutela dei diritti delle persone disabili gode di discrezionalità (da ultimo, ex plurimis, sentenze n. 431 e 251 del 2008, ordinanza n. 269 del 2009). Si deve tuttavia riaffermare che, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, detto potere discrezionale non ha carattere assoluto e trova un limite nel «[…] rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati» (sentenza n. 251 del 2008 che richiama sentenza n. 226 del 2000).

Risulta, pertanto, evidente che le norme impugnate hanno inciso proprio sull’indicato «nucleo indefettibile di garanzie» che questa Corte ha già individuato quale limite invalicabile all’intervento normativo discrezionale del legislatore.

La scelta operata da quest’ultimo, in particolare quella di sopprimere la riserva che consentiva di assumere insegnanti di sostegno a tempo determinato, non trova alcuna giustificazione nel nostro ordinamento, posto che detta riserva costituisce uno degli strumenti attraverso i quali è reso effettivo il diritto fondamentale all’istruzione del disabile grave.

La ratio della norma, che prevede la possibilità di stabilire ore aggiuntive di sostegno, è, infatti, quella di apprestare una specifica forma di tutela ai disabili che si trovino in condizione di particolare gravità; si tratta dunque di un intervento mirato, che trova applicazione una volta esperite tutte le possibilità previste dalla normativa vigente e che, giova precisare, non si estende a tutti i disabili a prescindere dal grado di disabilità, bensì tiene in debita considerazione la specifica tipologia di handicap da cui è affetta la persona de qua.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, le disposizioni impugnate si appalesano irragionevoli e sono, pertanto, illegittime nella parte in cui, stabilendo un limite massimo invalicabile relativamente al numero delle ore di insegnamento di sostegno, comportano automaticamente l’impossibilità di avvalersi, in deroga al rapporto tra studenti e docenti stabilito dalla normativa statale, di insegnanti specializzati che assicurino al disabile grave il miglioramento della sua situazione nell’ambito sociale e scolastico.

Restano assorbiti gli altri profili di censura dedotti dal giudice rimettente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 413, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), nella parte in cui fissa un limite massimo al numero dei posti degli insegnanti di sostegno;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 414, della legge n. 244 del 2007, nella parte in cui esclude la possibilità, già contemplata dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449, di assumere insegnanti di sostegno in deroga, in presenza nelle classi di studenti con disabilità grave, una volta esperiti gli strumenti di tutela previsti dalla normativa vigente.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA