Ultime pronunce pubblicate deposito del 30-09-2011

255/2011 pres. QUARANTA, red. FINOCCHIARO

 

visualizza pronuncia 255/2011

256/2011 pres. QUARANTA, red. FINOCCHIARO

 

visualizza pronuncia 256/2011

257/2011 pres. QUARANTA, red. CRISCUOLO

 

visualizza pronuncia 257/2011

258/2011 pres. QUARANTA, red. FINOCCHIARO

 

visualizza pronuncia 258/2011

259/2011 pres. QUARANTA, red. GROSSI

 

visualizza pronuncia 259/2011

260/2011 pres. QUARANTA, red. CRISCUOLO

 

visualizza pronuncia 260/2011

 


Deposito del 30-09-2011 (dalla 255 alla 260)

S.255/2011 del 20/07/2011
Udienza Pubblica del 21/06/2011, Presidente QUARANTA, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Decreti Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare del 12/05/2010, n. 384, del 27/10/2010, n. 1045 e del 03/03/2011, n. 123.

Oggetto: Ambiente - Parchi - Decreto del Ministro dell'ambiente con il quale "l'avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella è nominato Commissario straordinario dell'Ente Parco nazionale del Gargano per la durata di tre mesi a decorrere dalla data del 30 aprile 2010 e comunque non oltre la nomina del presidente";
Decreto del Ministro dell'ambiente con il quale "L'avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella è confermato Commissario Straordinario dell'Ente Parco Nazionale del Gargano per la durata di tre mesi a decorrere dalla data del 2 novembre 2010 e comunque non oltre la nomina del presidente";
Decreto del Ministro dell'Ambiente con il quale "L'avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella è confermato Commissario Straordinario dell'Ente Parco Nazionale del Gargano per la durata di tre mesi a decorrere dalla data del 4 marzo 2011 e comunque non oltre la nomina del Presidente" - Lamentata nomina e reiterazione di nomina di un commissario straordinario senza il previo avvio e sviluppo della procedura dell'intesa per la nomina del presidente, di cui all'art. 9, comma 3, della legge quadro sulle aree protette.

Dispositivo: accoglie il ricorso
Atti decisi: confl. enti 7/2010; 1 e 4/2011


O.256/2011 del 20/07/2011
Camera di Consiglio del 22/06/2011, Presidente QUARANTA, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 2 della legge della Regione Abruzzo 18/12/2009, n. 32, che sostituisce l'art. 1 della legge della Regione Abruzzo 10/03/2008, n. 2, come modificato dalla legge della Regione Abruzzo 15/10/2008, n. 14.

Oggetto: Energia - Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Abruzzo - Aree protette o tutelate o destinate a determinate coltivazioni e produzioni, o ad elevato rischio e pericolosità - Divieto di svolgervi attività di prospezione, ricerca, estrazione, coltivazione e lavorazione di idrocarburi liquidi - Contrasto con i principi statali e comunitari in materia di energia e con le relative disposizioni procedimentali.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 25/2010


S.257/2011 del 19/09/2011
Udienza Pubblica del 05/07/2011, Presidente QUARANTA, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 2, c. 5°, della legge 23/12/2009, n. 191.

Oggetto: Previdenza - Braccianti agricoli a tempo determinato - Calcolo della retribuzione media convenzionale giornaliera ai fini della determinazione delle prestazioni pensionistiche - Previsione, con norma autoqualificata di interpretazione autentica, che il termine del 30 ottobre previsto dal terzo comma dell'art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, è lo stesso di quello previsto dal secondo comma dell'art. 3 della stessa legge, per gli operai agricoli a tempo indeterminato.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ord. 379/2010


O.258/2011 del 19/09/2011
Udienza Pubblica del 05/07/2011, Presidente QUARANTA, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 6, c. 9°, della legge della Regione Marche 14/04/2004, n. 7.

Oggetto: Ambiente - Norme della Regione Marche - Disciplina delle procedure di impatto ambientale - Previsione (per il periodo antecedente all'abrogazione della norma censurata stabilita con l'art. 5, comma 4, della legge regionale 12 giugno 2007, n. 6) che la mancata pronuncia dell'autorità competente nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione dell'annuncio sul B.U.R. comporta l'esclusione del progetto dalla procedura di V.I.A.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 193/2010


O.259/2011 del 19/09/2011
Udienza Pubblica del 05/07/2011, Presidente QUARANTA, Redattore GROSSI


Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 30/06/2004.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento civile per il risarcimento del danno promosso dall'on. Oliviero Diliberto nei confronti del sen. Roberto Castelli in relazione ad alcuni commenti e valutazioni da questi resi nel corso di un programma televisivo - Deliberazione di insindacabilità del Senato della Repubblica.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: confl. pot. mer. 6/2010


O.260/2011 del 19/09/2011
Camera di Consiglio del 06/07/2011, Presidente QUARANTA, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 29, c. 5°, in relazione al c. 6°, della legge 25/03/1993, n. 81.

Oggetto: Reati e pene - Reati elettorali - Elezioni amministrative - Propaganda elettorale - Divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l'inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa - Trattamento sanzionatorio in caso di inosservanza.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 397/2010



pronuncia successiva

SENTENZA N. 255

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi per conflitto di attribuzione tra enti sorti a seguito dei decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 12 maggio 2010 DEC/DPN 384, 27 ottobre 2010 DEC/DPN 1045 e 3 marzo 2011 DEC/DPN 123, promossi con ricorsi della Regione Puglia notificati il 12 luglio 2010, il 19 gennaio 2011 e il 13 maggio 2011, depositati in cancelleria il 22 luglio 2010, il 7 febbraio ed il 27 maggio 2011, rispettivamente iscritti al n. 7 del registro conflitti tra enti 2010 ed ai nn. 1 e 4 del registro conflitti tra enti 2011.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 21 giugno 2011 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi l’avvocato Marina Altamura per la Regione Puglia e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato in data 12 luglio 2010, la Regione Puglia ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare in relazione al decreto di quest’ultimo del 12 maggio 2010, n. 384, con il quale l’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella è nominato Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano per la durata di tre mesi a decorrere dalla data del 30 aprile 2010 e comunque non oltre la nomina del presidente.

La ricorrente – assumendo la violazione degli artt. 5, 97, 117 e 118 della Costituzione e del principio di leale cooperazione in relazione all’art. 9, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), che prevede, per la nomina del Presidente degli Enti Parco, un meccanismo di intesa tra il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e i Presidenti delle regioni nel cui territorio ricada in tutto o in parte il parco – chiede che sia dichiarato che non spetta allo Stato di nominare, in mancanza della prescritta intesa con la Regione Puglia, il Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano, e che sia, conseguentemente, annullato il decreto ministeriale di nomina innanzi richiamato.

La ricorrente espone che con tale decreto il Ministro dell’ambiente, preso atto dell’approssimarsi della scadenza dell’incarico conferito all’avvocato Giacomo Diego Gatta (29 aprile 2010), ha provveduto alla nomina del nuovo Commissario straordinario. Tale nomina, tuttavia, non sarebbe stata preceduta dall’avvio e dall’effettiva prosecuzione della istruttoria finalizzata all’intesa prevista dall’art. 9, comma 3, della legge n. 394 del 1991.

Con nota del 28 aprile 2010, il Presidente della Regione Puglia aveva segnalato l’importanza di attivare celermente un percorso di intesa sul presidente dell’Ente Parco nazionale del Gargano, invitando il Ministro a individuare insieme una figura competente e di alto profilo professionale, dichiarando la propria disponibilità a verificare le migliori personalità per questo incarico.

Il Ministro dell’ambiente, con nota dell’11 maggio 2010, ha chiesto al Presidente della Regione di esprimere la formale intesa, ai sensi dell’art. 9, comma 3, della legge n. 394 del 1991, sulla nomina a Presidente dell’Ente Parco nazionale del Gargano di Stefano Sabino Francesco Pecorella.

Con nota del 18 maggio 2010, il Presidente della Regione Puglia, nel riscontrare la comunicazione suindicata, chiedeva un incontro urgente al fine di addivenire ad una scelta condivisa.

Sennonché, con la nota del 28 maggio 2010, il Ministro dell’ambiente comunicava di aver provveduto, con il decreto n. 384 del 12 maggio 2010, a nominare Stefano Sabino Francesco Pecorella Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano.

Secondo la Regione Puglia, il decreto n. 384 del 12 maggio 2010 sarebbe lesivo delle competenze legislative attribuite alle regioni in materie di competenza concorrente e in materie di competenza esclusiva, nonché dei principi di leale collaborazione, trasparenza, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione.

L’approssimarsi della scadenza dell’incarico di Commissario straordinario conferito con il decreto oggetto del presente giudizio costituzionale (30 luglio 2010) non determinerebbe poi carenza di interesse al ricorso in quanto, come rilevato dalla Corte costituzionale, in materia di conflitto fra enti, la lesione delle attribuzioni costituzionali ben può concretarsi anche nella mera emanazione dell’atto invasivo della competenza, potendo perdurare l’interesse dell’ente all’accertamento del riparto costituzionale delle competenze (sentenza n. 222 del 2006). Tale decreto violerebbe le competenze regionali delineate dall’art. 117, terzo comma, Cost. in via concorrente nelle materie del governo del territorio e della valorizzazione dei beni culturali e ambientali; dall’art. 117, quarto comma, Cost., in via residuale nelle materie dell’agricoltura, del turismo, della caccia e della pesca; dall’art. 118 Cost. concernente la ripartizione delle competenze amministrative.

Sarebbero altresì violati i principi di riserva di legge, buon andamento ed imparzialità dei pubblici uffici in relazione all’art. 97 Cost. e il principio di leale collaborazione derivante dall’art. 5 Cost. (come conseguenza del contemperamento dei principi di unità ed autonomia in esso sanciti) in relazione all’art. 9, comma 3, della legge n. 394 del 1991.

La ricorrente rileva, altresì, che la Corte costituzionale ha affermato che l’intesa è condizione di legittimità della nomina del Presidente di enti come quello di cui trattasi (sentenza n. 27 del 2004). Tale principio è stato ripreso in una successiva pronuncia costituzionale, secondo la quale il mancato rispetto della necessaria procedimentalizzazione per la nomina del Presidente rende illegittima la nomina del commissario straordinario, dovendosi ritenere che l’illegittimità della condotta dello Stato non risiede pertanto nella nomina in sé di un Commissario straordinario, senza la previa intesa con il Presidente della Regione, ma nel mancato sviluppo della procedura dell’intesa per la nomina del Presidente, che esige, laddove occorra, lo svolgimento di reiterate trattative volte a superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione, le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo e che sole legittimano la nomina del primo (sentenza n. 21 del 2006).

Il Ministro dell’ambiente avrebbe tenuto un comportamento non rispondente ai principi costituzionali sopra indicati nell’interpretazione e applicazione dell’art. 9, comma 3, della legge n. 394 del 1991, applicando la prescrizione in esso sancita in modo meramente formale e, conseguentemente, svuotando il procedimento dell’intesa del suo significato. Il decreto di nomina del Commissario straordinario è stato sì preceduto dalla richiesta diretta al Presidente della Regione di esprimere «formale intesa» sul nominativo indicato (Stefano Sabino Francesco Pecorella) ma, di fatto, non è stata offerta all’ente regionale la possibilità di far pervenire il proprio orientamento in quanto prima ancora della ricezione della richiesta ministeriale di intesa il Ministro dell’ambiente aveva già provveduto a nominare il Commissario straordinario nella stessa persona di Stefano Sabino Francesco Pecorella.

Il ristretto arco temporale intercorrente fra la richiesta del Ministro dell’ambiente di intesa sul nominativo del Presidente (datata 11 maggio 2010) e il decreto di nomina del Commissario straordinario emesso il giorno successivo (12 maggio 2010) nonché l’espressione utilizzata («formale intesa») rendono evidente la natura meramente formale del procedimento avviato dal Ministro.

Non solo non vi sarebbero state le «reiterate trattative volte a superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione fra Stato e Regione, le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo» (ritenute necessarie dalle sentenze n. 27 del 2004 e n. 21 del 2006), ma lo Stato non avrebbe neanche preventivamente verificato la possibilità di raggiungere l’intesa sul nominativo indicato (o, eventualmente, su altro di proposta regionale) e di provvedere, quindi, direttamente alla nomina del Presidente (e non del Commissario straordinario). Tale evidenza è ulteriormente attestata dal fatto che alla richiesta di «urgente incontro» formulata dal Presidente della Regione Puglia – con nota del 28 aprile 2010 e con nota del 18 maggio 2010 – non ha fatto seguito la convocazione dell’auspicato confronto costruttivo per una «scelta condivisa», bensì la nomina dell’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella a Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano.

2. – Con ricorso notificato in data 19 gennaio 2011, la Regione Puglia ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare in relazione al decreto di quest’ultimo del 27 ottobre 2010, n. 1045, con il quale «l’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella è confermato Commissario Straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano per la durata di tre mesi a decorrere dalla data del 2 novembre 2010 e comunque non oltre la nomina del Presidente».

Anche tale nomina non è stata preceduta dall’avvio e dall’effettivo perseguimento dell’intesa prevista dall’art. 9, comma 3, della legge n. 394 del 1991 per la nomina del Presidente dell’Ente Parco.

Con nota del 25 ottobre 2010, il Presidente della Regione ha rappresentato l’esigenza di nominare nel più breve tempo possibile il Presidente del Parco nazionale del Gargano, ma l’incontro richiesto al fine di affrontare l’argomento non si è mai tenuto e in riscontro alla missiva del 25 ottobre 2010 è stato inviato il decreto di conferma dell’incarico di Commissario straordinario all’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella.

La gravità della mancanza di preventiva istruttoria finalizzata al raggiungimento dell’intesa richiesta dalla legge per la nomina del Presidente dell’Ente parco è accentuata dalle vicende che hanno preceduto l’ultimo decreto di proroga dell’incarico commissariale, reiterato dal Ministro dell’ambiente (dapprima con il decreto n. 722 del 6 agosto 2010 e, successivamente, con il decreto n. 1045 del 27 ottobre 2010), senza effettuare, in entrambi i casi, alcun tentativo di scelta condivisa per il ripristino della gestione ordinaria nell’Ente.

3. – Con ricorso notificato in data 13 maggio 2011, la Regione Puglia ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare in relazione al decreto di quest’ultimo del 3 marzo 2011, n. 123, con il quale «L’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella è nominato Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano per la durata di tre mesi a decorrere dalla data del 4 marzo 2011 e comunque non oltre la nomina del presidente».

La ricorrente, assumendo la violazione degli artt. 5, 97, 117 e 118 della Costituzione e del principio di leale cooperazione in relazione all’art. 9, comma 3, della legge n. 394 del 1991, che prevede – per la nomina del Presidente degli Enti Parco – un meccanismo di intesa tra il Ministro dell’ambiente e i Presidenti delle regioni nel cui territorio ricada in tutto o in parte il parco, chiede che sia dichiarato che non spetta allo Stato di nominare, in mancanza della prescritta intesa con la Regione Puglia, il Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano, e che sia, conseguentemente, annullato il decreto ministeriale di nomina innanzi richiamato.

La ricorrente espone che il Ministro dell’ambiente ha continuato a nominare l’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano rifiutando di tentare il raggiungimento di un accordo con la Regione Puglia al fine di addivenire ad un’intesa su di un nome condiviso da entrambe le parti.

La Regione Puglia ha formulato, altresì, istanza di sospensione dell’esecuzione del decreto del Ministro dell’ambiente del 3 marzo 2011, n. 123, in quanto con riferimento al fumus boni iuris sarebbe inconfutabile la totale assenza di attività finalizzata ad addivenire all’intesa, mentre quanto al periculum in mora la perdurante operatività del decreto impugnato comporterebbe una situazione di attuale illegittimità dell’attività svolta dal Commissario straordinario.

4. – Si è costituito in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità del ricorso avversario, in quanto il provvedimento di nomina del Commissario straordinario avrebbe un’efficacia limitata nel tempo fino al 30 luglio 2010 sicché nel momento in cui la presente vertenza verrà discussa sarà cessata la materia del contendere.

In subordine, si rileva l’infondatezza del ricorso in quanto la procedura per l’acquisizione dell’intesa regionale sulla designazione del presidente dell’Ente Parco nazionale del Gargano è stata instaurata già a partire dal 24 luglio 2009 allorquando il Ministro aveva richiesto alla Regione Puglia di pronunciarsi sul nominativo dell’avvocato Giacomo Diego Gatta per la carica di presidente dell’Ente Parco.

La Regione Puglia forniva riscontro alla nota predetta solo in data 28 aprile 2010, sollecitando il Ministero alla ricerca di una scelta condivisa. Ciò ha determinato il Ministro dell’ambiente a trasmettere in data 11 maggio 2010 un’ulteriore nota con la quale, premesso che nelle more del rilascio dell’intesa regionale l’avvocato Gatta aveva acquisito altro incarico, si chiedeva di volere esprimere l’intesa sul nominativo dell’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella, allegandosi il curriculum dell’interessato. Nell’attesa della definizione della procedura per l’acquisizione dell’intesa, il predetto legale è stato nominato Commissario straordinario con il d.m. del 12 maggio 2010, che costituisce oggetto di impugnazione. In modo tardivo, rispetto alla sequenza dello scambio epistolare riassunto, il Presidente della Regione Puglia, con nota del 18 maggio 2010, ha richiesto al Ministro dell’ambiente la fissazione di un incontro per addivenire ad una scelta condivisa dell’organo da nominare.

Alla stregua della ricostruzione dei fatti che precede, emerge che il principio di leale collaborazione è stato vulnerato proprio dal comportamento tenuto dalla Regione Puglia ricorrente che, a fronte della prima richiesta di procedere all’intesa, anziché fornire una tempestiva collaborazione, ha optato per una prolungata inerzia interrotta solo da una nota di contenuto interlocutorio che, pur non esprimendo alcun dissenso circa l’opzione suggerita dal Ministro, rilanciava i termini di una concertazione dai confini temporali del tutto indefiniti.

Osserva ancora il resistente come a fronte dell’indicazione di ben due nominativi da parte del Ministro, la Regione non abbia espresso alcun apprezzamento di merito in relazione ai rispettivi curricula che le erano stati sottoposti, né tanto meno abbia mai fornito l’indicazione di soluzioni alternative.

Nell’attesa della definizione della procedura per l’acquisizione dell’intesa, con il d.m. del 27 ottobre 2010, n. 1045, oggetto di impugnazione, il Ministro ha confermato 1’avvocato Pecorella nell’incarico di Commissario straordinario dell’Ente Parco.

Considerato in diritto

1. – La Regione Puglia, con tre distinti ricorsi (reg. confl. enti n. 7 del 2010, n. 1 del 2011 e n. 4 del 2011), ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e, per quanto possa occorrere, nei confronti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, avverso tre distinti decreti di quest’ultimo, deducendo che non spettava al Ministro nominare per la durata di tre mesi e poi confermare, per ulteriori tre mesi, nonché, successivamente, per altri tre mesi, l’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella come Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano, in mancanza dell’intesa con il Presidente della Regione Puglia nel cui territorio ricade il Parco, prevista dall’art. 9, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette).

Assume la ricorrente che tale intesa è posta dal legislatore a salvaguardia delle potestà regionali costituzionalmente garantite, sicché la nomina e le conferme della stessa fatte in mancanza di essa costituirebbero menomazione della sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnate alla Regione, in violazione degli articoli 5, 97, 117 e 118 della Costituzione e del principio di leale collaborazione.

2. – Poiché i tre ricorsi hanno ad oggetto tre decreti ministeriali, relativi alla nomina e alla conferma della stessa persona a Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano, i relativi giudizi vanno riuniti e decisi con unica pronuncia.

3. – I ricorsi sono fondati.

L’art. 9, comma 3, della l. n. 394 del 1991 prescrive che il Presidente dell’Ente Parco è nominato con decreto del Ministro dell’ambiente (ora dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare), d’intesa con il Presidente della Regione nel cui territorio ricade in tutto o in parte il parco nazionale.

Nella specie, è accaduto che il Ministro ed il Presidente della Regione Puglia non hanno raggiunto l’accordo sulla nomina del Presidente e che il primo ha nominato il Commissario straordinario per un periodo di tre mesi e, con successivi decreti, ha provveduto a confermare la stessa persona per ulteriori periodi trimestrali.

Avverso tali decreti insorge, con distinti ricorsi per conflitto di attribuzione, il Presidente della Regione lamentando non la nomina del Commissario straordinario in sé, ma la nomina medesima in quanto non preceduta dal tentativo del Ministro di addivenire ad un’intesa con la Regione.

Identica questione è stata ripetutamente esaminata da questa Corte con riferimento a vicende relative ad altri enti di analoga natura. La Corte ha affermato la legittimità della nomina di un commissario straordinario, in assenza del raggiungimento dell’intesa, solo se, in applicazione del principio di leale cooperazione, si sia dato luogo ad uno sforzo delle parti per dar vita ad una intesa, da realizzare e ricercare, laddove occorra, attraverso reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo (ex plurimis: sentenze n. 332 del 2010; n. 24 del 2007; n. 21 del 2006; n. 339 del 2005; n. 27 del 2004).

Per valutare la legittimità della nomina del Commissario straordinario del Parco nazionale del Gargano si tratta di verificare se vi sia stato o meno il tentativo di raggiungere l’intesa.

A tale scopo, è utile esaminare, in ordine cronologico, gli avvenimenti che hanno portato alla situazione denunciata:

- 24 luglio 2009: lettera del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con cui si chiede di confermare Presidente dell’Ente Parco nazionale del Gargano Giacomo Gatta;

- 27 luglio 2009: nomina del Ministro di Giacomo Gatta a Commissario straordinario;

- 28 aprile 2010: lettera del Presidente della Regione Puglia (pervenuta il 4 maggio) per ricerca intesa su Presidente dell’Ente Parco nazionale del Gargano tramite incontro;

- 29 aprile 2010: cessa dall’incarico di Commissario straordinario Giacomo Gatta (Commissario dal 27 luglio 2009, in precedenza già Presidente);

- 11 maggio 2010: lettera del Ministro (pervenuta il 14 maggio) con richiesta di «formale intesa» per l’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella, e senza risposta alla richiesta di incontro del Presidente della Regione Puglia;

- 12 maggio 2010: decreto del Ministro n. 384 (oggetto di impugnazione con ric. confl. n. 7 del 2010), di nomina del Commissario straordinario per tre mesi dal 30 aprile al 31 luglio 2010;

- 24 maggio 2010: lettera del Presidente della Regione Puglia per ricerca di intesa sulla nomina del Presidente dell’Ente Parco nazionale del Gargano tramite incontro;

- 28 maggio 2010: nota del Ministro (pervenuta il 4 giugno) con cui si comunica la nomina del Commissario straordinario dal 30 aprile al 31 luglio 2010;

- 6 agosto 2010: decreto del Ministro n. 722 (non oggetto di impugnazione) di nomina del Commissario straordinario per tre mesi dal 1° agosto 2010 al 1° novembre 2010;

- 20 settembre 2010: nota del Ministro dell’ambiente con cui si comunica la nomina del Commissario straordinario dal 1° agosto al 1° novembre 2010;

- il 25 ottobre 2010: lettera del Presidente della Regione Puglia per ricerca di intesa sulla nomina del Presidente dell’Ente Parco nazionale del Gargano tramite incontro;

- 27 ottobre 2010: decreto del Ministro n. 1045 (oggetto di impugnazione con ric. confl. n. 1 del 2011), di nomina del Commissario straordinario per tre mesi dal 2 novembre 2010 al 1° febbraio 2011;

- 1° febbraio 2011: decreto del Ministro n. 32 (non oggetto di impugnazione) di nomina del Commissario straordinario per un mese dal 2 febbraio 2011 al 3 marzo 2011;

- 3 marzo 2011: decreto del Ministro n. 123 (oggetto di impugnazione con ric. confl. n. 4 del 2011, con richiesta di sospensiva), di nomina del Commissario straordinario per tre mesi dal 4 marzo 2011 al 3 giugno 2011.

Da quanto esposto emerge che, alla scadenza del precedente Commissario Gatta, la Regione Puglia ha sollecitato un incontro, che a tale richiesta il Ministro dell’ambiente non ha risposto, ma ha chiesto formale intesa sul nome dell’avvocato Stefano Sabino Francesco Pecorella e che lo ha nominato Commissario straordinario il giorno dopo, senza dunque neppure dare il tempo alla Regione di esprimere il proprio parere. Successivamente, il Presidente della Regione ha chiesto nuovamente un incontro (così implicitamente mostrando di non gradire la persona nominata Commissario straordinario) ma ancora una volta il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare ha provveduto a nominare Commissario straordinario l’avvocato Pecorella.

È palese dunque che il Ministro non ha cercato di raggiungere un accordo, ma ha aggirato la norma che prevede l’obbligo dell’intesa, perché, da un lato, ha proposto un solo nome e, dall’altro, ha non solo rifiutato tutte le proposte di incontro provenienti dalla controparte, ma ha anche nominato Commissario straordinario proprio la persona implicitamente rifiutata da quest’ultima.

In tal modo risultano violati i principi enunciati in materia da questa Corte nella giurisprudenza sopra richiamata.

In accoglimento dei ricorsi va, pertanto, dichiarato che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare la nomina del Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano in quanto avvenuta senza che sia stato avviato, proseguito ed effettivamente espletato il procedimento per raggiungere l’intesa con la Regione Puglia per la nomina del Presidente e, per l’effetto, annulla i decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 12 maggio 2010 DEC/DPN 384, 27 ottobre 2010 DEC/DPN 1045 e 3 marzo 2011 DEC/DPN 123, con i quali rispettivamente è stato nominato il Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano ed è stato prorogato detto incarico.

La pronuncia di merito assorbe la decisione sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato da parte della Regione Puglia (sentenza n. 21 del 2006).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare la nomina del Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano in quanto avvenuta senza che fosse avviato e proseguito ed effettivamente espletato il procedimento per raggiungere l’intesa con la Regione Puglia per la nomina del Presidente e, per l’effetto, annulla i decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 12 maggio 2010 DEC/DPN 384, 27 ottobre 2010 DEC/DPN 1045 e 3 marzo 2011 DEC/DPN 123, con i quali, rispettivamente, è stato nominato il Commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale del Gargano ed è stato prorogato detto incarico.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 256

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge della Regione Abruzzo 18 dicembre 2009, n. 32 (Modifiche alla L.R. 10 marzo 2008, n. 2 e successive modifiche – Provvedimenti urgenti a tutela della costa teatina), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 17-22 febbraio 2010, depositato in cancelleria il 23 febbraio 2010 ed iscritto al n. 25 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Abruzzo;

udito nella camera di consiglio del 22 giugno 2011 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 17-22 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Abruzzo 18 dicembre 2009, n. 32 (Modifiche alla L.R. 10 marzo 2008, n. 2 e successive modifiche – Provvedimenti urgenti a tutela della costa teatina), per violazione: a) dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, che riserva alla potestà concorrente di Stato e Regioni la disciplina della “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, in quanto la competenza legislativa concorrente deve esplicarsi con spirito di leale collaborazione all’interno del quadro di riferimento tracciato dalla legislazione statale “di cornice”, e in particolare dalla legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia) e dal decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625 (Attuazione della direttiva 94/22/CEE relativa alle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi); b) dell’art.117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con i principi comunitari della libertà di circolazione e di stabilimento di cui agli artt. 49 (ex art. 43) e 56 (ex art. 49) del Trattato del 25 marzo 1957 (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea); c) dell’art. 41 Cost. che afferma il principio della libertà di iniziativa economica privata; d) e ancora, dell’art. 118 Cost., considerato che le funzioni amministrative in materia di impianti e infrastrutture energetiche sono, eccezion fatta per quelli di rilievo locale, di primaria competenza statale e le relative opere sono considerate dalle leggi statali di preminente interesse nazionale per la sicurezza del sistema elettrico e degli approvvigionamenti;

che in data 29 marzo 2010 si è costituita la Regione Abruzzo, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o comunque infondato;

che l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato l’8 febbraio 2011 atto di rinuncia al ricorso notificato alla Regione Abruzzo l’1 febbraio 2011;

che la Regione Abruzzo ha depositato l’1 aprile 2011 atto di accettazione della rinuncia.

Considerato che il giudizio va dichiarato estinto per rinuncia da parte del ricorrente, accettata dalla parte resistente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il giudizio per rinuncia al ricorso.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 257

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), promosso dal Tribunale di Rossano nel procedimento vertente tra P. R. ed altra e l’INPS, con ordinanza del 12 aprile 2010, iscritta al n. 379 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di costituzione dell’INPS;

udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

udito l’avvocato Luigi Caliulo per l’INPS.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Rossano in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), in riferimento agli articoli 3, 38, secondo comma, 53, 111, primo e secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione.

2. — Il rimettente premette che, con ricorsi di analogo contenuto, poi riuniti per ragioni di connessione, le signore R. P. e A. Z. hanno convenuto in giudizio l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del presidente pro tempore, esponendo: 1) che erano titolari di pensioni, categoria VO, dopo aver lavorato come operaie agricole a tempo determinato; 2) che l’INPS, nel determinare le pensioni, aveva applicato erroneamente l’art. 28 decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria), perché, nel calcolare la pensione dovuta alle istanti, aveva fatto riferimento al salario medio convenzionale, non già dell’anno in cui il lavoro era stato prestato, ma dell’anno antecedente.

Ciò posto, le attrici hanno chiesto che sia dichiarato il loro diritto ad ottenere la riliquidazione della pensione di vecchiaia in godimento sulla base del salario medio convenzionale vigente per l’anno in cui il lavoro era stato prestato, con condanna dell’INPS alla ricostruzione della pensione ed al pagamento delle differenze mensili.

Instauratosi il contraddittorio, l’ente previdenziale si è costituito nei giudizi principali, sostenendo la correttezza del proprio operato, in applicazione dell’art. 4 del decreto legislativo 16 aprile 1997, n. 146 (Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 24, legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di previdenza agricola), e concludendo per il rigetto delle domande.

Nelle more delle cause è stato introdotto l’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, avente il seguente tenore: «Il terzo comma dell’articolo 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, si interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30 ottobre per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a tempo determinato è il medesimo di quello previsto al secondo comma dell’art. 3 della citata legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato». Quest’ultima norma, a sua volta, dispone che «Per i salariati fissi l’ammontare della retribuzione comprensiva del salario base, della contingenza, delle indennità in natura e fisse, è costituito dalla media della retribuzione prevista per ciascuna qualifica dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente».

3. — Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, ora citato.

Il rimettente, in primo luogo, ritiene la questione rilevante, perché la norma censurata disciplina, con chiara efficacia sulle controversie al suo esame, il sistema di accredito contributivo e il calcolo consequenziale della pensione.

Osserva, poi, che la Corte di cassazione, con orientamento costante (e dal medesimo rimettente condiviso), ha affermato il principio secondo cui «La pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato deve essere determinata, ex art. 28 d.P.R. n. 488 del 1968 (“Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria”), sulla base delle retribuzioni medie vigenti per ciascun anno, (“in rapporto alle retribuzioni medie da determinarsi annualmente per provincia”), come peraltro confermato dall’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972 che espressamente statuisce che “per i giornalieri di campagna l’ammontare della retribuzione è costituito dalla media tra le retribuzioni vigenti al 30 ottobre di ogni anno” e non dell’anno precedente».

Il Tribunale prosegue rilevando che i decreti ministeriali di determinazione delle retribuzioni medie giornaliere, emanati annualmente e vincolanti per gli istituti previdenziali, hanno sempre fatto riferimento ai dati salariali relativi all’anno precedente alla loro emanazione per entrambe le categorie (dipendenti a tempo indeterminato e dipendenti a tempo determinato), adottando in sostanza come criterio unico di rilevazione quello previsto per gli operai a tempo indeterminato, verosimilmente allo scopo di assicurare un trattamento omogeneo a soggetti operanti nell’ambito dello stesso settore lavorativo e di realizzare una più semplice e rapida procedura di liquidazione, in via definitiva, dell’indennità di malattia. Tuttavia, tale prassi è stata sempre giudicata illegittima dalla Corte di cassazione, se non seguita da conguaglio per i salariati a tempo determinato.

Il giudicante ricorda che, di recente, la Corte di cassazione si è di nuovo pronunciata in subiecta materia (l’ordinanza di rimessione richiama la sentenza n. 2531 del 2009), ponendosi in consapevole contrasto col precedente orientamento e pervenendo, quindi, alla conclusione che, in tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata applicando l’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968 e, dunque, in forza della determinazione operata anno per anno da decreti ministeriali sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale nell’anno precedente.

Il Tribunale di Rossano espone, quindi, le ragioni che, a suo avviso, non consentono di condividere il più recente orientamento della Corte di legittimità, ed osserva che la cosiddetta “legge interpretativa”, in questa sede censurata, avrebbe modificato la norma di riferimento con efficacia retroattiva, perciò applicabile alle controversie in esame, imponendo di far capo non all’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968, bensì all’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972, come interpretato, il che comporterebbe il rigetto delle domande.

Secondo il rimettente, non vi sarebbe stato contrasto ermeneutico sul fatto che la norma interpretata (art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972) disciplinasse soltanto le prestazioni temporanee in agricoltura e non l’accredito contributivo e, per conseguenza, la misura della pensione. Tale lettura sarebbe stata comune ad entrambi gli orientamenti sopra richiamati. Pertanto, il legislatore avrebbe interpretato autenticamente una norma in relazione alla quale non sussisteva alcun contrasto ermeneutico circa la sua inapplicabilità al regime pensionistico contributivo.

In questo quadro, ad avviso del Tribunale, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost., apparendo «irragionevole e in evidente contrasto con lo scopo manifestato».

Invero, il legislatore, con disposizione asseritamente interpretativa, avrebbe esteso la portata di una norma inapplicabile alla fattispecie, «al fine di non adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, così evitando la condanna in un contenzioso seriale». Lo scopo dell’intervento legislativo sarebbe ancora più evidente, qualora si consideri che esso avrebbe dovuto operare sull’unica disposizione disciplinante la materia, cioè sull’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968. In tal modo, però, il legislatore si sarebbe esposto a censura per violazione dell’art. 76 Cost., visti i limiti della delega sulla base della quale il citato d.P.R. è stato adottato (art. 39 legge 21 luglio 1965, n. 903).

L’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, quindi, secondo il rimettente doveva necessariamente operare sull’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972, al fine di raggiungere lo scopo di evitare possibili condanne. Risulterebbe evidente, dunque, il sospetto d’irragionevolezza, ancor più grave ove si osservi che, in realtà, la disposizione de qua determinerebbe una discriminazione basata sulle condizioni sociali degli istanti. Sarebbe notorio, infatti, che i braccianti agricoli di solito provengono dalle categorie più deboli sotto il profilo sociale ed economico.

La norma censurata, inoltre, si porrebbe in contrasto con l’art. 117 Cost. per violazione degli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha escluso la possibilità d’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influire sulla conclusione giudiziaria della causa, eccetto il caso di motivi imperativi d’interesse generale (nella specie insussistenti).

Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, perché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della posizione di parità delle parti, da ritenere leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.

Il rimettente si dichiara consapevole dell’orientamento di questa Corte in ordine ai limiti dell’ingerenza del potere legislativo, con riguardo all’art. 24 Cost., «ma ritiene che non siano conferenti alla ratio della presente remissione», in quanto fondata anche sull’art. 117 Cost. in relazione alla portata precettiva della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Ancora, sussisterebbe contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 14 CEDU, «che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della Convenzione».

Nel caso di specie sarebbe ravvisabile una doppia discriminazione: da un lato, i precari dell’agricoltura rispetto al resto del precariato, il quale vedrebbe la propria contribuzione correlata alla retribuzione reale, e, dall’altro, gli operai agricoli rispetto agli altri lavoratori dipendenti, che vedono le proprie contribuzioni correlate alla retribuzione reale e non a quella dell’anno antecedente.

Infine, sarebbero ravvisabili dubbi di legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento agli artt. 3, 38, secondo comma, e 53 Cost.

Invero, la sentenza conclusiva dei procedimenti per cui è causa sarebbe di condanna in quanto diretta ad accertare un credito già nel patrimonio giuridico degli istanti. La norma impugnata, dunque, verrebbe ad incidere su un rapporto di credito/debito, con l’effetto di determinare l’estinzione del credito del pensionato, relativo alle differenze dei ratei di pensione nel frattempo maturati. La norma de qua, quindi, priverebbe il pensionato/assistito di parte della pensione già maturata, con violazione degli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost., poiché il legislatore avrebbe previsto l’elisione di un diritto già presente nel patrimonio degli istanti, in assenza di ogni apprezzabile giustificazione.

La Costituzione avrebbe previsto «poche e circoscritte ipotesi in cui una persona possa essere privata di diritti, ovvero obbligata a prestazioni e ciò sempre in favore dello Stato (art. 53, obbligo di concorrere alle spese pubbliche), ovvero anche di privati (artt. 42 e 43), ma sempre a fronte di specifici motivi d’interesse generale. Nel caso di specie invece, la disposizione in esame, per determinati soggetti, in condizioni deboli (pensionati con redditi minimi, trattandosi di pensioni agricole) ha previsto che questi siano privati di diritti già entrati nel loro patrimonio».

Si tratterebbe, dunque, di una norma priva di adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e contrastante con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, volta ad incidere in modo arbitrario su situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti.

4. — L’INPS si è costituito in giudizio con memoria depositata il 26 dicembre 2010, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

L’Istituto prende le mosse dal rilievo che il legislatore, nel rispetto della riserva prevista per la materia penale dall’art. 25 Cost., può emanare norme con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri diritti e interessi costituzionalmente protetti. Tale assunto trova applicazione sia in presenza di una norma interpretativa, sia di una norma innovativa.

Osserva, poi, che, in relazione alla portata retroattiva della norma d’interpretazione autentica e ai suoi limiti, questa Corte ha più volte affermato che il legislatore non soltanto avrebbe la facoltà di adottare disposizioni dirette a chiarire il significato di altri precetti legislativi, quando sussista una situazione di oggettiva incertezza nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma che tale possibilità sarebbe configurabile anche a fronte di un orientamento della Corte di cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le varie opzioni ermeneutiche cui il testo originario si presta (sono richiamate le sentenze n. 274 del 2006, n. 374 e n. 29 del 2002, n. 525 del 2000).

Nel caso in esame, la norma censurata contemplerebbe uno specifico parametro per il calcolo della retribuzione pensionabile, da sempre applicato dall’Istituto, «conferendo tale dinamica concretezza al dubbio ermeneutico che la citata disposizione ha definitivamente risolto».

Infatti, sul relativo contenzioso, si sarebbe formato un primo indirizzo del giudice di legittimità, in senso sfavorevole a quello seguito in sede amministrativa dall’INPS, all’atto della liquidazione delle pensioni.

Più recentemente, ma prima dell’entrata in vigore della disposizione denunciata, «la stessa Corte regolatrice aveva mutato il proprio orientamento addivenendo alla declaratoria di correttezza dell’operato dell’INPS».

Pertanto, si dovrebbe ritenere che la norma de qua «abbia di fatto avvalorato sul piano legislativo quanto già adottato in sede amministrativa ed avallato, in epoca più recente, in sede giurisdizionale».

Del resto, non si potrebbe negare l’oggettiva incertezza causata dal contrasto tra una prassi amministrativa costante ed un primo orientamento della giurisprudenza in ordine alla corretta individuazione dei criteri di calcolo per i trattamenti in questione. Tale incertezza, al di là del mutamento in senso favorevole alla tesi dell’Istituto operato dalla Corte di cassazione, avrebbe reso non soltanto ragionevole, ma molto opportuno l’intervento del legislatore.

Andrebbe, poi, ricordato che il vigente sistema previdenziale, fondato sul rapporto sinallagmatico tra il versamento dei contributi e l’erogazione delle prestazioni, anche nell’ambito del cosiddetto sistema retributivo, non terrebbe conto soltanto della retribuzione effettivamente riscossa, ma anche della relativa contribuzione. Non sarebbe configurabile, dunque, la discriminazione paventata dal rimettente, perché, da un lato, la norma interpretativa risulterebbe ragionevole, e perciò corretta sul piano costituzionale e, dall’altro, essa non comporterebbe una perdita economica così rilevante da tradursi nella suddetta discriminazione.

Al contrario, la norma avrebbe il merito di ricondurre ad uniformità il sistema previdenziale dei lavoratori agricoli a tempo determinato, individuando un unico parametro di riferimento – il salario medio convenzionale dell’anno precedente – da utilizzare per la liquidazione di ogni prestazione previdenziale, pensionistica e non, oltre che per il calcolo della contribuzione da versare, nel quadro di un percorso legislativo diretto a disegnare un sistema previdenziale nel complesso più coerente e funzionale per la detta categoria di lavoratori, sistema già anticipato dall’intervento attuato con il decreto legislativo 16 aprile 1997, n. 146 (Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 24, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di previdenza agricola).

Ad avviso del deducente, la censura formulata con richiamo all’art. 38 Cost. sarebbe generica e, comunque, non fondata, non risultando in alcun modo vulnerato il principio dell’adeguatezza del trattamento pensionistico, comunque da bilanciare con l’esigenza di rispettare il limite delle risorse disponibili, anche con riferimento all’art. 81 Cost., fermo restando che «in sede di manovra finanziaria di fine anno spetta al Governo e al Parlamento introdurre modifiche alla legislazione di spesa, ove ciò sia necessario a salvaguardare l’equilibrio del bilancio dello Stato e perseguire gli obiettivi della programmazione finanziaria».

Sarebbe innegabile, del resto, che al legislatore debba essere riconosciuto un margine di discrezionalità nella concretizzazione del precetto costituzionale relativo all’adeguatezza della prestazione previdenziale, tenendo conto della consistenza delle risorse economiche disponibili e considerando che, nel caso di specie, non sarebbe neppure in gioco la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 180 del 2001).

Quanto al dubbio sulla legittimità costituzionale della norma censurata, sollevato con riferimento agli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 14 CEDU, la detta norma interpretativa sarebbe del tutto legittima, essendosi limitata a rendere esplicito un contenuto già insito nella disposizione di riferimento.

Invero, non sussisterebbero profili di contrasto con l’art. 111 Cost. sul giusto processo, perché scopo della norma in questione non sarebbe quello d’imporre una determinata soluzione ai giudizi pendenti, bensì quello di precisare l’opzione ermeneutica da adottare, indicando in modo espresso la volontà del legislatore sul punto.

Né, in linea generale, si potrebbe affermare che una norma d’interpretazione autentica sia di per sé contraria al principio del giusto processo, in quanto un intervento legislativo di tal genere dovrebbe ritenersi legittimo in presenza di obiettivi di pubblica utilità, nel cui novero certamente rientrerebbe l’esigenza di salvaguardare i principi informativi del sistema previdenziale pubblico e, in particolare, l’esigenza di garantire l’integrità del rapporto tra retribuzione pensionabile e provvista contributiva disponibile, calcolandole entrambe su un unico ed omogeneo parametro.

Del pari infondata sarebbe la censura mossa per pretesa violazione degli artt. 6 e 14 CEDU. Il rispetto dei principi della Convenzione non comporterebbe affatto che debbano essere disattese esigenze nazionali nascenti da inderogabili necessità pubbliche, quali sarebbero le esigenze di salvaguardare i principi che governano il sistema previdenziale pubblico.

Infine, non sarebbe ravvisabile violazione del canone di parità delle parti nel processo, perché esso «non consente di ingerirsi nell’esercizio del potere discrezionale e politico del legislatore, tanto più che il suddetto esercizio non rientra certo nelle prerogative di una delle due parti in causa – l’INPS – che non è depositario del detto potere».

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Rossano, in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro, dubita – in riferimento agli articoli 3, 38, secondo comma, 53, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010).

Il rimettente premette di essere chiamato a pronunziarsi su due ricorsi (poi riuniti per ragioni di connessione), proposti da due operaie agricole a tempo determinato, titolari di pensioni categoria VO, nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale.

Le attrici hanno sostenuto che il detto Istituto, nel determinare la pensione, avrebbe erroneamente applicato l’art. 28 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria), in quanto, nel calcolare la pensione spettante alle lavoratrici, avrebbe assunto come base non già il salario medio convenzionale dell’anno in cui il lavoro è stato prestato, bensì quello dell’anno precedente. Pertanto, hanno chiesto che sia dichiarato il loro diritto ad ottenere la riliquidazione della pensione di vecchiaia in godimento sulla base del salario medio convenzionale in vigore nell’anno in cui il lavoro era stato prestato, con condanna dell’INPS alla ricostruzione della pensione e al pagamento delle differenze mensili.

Il Tribunale giudica la questione rilevante, perché la norma censurata «viene a disciplinare, con chiara efficacia sulla controversia in esame, il sistema di accredito contributivo ed il calcolo consequenziale della pensione». Osserva che la Corte di cassazione, con orientamento costante, si era espressa in senso favorevole alla tesi propugnata dalle attrici.

Rileva che, recentemente, la stessa Corte, con sentenza n. 2531 del 2009, è pervenuta a risolvere la questione in senso opposto, ma considera tale nuovo orientamento non condivisibile, alla stregua delle precedenti conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza. E afferma che la norma, della cui legittimità costituzionale dubita – stabilendo che il terzo comma dell’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457 (Miglioramenti ai trattamenti previdenziali ed assistenziali nonché disposizioni per la integrazione del salario in favore dei lavoratori agricoli), si interpreta nel senso che il termine per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro, ai fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a tempo determinato, è quello previsto dal secondo comma dell’art. 3 della medesima legge per gli operai a tempo indeterminato – imporrebbe di ritenere applicabile non l’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968, ma il citato terzo comma dell’art. 3 della legge n. 457 del 1972, come interpretato, alla stregua del quale si dovrebbe pervenire al rigetto delle domande.

In questo quadro, il rimettente ritiene le questioni di legittimità costituzionale non manifestamente infondate, con riferimento ai parametri invocati.

In particolare, la norma denunziata si porrebbe in contrasto: a) con l’art. 3 Cost., «apparendo la disposizione sospettata irragionevole ed in evidente contrasto con lo scopo manifestato», in quanto il legislatore avrebbe esteso la portata di una disposizione normativa, in precedenza inapplicabile alla fattispecie, mediante una norma autoqualificata come interpretativa, con lo scopo di non adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, evitando in tal modo la condanna in un contenzioso seriale. Inoltre, essa determinerebbe una discriminazione basata sulle condizioni sociali delle istanti, essendo notorio che i braccianti agricoli provengono da una categoria della società meno favorita sul piano sociale ed economico e soltanto per tale categoria si valuterebbe, al fine della determinazione della base pensionabile, il più basso salario dell’anno precedente. Infine, sarebbe violato il principio generale che consente al legislatore di emanare norme retroattive soltanto qualora esse trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, finendo in tal modo per incidere arbitrariamente su situazioni sostanziali disciplinate da leggi precedenti; b) con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, perché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenere leso a causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie; c) con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, all’art. 6 CEDU, in relazione al quale la Corte di Strasburgo ha sempre affermato che «se, in principio, al potere legislativo non è impedito regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni a portata retroattiva, i diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della prevalenza del diritto e la nozione del processo equo sanciti dall’articolo 6 si oppongono, salvo che nel caso di motivi imperativi d’interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla conclusione giudiziaria della causa» (nel caso di specie non sarebbero ravvisabili “motivi imperativi d’interesse generale”); d) ancora con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, «che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della Convenzione» (la norma censurata interverrebbe contro una sola categoria di soggetti, appartenenti a settori deboli della società, trattandosi di lavoratori precari con contratti stagionali); e) con gli artt. 38, secondo comma, e 53 Cost., perché la norma censurata andrebbe ad incidere su un rapporto di credito-debito in via di accertamento, provocando l’estinzione del diritto di credito del pensionato per i ratei già maturati e, quindi, privando quest’ultimo di parte della pensione già maturata, con violazione dei citati parametri costituzionali, avendo il legislatore previsto l’elisione del menzionato diritto, «già presente nel patrimonio delle posizioni giuridiche degli istanti, in assenza di apprezzabile giustificazione, essendo quella esplicitata dalla disposizione in esame, ovvero l’interpretazione di disposizione normativa, inesistente». Si tratterebbe, quindi, di una disposizione in senso lato ablatoria, impositiva di un sacrificio ad una sola categoria di soggetti deboli in favore dell’INPS, adottata al di fuori delle ipotesi, tassativamente previste in Costituzione, nelle quali una persona può essere privata di diritti, ovvero obbligata a prestazioni, sempre a fronte di specifici motivi d’interesse generale.

2. — La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, sollevata con riferimento all’art. 38, secondo comma, Cost., è inammissibile per il suo carattere generico.

Il parametro evocato stabilisce che «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi, adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». Il rimettente si limita a richiamare questo precetto, ma non chiarisce le ragioni per le quali esso sarebbe violato dalla norma censurata. In particolare, sarebbe stato quanto meno necessario esporre gli argomenti idonei a far ritenere che il sistema stabilito dalla norma de qua andrebbe ad incidere sull’adeguatezza della prestazione pensionistica, in guisa tale da vulnerare il dettato costituzionale.

In difetto di tale profilo, la questione risulta prospettata in termini generici, il che non consente di darle ingresso.

3. — Del pari inammissibile è la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 53 Cost.

Infatti, detta norma riguarda l’imposizione tributaria in senso proprio e non la materia previdenziale (sentenze n. 47 del 2008, n. 311 del 1995; ordinanze n. 202 del 2006, n. 22 del 2003), e il rimettente si limita ad una mera enunciazione del parametro senza spiegare le ragioni della sua pertinenza alla fattispecie.

4. — La questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.

L’art. 3, secondo comma, della legge n. 457 del 1972, in materia di lavoro agricolo, stabilisce che «Per i salariati fissi l’ammontare della retribuzione comprensiva del salario base, della contingenza, delle indennità in natura e fisse, è costituito dalla media della retribuzione prevista per ciascuna qualifica dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente».

L’art. 3, terzo comma, della legge citata prevede che «Per i giornalieri di campagna l’ammontare della retribuzione, comprensiva del salario base, contingenza, terzo elemento ed altre indennità fisse, è costituito dalla media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro vigenti al 30 ottobre di ogni anno. La media tra le retribuzioni delle diverse qualifiche è determinata dividendo per sei il totale costituito dalla somma del salario previsto per il lavoratore comune, del doppio del salario previsto per il lavoratore qualificato, nonché del triplo del salario previsto per il lavoratore specializzato».

Il detto comma formò già oggetto d’interpretazione autentica da parte dell’art. 45, comma 21, della legge 17 maggio 1999, n. 144 (Misure in materia d’investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina l’INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali), alla stregua del quale «Il terzo comma dell’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, si interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30 ottobre per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai fini della determinazione della retribuzione media da porre a base per la liquidazione delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato è il medesimo di quello previsto al secondo comma dell’articolo 3 della citata legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato».

Sia pur limitatamente alla liquidazione delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato, dunque, il legislatore già si era espresso equiparando, ai fini di cui alla norma medesima, la posizione degli operai agricoli a tempo determinato a quella degli operai a tempo indeterminato.

La norma in questa sede censurata (art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009), trascritta in narrativa, ha, in sostanza, reiterato in via ermeneutica la norma già dettata per la liquidazione delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato, estendendola alla retribuzione delle prestazioni pensionistiche e al calcolo della contribuzione relative alla medesima categoria di lavoratori.

In questo quadro (nel quale, per completezza, va iscritto anche l’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968), la giurisprudenza della Corte di cassazione in un primo momento aveva affermato che «In tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata, sia applicando l’art. 28 d.P.R. n. 488 del 1968, sia applicando l’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972, nel testo risultante dalla norma d’interpretazione autentica del 1999 (art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999), sulla base delle retribuzioni medie annualmente vigenti, mentre nessuna disposizione appare idonea a giustificare il diverso sistema di calcolo improntato sulla media vigente nell’anno precedente, atteso che l’art. 28 del d.P.R. n. 488 citato rimette al d. m. la determinazione delle retribuzioni medie su cui calcolare la pensione, prescrivendo, però, senza alcun margine di discrezionalità, che la media sia quella vigente per ciascun anno e l’ente previdenziale è già tempestivamente a conoscenza della media delle retribuzioni su cui determinare la retribuzione pensionabile di ciascun anno. Detta interpretazione è coerente con il principio, proprio del sistema retributivo del calcolo pensionistico, secondo il quale la retribuzione pensionabile è ancorata per quanto possibile all’ultimo trattamento retributivo percepito, al fine di non alterare negativamente il regime di vita acquisito prestando attività lavorativa» (ex plurimis: sentenza n. 3212 del 14 febbraio 2007).

Successivamente la Corte di cassazione, avendo rimeditato il precedente orientamento, ha affermato che «In tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata applicando l’art. 28 del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 e, dunque, in forza della determinazione operata anno per anno da d. m. sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale nell’anno precedente, ciò trovando conferma – oltre che nella impossibilità di rinvenire un diverso e più funzionale sistema di calcolo che non pregiudichi l’equilibrio stesso della gestione previdenziale di settore – anche nella disposizione di cui all’art. 45, comma 21, della legge 17 maggio 1999, n. 144 che, nell’interpretare autenticamente l’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, concernente le prestazioni temporanee in favore dei lavoratori agricoli, ha inteso estendere ai lavoratori agricoli a tempo determinato l’applicazione della media della retribuzione prevista dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente prevista per i salariati fissi, così da ricondurre l’intero sistema ad uniformità, facendo operare, ai fini del calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente» (ex plurimis: sentenza n. 2531 del 20 gennaio 2009).

Ciò posto, si deve premettere che, con riferimento ad altre leggi d’interpretazione autentica, questa Corte ha già affermato che non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva), ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Infatti, il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost. Pertanto, il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Sotto l’aspetto del controllo di ragionevolezza, dunque, rilevano la funzione di “interpretazione autentica”, che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l’idoneità di una disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge dispone soltanto per l’avvenire. In particolare, la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 162 e n. 74 del 2008).

Inoltre, questa Corte ha anche chiarito, con riferimento ai rapporti di durata, che il legislatore, in materia di successione di leggi, dispone di ampia discrezionalità e può anche modificare in senso sfavorevole la disciplina di quei rapporti, ancorché l’oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, come si è innanzi precisato, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25, secondo comma, Cost., e comunque a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenza n. 236 del 2009 e giurisprudenza in essa richiamata).

Con riguardo ai principi qui richiamati, si devono escludere le violazioni dell’art. 3 Cost., ipotizzate dal rimettente.

Infatti, la norma censurata non presenta alcun carattere irragionevole, ma s’inserisce in un orientamento legislativo già in precedenza espresso che, sia pure con riferimento alla liquidazione delle prestazioni temporanee, aveva previsto per gli operai agricoli a tempo determinato il medesimo criterio contemplato dall’art. 3, secondo comma, della legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato (art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999). È vero che le prestazioni temporanee sono diverse da quelle pensionistico – contributive; non è esatto, però, che, come il rimettente sembra postulare, queste ultime riguardino tutt’altra materia rispetto alle prime, essendo palese che le une e le altre attengono al complessivo trattamento previdenziale della categoria dei lavoratori agricoli, sicché appare non irragionevole la finalità perseguita dal legislatore, diretta a ricondurre il sistema ad una disciplina uniforme, utilizzando, ai fini del calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente.

Del resto, la presunta irragionevolezza della norma censurata va esclusa anche sotto altro profilo. Invero, l’opzione ermeneutica prescelta dal legislatore non ha affatto introdotto nella disposizione interpretata un elemento ad essa del tutto estraneo, ma si è limitata ad assegnarle un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario. Il che è reso evidente dai contrastanti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, di cui la medesima ordinanza di rimessione dà conto e che sono anteriori alla norma censurata. Tali orientamenti rivelano una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo e dunque rendono non irragionevole il ricorso del legislatore alla interpretazione autentica (ordinanza n. 400 del 2007).

Pertanto l’assunto del rimettente, secondo cui l’intervento legislativo sarebbe stato ispirato dal «fine di non adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, così evitando la condanna in un contenzioso seriale», non può essere condiviso, perché non è sorretto da adeguata motivazione, idonea a superare gli argomenti ora esposti, ed anzi è smentito dai dati dianzi richiamati.

Né è ravvisabile «una discriminazione in sfavore di categorie deboli». A parte il carattere generico della censura, si deve osservare che la norma si limita ad equiparare, ai fini della individuazione del termine in essa contemplato, la categoria degli operai agricoli a tempo determinato a quella degli operai agricoli a tempo indeterminato, così uniformando il sistema ed adottando un criterio già presente nell’ordinamento.

Infine, l’argomento secondo cui la disposizione de qua avrebbe carattere in senso lato ablatorio, diretto ad imporre un sacrificio ad una sola categoria di soggetti deboli in favore dell’INPS, non è fondato. Esso muove dal presupposto che la norma censurata avrebbe l’effetto di «determinare l’estinzione del diritto di credito del pensionato anche alle differenze dei ratei di pensione infratemporalmente maturati». Si tratterebbe, dunque, di una «estinzione del debito in forza di disposizione legislativa», che andrebbe a colpire un diritto «già presente nel patrimonio delle posizioni giuridiche degli istanti». Il presupposto, però, è errato, perché la situazione giuridica vantata dalle parti private non poteva considerarsi acquisita o consolidata, proprio avuto riguardo alle oggettive incertezze del dato normativo, desumibili dai contrastanti orientamenti della giurisprudenza e superati dalla norma interpretativa.

5. — La questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., non è fondata.

Il rimettente ravvisa anche un contrasto con l’art. 117 (primo comma) Cost., per violazione degli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Infatti, con riferimento al citato art. 6, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe sempre affermato che «se, in principio, al potere legislativo non è impedito regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni a portata retroattiva, i diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della prevalenza del diritto e la nozione del processo equo si oppongono, salvo che nel caso di motivi imperativi d’interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla conclusione giudiziaria della causa» (è richiamata, insieme con altre pronunzie, la sentenza della citata Corte 18 dicembre 2008, relativa al ricorso n. 20153 del 2004, UNEDIC c/ Francia).

Nel caso di specie, a giudizio del rimettente, non sussisterebbero motivi imperativi d’interesse generale.

Inoltre, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, in quanto la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenere leso a causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.

Ancora, sussisterebbe violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della Convenzione. La norma censurata interverrebbe contro una sola categoria di soggetti, appartenenti a settori della società socialmente ed economicamente deboli. Nel caso di specie, la possibile discriminazione sarebbe duplice: «da un lato i precari della agricoltura rispetto al resto del precariato, che vede la propria contribuzione correlata alla retribuzione reale e, dall’altro, gli operai agricoli rispetto agli altri lavoratori dipendenti, che vedono le loro contribuzioni correlate alla retribuzione reale».

5.1. — In premessa, si deve ricordare che questa Corte, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. I principi illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati. Alla luce di essi si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007, citata).

Orbene, con riguardo all’art. 6 della CEDU, si deve osservare che la Corte di Strasburgo, pur censurando in numerose occasioni indebite ingerenze del potere legislativo degli Stati sull’amministrazione della giustizia (per una ricognizione dei casi trattati, sentenza di questa Corte n. 311 del 2009), non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari al menzionato art. 6 particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali (sentenza da ultimo citata, punto 8 del Considerato in diritto). La regola di diritto, affermata anche di recente con sentenza della seconda sezione in data 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri c/ Italia, è che «Se, in linea di principio, il legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall’articolo 6 ostano, salvo che per ragioni imperative d’interesse generale, all’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte».

Anche secondo la detta regola, dunque, sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.). Diversamente, se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo d’influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione, priva di significato concreto.

Nel caso in esame, la norma censurata non è illegittima sulla base dei rilievi in precedenza svolti. In particolare, si deve qui ribadire che essa: a) ha affermato un principio già presente nell’ordinamento per gli operai agricoli a tempo determinato, sia pure limitatamente alla liquidazione delle prestazioni temporanee (art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999); b) ha enucleato una delle possibili opzioni ermeneutiche dell’originario testo normativo; c) ha superato una situazione di oggettiva incertezza di tale testo, evidenziata dai diversi indirizzi interpretativi (di cui sopra si è dato conto); d) non ha inciso su situazioni giuridiche definitivamente acquisite, non ravvisabili in mancanza di una consolidata giurisprudenza dei giudici nazionali.

Non è sostenibile, dunque, che la disposizione de qua abbia inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie. Essa, in realtà, ha fatto propria una soluzione già individuata dalla più recente giurisprudenza di legittimità, nell’esercizio di un potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore e nel quale non è dato ravvisare profili di irragionevolezza. La finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo del legislatore.

Pertanto, il denunciato contrasto tra la norma censurata e l’art. 6 CEDU, con violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., deve essere escluso.

Del pari, va esclusa l’asserita violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost. In particolare, non è violato il principio della parità delle parti nel processo. Infatti, come si è osservato, il legislatore ha individuato una delle possibili opzioni interpretative della norma, per garantire la certezza applicativa del sistema evitando ulteriori contenziosi, e non con lo scopo d’interferire su quelli in corso, peraltro già soggetti al nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità conforme alla disposizione interpretativa.

Infine, il rimettente prospetta una «possibile violazione» dell’art. 117, primo comma, Cost., «per violazione dell’art. 14 della CEDU che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della convenzione». La norma censurata sarebbe intervenuta contro una sola categoria di soggetti appartenenti a settori deboli della società.

Tuttavia il Tribunale non chiarisce i motivi di una simile valutazione, ravvisa una discriminazione tra i precari dell’agricoltura e «il resto del precariato», senza farsi carico di individuare posizioni comparabili e almeno tendenzialmente omogenee e non spiega le ragioni sulla cui base ha ritenuto che la contribuzione degli operai agricoli non sia correlata al salario reale per l’equiparazione, operata dalla norma censurata, tra operai agricoli a tempo determinato e a tempo indeterminato. Questo profilo, dunque, per il suo carattere generico non può trovare ingresso.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), sollevate, in riferimento agli articoli 38, secondo comma, e 53 della Costituzione, dal Tribunale di Rossano, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della detta legge 23 dicembre 2009, n. 191, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 111, primo e secondo comma, 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di Rossano, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 258

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 9, della legge della Regione Marche 14 aprile 2004, n. 7 (Disciplina della procedura di valutazione di impatto ambientale), promosso dal Tribunale amministrativo regionale delle Marche nel procedimento vertente tra l’Idrotermica 2006 s.r.l. e la Regione Marche ed altra, con ordinanza del 26 marzo 2010, iscritta al n. 193 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;

udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

udito l’avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche.

Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale delle Marche, con ordinanza del 26 marzo 2010 (reg. ord. n. 193 del 2010) – nel corso di un giudizio di impugnazione del decreto del dirigente della posizione di funzione, valutazioni ed autorizzazioni ambientali n. 20/VAA-08 del 27 febbraio 2009, mediante il quale la Regione Marche ha disposto di assoggettare alla procedura di valutazione di impatto ambientale (c.d. VIA) il progetto di una centrale idroelettrica sul fiume Potenza, presentato dalla Idrotermica 2006 s.r.l., e di negare l’autorizzazione paesaggistica – ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 9, della legge della Regione Marche 14 aprile 2004, n. 7 (Disciplina della procedura di valutazione di impatto ambientale), in riferimento agli artt. 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione;

che il giudice a quo riferisce che l’opera in questione rientra nella previsione di cui all’allegato B1, punto 2, della legge regionale n. 7 del 2004, per cui, in caso di esito negativo del c.d. screening preliminare, il relativo progetto va sottoposto alla VIA e che la relativa competenza è della Regione;

che, in punto di fatto, il giudice rimettente espone che la domanda di rilascio dell’autorizzazione unica è stata presentata il 6 ottobre 2006, con successiva produzione della documentazione integrativa richiesta e con espressione del parere favorevole del Comune di Castelraimondo, della Provincia di Macerata e dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale delle Marche (ARPAM);

che, secondo il tribunale, il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo in quanto alla data del 18 giugno 2007 si era formato il silenzio-assenso ex art. 6, comma 9, della legge regionale n. 7 del 2004, nella versione previgente all’abrogazione di tale norma disposta dall’art. 5 della legge della Regione Marche 12 giugno 2007, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla L.R. 14 aprile 2004, n. 7, alla L.R. 5 agosto 1992, n. 34, alla L.R. 28 ottobre 1999, n. 28, alla L.R. 23 febbraio 2005, n. 16 e alla L.R. 17 maggio 1999, n. 10 – Disposizioni in materia ambientale e rete natura 2000);

che, poiché la citata legge n. 6 del 2007 è stata pubblicata nel B.U.R.M. del 21 giugno ed è entrata in vigore il 18 giugno 2007 (computando quale dies a quo il 18 aprile 2007, ossia la data nella quale il ricorrente ha integrato la documentazione carente) si era ormai avverata la fattispecie autorizzativa implicita prevista dal citato art. 6, comma 9;

che, in punto di rilevanza, il rimettente assume che l’abrogazione dell’art. 6, comma 9, secondo cui “la mancata pronuncia dell’autorità competente, nel termine di cui al comma 7 comporta l’esclusione del progetto dalla procedura di VIA”, è intervenuta il 6 luglio 2007, quando ormai il silenzio-assenso si era formato, senza che possa sostenersi che il provvedimento impugnato abbia rimosso, in via di autotutela, l’atto di autorizzazione implicito, in quanto l’atto in questione non fa alcun riferimento all’esercizio dello ius poenitendi della p.a.;

che, ciò premesso, il TAR rimettente ritiene che la definizione della controversia non possa prescindere da una pronuncia di incostituzionalità della norma impugnata, non potendosi né invocare la disapplicazione della stessa per contrasto con la direttiva comunitaria 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE, né sostenere la sua implicita abrogazione ad opera dell’art. 20, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi);

che, circa la non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale per la quale il silenzio della p.a. non potrebbe assumere il valore di assenso, sussistendo la necessità di una pronuncia esplicita, nonché i principi desumibili dalla legislazione statale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, concludendo per la declaratoria di incostituzionalità della norma;

che si è costituita la Regione Marche facendo presente di avere già sostenuto, in sede di giudizio di merito, che gli uffici regionali non avevano fatto applicazione del citato art. 6, comma 9, sia per il contrasto con la direttiva comunitaria n. 85/337/CEE, e delle relative pronunce della Corte di giustizia, sia per il contrasto con la legislazione statale in tema di ambiente;

che la tesi della inapplicabilità della direttiva comunitaria sarebbe intrinsecamente contraddittoria;

che sarebbe poi evidente il contrasto con la disciplina comunitaria della norma sul silenzio-assenso, dal momento che il tenore testuale della direttiva (art. 4, par. 2, 3 e 4), si pone in termini di evidente incompatibilità con qualunque ipotesi di silenzio-assenso;

che l’inapplicabilità della norma censurata alla fattispecie, la piena legittimità del provvedimento adottato dalla Regione, nonché il difetto di rilevanza della questione sollevata, risultano anche dalla considerazione del rapporto tra la suddetta norma regionale e la disciplina statale vigente all’epoca dei fatti di causa;

che, solo in via subordinata, e cioè nell’ipotesi in cui la Corte dovesse ritenere la norma impugnata applicabile alla fattispecie, la Regione Marche conclude per la fondatezza della questione;

che, nell’imminenza della udienza di discussione, la Regione ha depositato memoria con la quale insiste negli argomenti prospettati nell’atto di costituzione.

Considerato che il Tribunale amministrativo regionale delle Marche dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 9, della legge della Regione Marche 14 aprile 2004, n. 7 (Disciplina della procedura di valutazione di impatto ambientale) in riferimento agli artt. 9, 97 e 117 della Costituzione;

che, secondo la norma citata, nella versione previgente all’abrogazione disposta dall’art. 5 della legge della Regione Marche 12 giugno 2007, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla L.R. 14 aprile 2004, n. 7, alla L.R. 5 agosto 1992, n. 34, alla L.R. 28 ottobre 1999, n. 28, alla L.R. 23 febbraio 2005, n. 16 e alla L.R. 17 maggio 1999, n. 10 – Disposizioni in materia ambientale e rete natura 2000), prescriveva che la mancata pronuncia dell’autorità competente, nel termine di giorni 60, sulla domanda relativa ad un progetto da assoggettare alla procedura di impatto ambientale (VIA), comportava l’esclusione del progetto dalla stessa procedura;

che la questione è stata sollevata nell’ambito di un giudizio di impugnazione, da parte del proponente un progetto per la costruzione di una centrale idroelettrica, avverso la delibera regionale di assoggettamento alla procedura di VIA (e del conseguente rigetto dell’autorizzazione paesaggistica);

che, secondo il ricorrente, sulla sua domanda di autorizzazione alla realizzazione dell’impianto si sarebbe formato il silenzio-assenso, in base alla normativa regionale all’epoca vigente;

che il rimettente – constatando che l’opera in questione rientra nella previsione di cui all’allegato B1, punto 2, della citata legge regionale n. 7 del 2004, per cui, in caso di mancato superamento della procedura di verifica di assoggettabilità (c.d. screening preliminare), il relativo progetto va sottoposto alla VIA – riferisce, che a seguito dell’abrogazione del comma 9 dell’art. 6, della cui illegittimità si discute, il silenzio osservato dall’amministrazione equivale ora a inadempimento;

che, ciò premesso, lo stesso rimettente dubita, però, che la norma citata, nel periodo in cui è stata in vigore, e grazie alla quale sarebbe maturato il silenzio-assenso sulla domanda del privato, sia conforme: a) all’art. 9 Cost., oltre che all’art. 97 Cost., per essere l’atto autorizzativo implicito validamente utilizzabile nei procedimenti in cui l’amministrazione deve solo verificare la conformità dell’istanza del privato rispetto ad uno schema normativo predeterminato, e non in materia ambientale, in cui sono necessarie valutazioni di compatibilità con la tutela ambientale; b) e all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per essere il silenzio-assenso, previsto dalla disposizione regionale, in contrasto con i principi dettati dallo Stato in materia nella quale è configurabile la competenza esclusiva (art. 32 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale);

che l’ordinanza di rimessione è in sé contraddittoria, e ingenera il dubbio di una non completa comprensione del funzionamento dell’istituto della VIA;

che la formulazione della questione in modo perplesso e contraddittorio è ragione di manifesta inammissibilità (ordinanze n. 90 del 2009, n. 252 e n. 433 del 2008);

che l’argomentazione del giudice a quo non è congruente alle finalità della procedura preliminare di screening, che ha lo scopo di verificare l’assoggettabilità di un’opera alla procedura di VIA, nel senso che, ove l’opera abbia un’astratta rilevanza nel contesto ambientale, per essere ricompresa negli elenchi allegati alla legge, la verifica preliminare vale ad incanalare un progetto verso la valutazione vera e propria dell’impatto ambientale, o diversamente, ove l’opera risulti priva di rilevanza, di esentarlo dalla VIA;

che il rimettente, da un lato, mostra di ritenere l’impianto progettato privo della rilevanza necessaria a sottoporlo alla verifica preliminare, mentre poi, sorprendentemente, dall’altro, afferma che «pur avendo esso un impatto sull’ambiente, che sarà oggetto di valutazione in sede di procedura di VIA (…) non per questo autorizzabile senza ulteriori verifiche circa la sua compatibilità con l’ecosistema»;

che è evidente che, qualora la norma della cui legittimità si dubita dovesse essere interpretata nel senso che l’esclusione del progetto dalla verifica preliminare comporta ugualmente il successivo assoggettamento alla VIA, verrebbe meno la rilevanza della questione nel giudizio a quo, in cui oggetto dell’impugnazione è proprio la delibera regionale di assoggettamento del progetto alla VIA;

che, nella stessa supposizione che il progetto dell’opera oggetto del giudizio in corso non sia soggetto a verifica, perché privo di “rilevante” impatto, il giudice, che pure si dichiara titolare di un sindacato “debole” o “estrinseco”, oltre a compiere una valutazione di merito che è estranea ai presupposti di applicabilità della procedura, è convinto di non poter disapplicare la norma, ritenendone il contrasto con la disciplina comunitaria posta dalla direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE (Direttiva del Consiglio concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati);

che, nei giudizi di costituzionalità in via incidentale, ove il diritto comunitario sia immediatamente applicabile, in modo da indurre alla non applicazione di una norma interna, viene meno la rilevanza della questione (ex plurimis sentenze nn. 288 e 227 del 2010, nn. 125 e 100 del 2009, n. 284 del 2007; ordinanze n. 415 del 2008 e n. 454 del 2006);

che l’astratta riconducibilità di un progetto alla tipologia enucleata dalla normativa europea e da quella interna applicativa (lo stesso rimettente dà atto che il progetto per cui è causa rientra nella tipologia prevista dall’allegato B1, punto 2, della legge della Regione Marche n. 7 del 2004), rende obbligatoria la verifica preventiva, tant’è che lo stesso ricorrente in causa aveva ritenuto di doverne inoltrare domanda, salvo poi assumere su di essa il silenzio-assenso;

che, con riguardo alla direttiva comunitaria concernente la valutazione dell’impatto ambientale, è indubitabile che la regola della necessaria verifica di sottoponibilità dei progetti testualmente individuati (anche nella integrazione delle discipline nazionali) alla valutazione ambientale costituisce previsione immediatamente precettiva, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (così la sentenza 10 giugno 2004, in causa C-87/02), e dalla stessa giurisprudenza amministrativa, che ha ritenuto di disapplicare la normativa regionale sul silenzio-assenso in materia ambientale (tra le altre, sentenze del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5169 del 2001 e n. 4058 del 2008; sez. VI, n. 3913 del 2005);

che ulteriori ragioni di inammissibilità riguardano la pertinenza dei parametri evocati;

che il rimettente prospetta in primo luogo il contrasto con l’art. 9 Cost., ma sotto tale profilo l’ordinanza è del tutto priva di motivazione (ordinanze n. 61 del 2010, n. 171 del 2009, n. 206 del 2008), restando il collegamento alla tutela dell’ambiente solo intuitivo, in base all’argomentazione sviluppata in riferimento agli altri due parametri;

che, riguardo al prospettato contrasto con l’art. 97 Cost., alla luce del quale, secondo il giudice a quo, l’atto autorizzativo implicito può essere validamente utilizzabile nei procedimenti in cui l’amministrazione deve solo verificare la conformità dell’istanza del privato rispetto ad uno schema normativo predeterminato, va ricordato che, in linea di principio, al legislatore non è affatto preclusa, sul piano costituzionale, la qualificazione in termini di silenzio-assenso del decorso del tempo entro il quale l’amministrazione competente deve concludere il procedimento e adottare il provvedimento;

che, allo stesso modo, non è preclusa nel suddetto settore la previsione di ulteriori istituti di semplificazione amministrativa, restandone affidata la scelta a valutazioni rimesse alla discrezionalità legislativa, nell’obiettivo di tempestività ed efficienza dell’azione amministrativa e quindi di buon andamento (sentenza n. 404 del 1997);

che non appropriatamente richiamato è l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che attribuisce la competenza legislativa esclusiva allo Stato, in materia ambientale;

che è pur vero che la disciplina della VIA attiene alla tutela dell’ambiente (sentenze n. 1 del 2010 e nn. 234 e 225 del 2009), ma deve ritenersi che nella norma della cui illegittimità si discute non può in alcun modo verificarsi uno sconfinamento della Regione dalle proprie prerogative legislative, posto che, da un lato, la regolamentazione si riferisce alle opere per le quali è la Regione a dover compiere la verifica di compatibilità ambientale, e dall’altro, la previsione del silenzio-assenso di cui all’art. 6, comma 9, della legge della Regione Marche n. 7 del 2004 non faceva che applicare il principio sancito, a livello di normativa statale, dall’art. 10, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 1996 (Atto di indirizzo e coordinamento per l’attuazione dell’art. 40, comma 1, della L. 22 febbraio 1994, n. 146, concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale), con formulazione quasi identica al dettato normativo di cui si discute («trascorso il termine suddetto, in caso di silenzio dell’autorità competente, il progetto si intende escluso dalla procedura»);

che ulteriore ragione di manifesta inammissibilità è costituita dalla erronea ricostruzione del quadro normativo (in tal senso le ordinanze n. 334 del 2007 e n. 358 del 2004) da parte del rimettente, dal momento che il Tar Marche non opera una ricognizione esatta del sistema legislativo, ai fini di una corretta applicazione al caso di specie, che, come detto, si sviluppa tra il 18 aprile e il 18 giugno 2007, con la pretesa maturazione del silenzio-assenso;

che il rimettente, pur consapevole dell’incompatibilità di certi istituti di semplificazione amministrativa con alcune materie “sensibili”, come l’ambiente, afferma di non poter ritenere l’abrogazione implicita della norma regionale in esame per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), che appunto, al comma 4, anche nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, prevede la necessità di provvedimento amministrativo formale in dette materie, ed il valore del silenzio serbato dall’amministrazione competente come inadempimento;

che, secondo il Tar rimettente, la norma citata non equivarrebbe al divieto di prevedere ipotesi speciali di silenzio-assenso anche in materia ambientale, l’unico limite essendo rappresentato dalle norme costituzionali e dai principi del diritto comunitario;

che, in tal modo, però, lo stesso rimettente si contraddice, nel momento in cui si dichiara consapevole del contrasto tra il principio del silenzio-assenso in materia ambientale e la normativa comunitaria, oltre che, ovviamente, con i parametri costituzionali evocati;

che, sotto un diverso profilo, il rimettente omette di considerare che con l’entrata in vigore del c.d. Codice dell’ambiente, di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), viene sancito il principio del valore negativo del silenzio sulla domanda di verifica di assoggettabilità alla VIA (art. 32) e viene abrogato (art. 48, comma 1, lettera c) il d.P.R. 12 aprile 1996 («Atto di indirizzo e coordinamento per l’attuazione dell’art. 40, comma 1, della legge 22 febbraio 1994, n. 146, concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale»), che all’art. 10, comma 2, conteneva la disposizione sul silenzio-assenso poi recepita dalla legislazione regionale;

che è pur vero che l’entrata in vigore sia dell’art. 32 che dell’art. 48 del Codice dell’ambiente, originariamente prevista entro centoventi giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta sul n. 88 del 14 aprile 2006), è stata prima prorogata al 31 gennaio 2007 dall’art. 1-septies del decreto-legge 12 maggio 2006, n. 173 (Proroga di termini per l’emanazione di atti di natura regolamentare e legislativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2006, n. 228, e successivamente al 31 luglio 2007 dall’art. 5 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 117;

che peraltro l’art. 50 del Codice dell’ambiente, che prevedeva per le Regioni l’obbligo di adeguamento ai nuovi principi, e, in mancanza, la diretta applicazione di questi (ivi compreso l’art. 32 sul valore di inadempimento del silenzio osservato sulla domanda di verifica di assoggettabilità alla VIA), fissava in giorni centoventi il termine per l’adeguamento;

che questo termine, a differenza di quello previsto per l’attuazione della parte seconda del Codice dell’ambiente, non è stato prorogato, ed è scaduto il 12 agosto 2006;

che da ciò consegue che è legittimamente predicabile che al momento di presentazione della domanda (recte, di integrazione della documentazione, ovvero al 18 aprile 2007), in ambito regionale, il silenzio sulla domanda di verifica di assoggettabilità alla VIA non aveva più valore di assenso;

che, pertanto, la questione è sotto i plurimi profili indicati manifestamente inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 9, della legge della Regione Marche 14 aprile 2004, n. 7 (Disciplina della procedura di valutazione di impatto ambientale), sollevata, in riferimento agli artt. 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale delle Marche con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 259

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 30 giugno 2004, relativa alla insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Roberto Castelli nei confronti dell’onorevole Oliviero Diliberto, promosso dalla Corte d’appello di Roma, sezione prima civile, con ricorso notificato il 25 febbraio 2011, depositato in cancelleria l’8 marzo 2011 ed iscritto al n. 6 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2010, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica;

udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi;

udito l’avvocato Giovanni Pitruzzella per il Senato della Repubblica.

Ritenuto che, con ricorso del 20 gennaio 2010, depositato il 10 giugno 2010, la Corte d’appello di Roma, sezione prima civile, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro il Senato della Repubblica a seguito della deliberazione del 30 giugno 2004, con la quale è stata dichiarata l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Roberto Castelli nei confronti dell’onorevole Oliviero Diliberto e per le quali quest’ultimo ha promosso azione civile per il risarcimento dei danni davanti al Tribunale di Roma;

che la Corte ricorrente ha esposto, in premessa, che, con atto di citazione notificato il 28 aprile 2004, l’on. Diliberto conveniva in giudizio il sen. Castelli per sentirne dichiarare la responsabilità per la diffusione di commenti e valutazioni reputati offensivi, denigratori e difformi dal vero, effettuati dal convenuto, all’epoca Ministro della giustizia, nel corso del programma televisivo «Telecamere» registrato il 18 marzo 2004 e trasmesso da Rai 3 il successivo 21 marzo 2004;

che, riferite in dettaglio le espressioni reputate lesive della propria dignità da parte dell’attore, la Corte ricorrente ha puntualizzato che il giudice di primo grado aveva ritenuto di accogliere l’eccezione di improcedibilità della domanda fondata sulla richiamata delibera di insindacabilità, ex art. 68, primo comma, Cost., delle opinioni espresse dal convenuto, in quanto, alla luce dei princìpi delineati dalla legge n. 140 del 2003, la garanzia della immunità doveva ritenersi estesa ad «ogni attività di critica e denuncia politica connessa alla funzione parlamentare, espletata anche al di fuori delle sedi istituzionali, dando così adito ad una valutazione più flessibile in ordine alle esternazioni dei politici, venendo di fatto meno il nesso con l’attività istituzionale propria»;

che adìta a seguito di appello proposto dall’on. Diliberto, la Corte ricorrente ha evidenziato che contro l’atto oggetto dell’attuale giudizio è già stato sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato a seguito di ricorso proposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma nell’ambito del procedimento penale instaurato sulla querela proposta dall’on. Diliberto nei confronti del sen. Castelli per il reato di diffamazione in relazione agli stessi fatti oggetto del procedimento a quo;

che il precedente giudizio è stato definito con la sentenza n. 304 del 2007, con la quale questa Corte ha dichiarato che «non spettava al Senato della Repubblica affermare che le dichiarazioni rese dal senatore Roberto Castelli, oggetto del procedimento penale pendente dinanzi al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi dell’art. 68 della Costituzione», con conseguente annullamento della «deliberazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del 18 maggio 2005 (Doc. IV-ter, n. 10), nella parte in cui richiama la delibera di insindacabilità adottata il 30 giugno 2004 per il procedimento civile avente il medesimo oggetto»;

che, quindi, la delibera di insindacabilità del 30 giugno 2004 non è stata diretto oggetto della pronuncia di annullamento da parte di questa Corte, malgrado la identità dei fatti tra quelli oggetto del procedimento penale e quelli su cui si fonda la domanda civile, di cui all’odierno procedimento;

che, richiamata la giurisprudenza di legittimità in tema di insindacabilità ex art. 68 Cost. e testualmente riprodotti ampi stralci della proposta della Giunta per le elezioni e per le immunità parlamentari, la Corte ricorrente ha sottolineato come, in quest’ultimo documento, non siano stati individuati atti tipici posti in essere dal parlamentare Castelli, nei quali fossero stati affrontati i temi oggetto delle frasi poste a fondamento della azione civile;

che alcuni atti evocati a tal riguardo risulterebbero, infatti, generici, altri irrilevanti, in quanto riguardanti un diverso parlamentare, altri ancora non pertinenti, giacché gli stessi non risulterebbero assimilabili alla ipotesi in esame;

che, pertanto, sussisterebbero i presupposti per sollevare conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica, in riferimento alla deliberazione di insindacabilità adottata il 30 giugno 2004, della quale viene sollecitato l’annullamento conseguente alla correlativa dichiarazione di non spettanza;

che il ricorso è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 38 del 2011, ritualmente notificati e depositati;

che nel giudizio si è costituito il Senato della Repubblica, depositando una memoria nella quale, descritta l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di “nesso funzionale” tra le opinioni espresse dal parlamentare e l’esercizio delle relative attribuzioni, si è sottolineato come il compito riservato a questa Corte sia quello di verificare, caso per caso, se e in che misura le opinioni espresse extra moenia, in forma “atipica” rientrino o meno nell’ambito della insindacabilità, nel quadro di una esigenza di bilanciamento tra i contrapposti valori costituzionali coinvolti;

che il caso di specie rappresenterebbe un esempio paradigmatico «della non più attuale definizione del nesso funzionale agli atti tipici della funzione parlamentare», auspicandosi «l’adozione di nuovi e concreti parametri quali chiavi ermeneutiche utili alla ricostruzione della suddetta funzione»;

che, in un’ulteriore memoria, il Senato ha sostenuto, anche sulla base dei più significativi approdi della giurisprudenza costituzionale, come non sembri «più opinabile che il mandato elettorale si esplichi in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga il cittadino illustrando la propria posizione – quand’anche ciò avvenga al di fuori dei luoghi deputati all’attività legislativa in senso stretto – ed estrinsecandosi attraverso i mezzi di informazione di massa, gli organi di stampa e la televisione»;

che, nella situazione di specie, il contenuto delle affermazioni attribuite al sen. Castelli verrebbe a configurare «attività di critica e di denuncia politica» coperta dalla garanzia della insindacabilità in quanto connessa alla funzione parlamentare;

che, infatti, è pacifico che dette affermazioni siano state rese nel corso di una trasmissione televisiva di informazione politica e parlamentare (come, del resto, attestato anche dallo stesso tema della trasmissione oltre che dalla qualità degli ospiti intervenuti) e che esse abbiano univocamente avuto ad oggetto «il tema della politica giudiziaria e criminale, specialmente in materia di terrorismo», senza contare che il sen. Castelli ricopriva, al tempo, l’incarico di Ministro della giustizia e che, da parlamentare, s’era già espresso, in sede di atti tipici, in senso critico circa le modalità di gestione del cosiddetto “caso Baraldini” da parte dell’allora Guardasigilli on. Diliberto;

che si ribadisce l’auspicio che questa Corte enuclei un concetto di “nesso funzionale” più in linea con il mutato quadro socio-politico, nel senso di «ritenere coperta dalla garanzia di insindacabilità qualunque attività – sia soggettivamente, sia oggettivamente – appunto riconducibile alla obiettiva esplicazione del mandato parlamentare, anche in relazione agli specifici interessi del parlamentare stesso».

Considerato che questa Corte è chiamata a pronunciarsi sul ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dalla Corte d’appello di Roma, sezione prima civile, contro il Senato della Repubblica a seguito della deliberazione del 30 giugno 2004, con la quale è stata dichiarata l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Roberto Castelli nei confronti dell’onorevole Oliviero Diliberto e per le quali quest’ultimo ha promosso azione civile per il risarcimento dei danni davanti al Tribunale di Roma;

che il ricorso contiene anche la richiesta di annullamento della predetta deliberazione all’origine del conflitto;

che la medesima questione relativa alla spettanza del potere del Senato della Repubblica di dichiarare l’insindacabilità delle opinioni espresse dal sen. Roberto Castelli nei confronti dell’on. Oliviero Diliberto è stata già esaminata da questa Corte – con riferimento alla stesso provvedimento oggi nuovamente sottoposto all’esame, di cui anche era stato chiesto l’annullamento – nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato instaurato su ricorso del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma e definito con la sentenza n. 304 del 2007;

che quest’ultima pronuncia ha, da un lato, dichiarato che «non spettava al Senato della Repubblica affermare che le dichiarazioni rese dal senatore Roberto Castelli, oggetto del procedimento penale pendente dinanzi al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione»; e, dall’altro, ha disposto l’annullamento della «deliberazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del 18 maggio 2005 (Doc. IV-ter, n. 10) nella parte in cui richiama la delibera di insindacabilità adottata il 30 giugno 2004 per il procedimento civile avente il medesimo oggetto (Doc. IV-quater, n. 22)»;

che la risoluzione di un conflitto di attribuzione con la pronuncia, come nel caso, sulla spettanza del potere in contestazione – adottata all’esito di un giudizio specificamente orientato alla garanzia dell’ordine costituzionale delle competenze piuttosto che non al controllo della legittimità di singoli atti, ancorché di questi possa, per conseguenza, disporsi l’annullamento (sent. n. 457 del 1999) – preclude il riesame nel merito di una questione che, in quanto connessa a un medesimo atto e relativa a un medesimo fatto, avrebbe il medesimo oggetto, dovendosi considerare esaurita la competenza a giudicarne;

che, d’altra parte, la garanzia sancita dall’art. 68, primo comma, Cost., assicurando ai membri del Parlamento la non perseguibilità a qualsiasi titolo e in qualsivoglia sede (civile, penale, amministrativa, disciplinare, ecc.) per le opinioni espresse nell’esercizio delle proprie funzioni, secondo l’ormai consolidata accezione del “nesso funzionale”, appare dotata di una portata necessariamente integrale, non suscettibile di ottenere diversi effetti ove riferita ai medesimi fatti;

che, inoltre, l’annullamento disposto dalla sentenza n. 304 del 2007 ha riguardato una deliberazione che – in quanto espressamente adottata sulla base della presa d’atto, conforme alla prassi, «che non vi è luogo a deliberare perché la richiesta concerne fatti per i quali il Senato si è già pronunciato», sul presupposto che «le deliberazioni del Senato concernono i fatti e non i procedimenti» – ha esplicitamente acquisito significato e consistenza proprio attraverso il «rinvio alla deliberazione già assunta sul medesimo fatto il 30 giugno 2004 dall’Assemblea del Senato», con la precisazione che questa, adottata in riferimento a un procedimento civile, «deve intendersi applicabile anche al procedimento penale ai sensi dell’art. 3, comma 8, della legge n. 140 del 2003»;

che, dunque, le ragioni delle doglianze prospettate dalla Corte ricorrente devono intendersi complessivamente già accolte con la sentenza n. 304 del 2007, sia con riguardo alla spettanza del potere sia con riguardo all’efficacia dell’atto reputato lesivo;

che il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato manifestamente inammissibile per carenza d’interesse.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dalla Corte d’appello di Roma, sezione prima civile, contro il Senato della Repubblica, come specificato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 260

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 5, e in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), promosso dal Tribunale di Catania nel procedimento penale a carico di N. G. ed altri, con ordinanza del 28 settembre 2010, iscritta al n. 397 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto che il Tribunale di Catania in composizione monocratica, con ordinanza depositata il 28 settembre 2010, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 5, in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale);

che il rimettente premette di essere chiamato a pronunciarsi in un processo penale a carico di N. G., N. F., S. R. e C. G., ai quali è stata contestata, in concorso, la fattispecie prevista dalla norma censurata, «per avere il primo, nella qualità di Direttore Generale dell’Azienda ospedaliera Garibaldi di Catania, organizzato due incontri di propaganda politico elettorale all’interno del predetto plesso ospedaliero nell’interesse degli altri imputati, candidati rispettivamente al Consiglio comunale, alla carica di Sindaco ed alla Presidenza della Provincia regionale di Catania»;

che, come il giudice a quo riferisce, in dibattimento il difensore di S. R. ha eccepito l’illegittimità costituzionale della norma recante il reato ascritto al proprio assistito per contrasto con l’art. 3 Cost., ponendo in evidenza l’irragionevolezza di una disposizione che mantiene «rilevanza penale alla violazione del divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni nell’ambito delle elezioni amministrative laddove la norma contenente la previsione di identico divieto in relazione all’elezione alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica ha perso vigenza per intervenuta abrogazione»;

che, a fondamento dell’istanza, è stato addotto:

che l’art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993 così statuisce: «È fatto divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa», divieto la cui violazione è sanzionata ai sensi del precedente comma 5 (secondo periodo), alla stregua del quale «Chiunque contravviene alle restanti norme di cui al presente articolo è punito con la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni»;

che l’art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), sotto il titolo «Divieto di propaganda istituzionale», prevedeva quanto segue: «È fatto divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per la durata della stessa. Non rientrano nel divieto del presente articolo le attività di comunicazione istituzionale indispensabili per l’efficace assolvimento delle funzioni proprie delle amministrazioni pubbliche»;

che tale articolo, il cui testo risulterebbe «sovrapponibile alla disposizione della cui legittimità si dubita», è stato abrogato dall’art. 13 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), onde «non appare ragionevole il mantenimento della sanzione penale per una condotta che, tutt’ora oggetto di incriminazione nell’ambito della disciplina delle elezioni amministrative, non subisce sanzione ove posta in essere in occasione della competizione elettorale nazionale»;

che, a sostegno della tesi così esposta, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 287 del 2001, la quale dichiarò l’illegittimità costituzionale dello stesso art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993, in questa sede censurato, nella parte in cui puniva il fatto previsto dal precedente comma 3 (obbligo d’indicare il nome del committente responsabile sulle pubblicazioni di propaganda elettorale in detta norma specificate) con la multa anziché con una sanzione amministrativa pecuniaria d’importo corrispondente;

che agli argomenti fin qui esposti il rimettente aggiunge l’osservazione secondo cui la legge n. 28 del 2000, con la quale è stata disposta l’abrogazione del citato art. 5 (della legge n. 515 del 1993), sarebbe diretta a disciplinare in modo uniforme l’accesso ai mezzi di informazione durante le campagne per l’elezione al Parlamento europeo, per le elezioni politiche, regionali e amministrative e per ogni referendum, quindi con valenza estesa a tutte le occasioni elettorali;

che, prosegue il giudice a quo, il dettato dell’art. 9 della stessa legge sembra segnalare l’intenzione del legislatore di disciplinare in modo diverso ed unitario il tema relativo alla condotta delle pubbliche amministrazioni in occasione delle competizioni elettorali, prevedendo per le dette amministrazioni (nelle circostanze contemplate dalla norma) il divieto di svolgere attività di comunicazione, eccetto quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’assolvimento delle funzioni, e stabilendo, in caso di violazione del divieto, interventi dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;

che, infine, ad avviso del rimettente, la questione sarebbe rilevante nel giudizio in corso, nel quale andrebbe valutata «la responsabilità degli imputati in ordine alla fattispecie prevista dalla norma impugnata e ad altro reato aggravato dalla sussistenza di nesso teleologico con il primo»;

che, con atto depositato il 25 gennaio 2011, nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;

che, ad avviso della difesa statale, il divieto per tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di propaganda elettorale realizza un’ipotesi di applicazione concreta del principio d’imparzialità dell’azione amministrativa, stabilito dall’art. 97 Cost., la cui importanza è, in particolare, evidente nel periodo immediatamente precedente la competizione elettorale;

che, inoltre, il divieto è diretto ad impedire il consolidarsi di un vantaggio elettorale a favore dei politici uscenti nei confronti degli sfidanti, date le facilitazioni, in termini di comunicazione e di visibilità, di cui i primi dispongono in via esclusiva e gratuita;

che l’art. 9 della legge n. 28 del 2000, analogamente alla norma censurata, sancisce il divieto per tutte le amministrazioni pubbliche, durante il periodo compreso tra la data di convocazione dei comizi elettorali e la chiusura delle operazioni di voto, «di svolgere attività di comunicazione, ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace svolgimento delle proprie funzioni»;

che, in base al disposto del successivo art. 10 della legge n. 28 del 2000, «Le violazioni delle disposizioni di cui alla presente legge, nonché di quelle emanate dalla Commissione e dall’Autorità, sono perseguite d’ufficio da quest’ultima secondo le disposizioni del presente articolo» (il riferimento è alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni);

che, pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, la violazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, del divieto di comunicazione istituzionale durante la campagna elettorale risulterebbe sanzionata, ancorché in forme differenti, non soltanto con riferimento allo svolgimento delle elezioni amministrative ma anche con riguardo ad ogni altra competizione elettorale, e ciò escluderebbe la possibilità di affermare che l’art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993 violi il principio dettato dall’art. 3 Cost.;

che la differenza di trattamento sanzionatorio prevista per la violazione del divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni, a seconda che la stessa si verifichi in occasione delle elezioni amministrative (sanzione penale), ovvero in relazione alle elezioni politiche, europee e regionali (provvedimenti sanzionatori da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), non sarebbe costituzionalmente illegittima, alla luce della giurisprudenza di questa Corte;

che, infatti, essa, proprio con riferimento alla legislazione elettorale, avrebbe ritenuto ammissibile l’esistenza di sottosistemi come «espressione della discrezionalità (da riconoscere) al legislatore per quanto attiene alla sfera della punibilità» (sentenza n. 455 del 1998), nonché «ammissibile l’esistenza di regimi sanzionatori differenziati, frutto di scelte discrezionali del legislatore), a condizione che queste ultime non trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenze n. 394 del 2006, n. 144 del 2005, n. 364 del 2004 e n. 287 del 2001);

che, nella specie, la scelta del legislatore, diretta a sanzionare più severamente la violazione del divieto di propaganda elettorale, da parte delle pubbliche amministrazioni, quando essa si verifichi in occasione delle elezioni amministrative, non può ritenersi manifestamente irragionevole o arbitraria;

che, invero, l’esigenza di evitare che la comunicazione degli enti pubblici possa determinare interferenze e distorsioni, rispetto ad una libera consultazione elettorale, sarebbe più avvertita con riferimento alle consultazioni elettorali amministrative, aventi una dimensione locale rispetto alle altre riguardanti l’intero territorio nazionale (come nel caso delle elezioni politiche ed europee) o, comunque, l’ambito regionale.

Considerato che il Tribunale di Catania, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 29, comma 5, in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), che, nell’ambito delle elezioni amministrative, incrimina la violazione del divieto di svolgere attività di propaganda elettorale di qualsiasi genere, da parte delle pubbliche amministrazioni, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa;

che la norma censurata sarebbe in contrasto col principio di ragionevolezza, perché l’art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), che prevedeva un identico divieto con riguardo all’elezione di tali organi, è stato abrogato dall’art. 13 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), onde non sarebbe giustificato, nel quadro del menzionato principio, «il mantenimento della sanzione penale per una condotta che, tutt’ora oggetto di incriminazione nell’ambito della disciplina delle elezioni amministrative, non subisce sanzione ove posta in essere in occasione della competizione elettorale nazionale»;

che la questione è manifestamente inammissibile, in ragione delle gravi carenze che inficiano la descrizione della fattispecie sottoposta all’esame del giudice a quo (ex plurimis: ordinanze nn. 146 e 85 del 2010; nn. 211 e 181 del 2009);

che, infatti, mentre per il primo dei quattro imputati si fa riferimento, per descrivere la condotta incriminata, all’organizzazione di due incontri di propaganda politico-elettorale all’interno di un complesso ospedaliero, del quale il prevenuto era direttore generale (peraltro, senza indicare le date degli incontri), per gli altri tre si afferma soltanto che l’organizzazione avrebbe avuto luogo nel loro “interesse”, ma manca qualsiasi descrizione della condotta ai medesimi ascritta, non sono chiariti i ruoli dei compartecipi e neppure è detto se essi abbiano o meno preso parte agli incontri stessi;

che tali dati, necessari per consentire a questa Corte la verifica della rilevanza della questione proposta in relazione alla fattispecie concreta, non possono essere desunti dall’esame degli atti processuali, non consentito in questa sede in ossequio al principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione;

che, sotto altro profilo, detta ordinanza presenta un petitum oscuro o, comunque, ambiguo, perché non spiega se ritiene che si debba pervenire ad una sentenza caducatoria della norma censurata, oppure se intenda ottenere una pronunzia che dichiari l’illegittimità costituzionale della norma stessa nella parte in cui punisce la condotta incriminata con la multa anziché con una sanzione amministrativa pecuniaria di corrispondente importo, come il richiamo alla sentenza n. 287 del 2001 lascerebbe intendere.

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 5, in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Tribunale di Catania con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI